giovedì 23 marzo 2017

Disattivazione della corrente elettrica al condomino moroso

Che la morosità condominiale fosse - probabilmente complice la crisi generale - dura a morire lo si sapeva, ma forse si sperava che quanto disposto dalla Riforma del 2013 si muovesse nel senso di attenuarne le conseguenze, specie alla luce dei più pregnanti poteri/doveri di recupero coattivo in capo all’amministratore.
Tra questi deterrenti, indubbiamente, rientra la possibilità, in ipotesi di mancato pagamento dei contributi che si protragga per oltre sei mesi, di “sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato”, contemplata dall’art. 63, comma 3, disp. att. c.c., che non prevede più la preventiva autorizzazione, a monte, da parte del regolamento di condominio.
Tuttavia, sia per il ristretto àmbito giuridico di operatività di tale norma, sia per la non agevole realizzazione pratica dell’iniziativa, sia per gli interventi ostativi da parte della magistratura (sia civile che penale), l’arma de qua si è rivelata spuntata, per cui l’amministratore di condominio si trova con sempre meno frecce al suo arco.
Ma procediamo con ordine.
Sotto il primo aspetto, si osserva che risulta difficile individuare i “servizi comuni suscettibili di godimento separato”: in quest’ottica, potrebbero esserlo il servizio di ascensore - si pensi alla transennatura dell’impianto ai relativi pianerottoli, con dotazione delle chiavi ai soli condomini puntuali nei pagamenti - il servizio idrico, il servizio di riscaldamento, mentre dubbi, per loro indivisibilità, potrebbero nutrirsi per il servizio di illuminazione ed il servizio di pulizia; si pensi, poi, al servizio di portierato, laddove il portiere custodisce lo stabile intero, con un’attività variegata, che mira alla conservazione lato sensu dell’edificio di cui beneficiano tutti coloro che vi abitano (in quest’ottica, sarebbe impensabile che il dipendente del condominio consegnasse la posta a tutti salvo che al condomino moroso o, addirittura, consentisse indirettamente l’ingresso nella sua abitazione ai ladri!).
Sotto il secondo aspetto, occorre considerare le criticità operative perché, talvolta, l’iniziativa richiede anche interventi da attuare sugli impianti da eseguirsi all’interno - non solo delle parti comuni, ma anche - della proprietà esclusiva del condomino moroso: infatti, anche se trattasi di servizi suscettibili di utilizzazione separata, per effettuare la misura di privazione dell’uso, talvolta, l’amministratore ha bisogno di accedere nell’appartamento del condomino insolvente per adottare gli opportuni “isolamenti”.
Sotto il terzo aspetto, a fronte dell’esigenza di scoraggiare pratiche dilatorie nei pagamenti da parte dei condomini - con immaginabili conseguenze per quanto concerne il soddisfacimento dei terzi creditori del condominio (appaltatori, fornitori, ecc.) e le connesse sospensioni dei relativi servizi - si evidenzia che l’amministratore ha agito motu proprio, in quanto non abbisogna più di alcuna autorizzazione da parte del regolamento, ma ciò non ha impedito ai giudici competenti di censurare la legittimità della stessa iniziativa.
In sede civile, la relativa controversia ha registrato sostanzialmente due modalità di “accesso” all’autorità giudiziaria, nel senso che il ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. è stato proposto o da parte del condomino moroso che si è visto sospendere il servizio suscettibile di godimento separato ad opera dell’amministratore, oppure da parte di quest’ultimo il quale ha invocato dal magistrato l’autorizzazione per entrare nell’appartamento del suddetto condomino per adottare gli accorgimenti tecnici idonei a realizzare la sospensione del servizio medesimo.
Nella maggior parte dei casi sottoposti all’esame dei giudici di merito e nella prospettiva di un equo bilanciamento dei contrapposti interessi, hanno prevalso quelli del condomino moroso piuttosto che quelli del condominio.
Invero, sul versante del c.d. fumus boni iuris, si è ritenuto che la privazione di una fornitura essenziale per la vita, quale il riscaldamento in periodo invernale o l’acqua potabile, è suscettibile di ledere i diritti fondamentali della persona, di rilevanza costituzionale, quale il diritto alla salute (art. 32 Cost.).
Sul versante del c.d. periculum in mora, si è sottolineato che il diritto che, con la sospensione del servizio, si intende tutelare, è puramente economico e sempre riparabile, nel senso che il recupero di eventuali crediti é sempre possibile, potendo il creditore contare anche sulla garanzia costituita dagli immobili dei singoli condomini.
In sede penale, la tematica de qua è stata affrontata da una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 47276 del 30 novembre 2015, la quale ha confermato la condanna con cui si è ritenuto un “amministratore di fatto” responsabile del delitto di cui all’art. 392 c.p., oltrechè tenuto al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile.
In particolare, i giudici di merito avevano accertato che l’imputato, nella sua qualità di gestore di un residence, aveva “disattivato la derivazione della corrente elettrica verso l’unità abitativa di un condomino che non aveva provveduto al pagamento di utenze condominiali”.
Secondo i suddetti giudici, l’imputato, quantunque non fosse il rappresentante della società che amministrava il condominio, doveva considerarsi il gestore di quest’ultimo, essendo emerso che agiva sempre per conto di tale società, provvedendo direttamente a pagare le spese condominiali e le utenze elettriche.
Avverso la sentenza, emessa dal giudice del gravame e confermativa di quella di prime cure, ricorreva per cassazione l’imputato.Per quel che interessa in questa sede, il ricorrente lamentava soprattutto la violazione dell’art. 392 c.p. e degli artt. 125, comma 3, e 546, lett. e), c.p.p. - in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p. - rilevando che i giudici di merito non avrebbero preso in considerazione la circostanza documentata in sede di appello, rilevante anche ai fini della valutazione del dolo, che l’amministratore della società, che gestiva il residence, aveva comunicato alla parte offesa di aver dato incarico ad un tecnico addetto della manutenzione di staccare l’energia elettrica del suo alloggio, per cui l’imputato avrebbe agito come mero esecutore di direttive adottate dalla società in questione.
I magistrati di Piazza Cavour hanno ritenuto tale lagnanza “palesemente infondata”, in quanto la prova che si assumeva essere stata pretermessa dai giudici di merito non aveva la forza di disarticolare l’intero ragionamento probatorio della gravata sentenza.
E’ stato ribadito, in proposito, che il vizio di “travisamento della prova”, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo (purché specificamente indicati dal ricorrente), è ravvisabile solo se l’errore accertato sia idoneo appunto a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per l’essenziale forza dimostrativa del dato processuale (v., tra le tante, Cass. pen. 16 gennaio 2014 n. 5146).
Nel caso in esame, la circostanza che l’imputato avesse eseguito decisioni o direttive del titolare del diritto non escludeva affatto, di per sé, la punibilità dell’agente, in quanto - per costante giurisprudenza, v., ex multis, Cass. pen. 16 marzo 2001 n. 14335; Cass. pen. 30 aprile 1985 n. 8434 - il soggetto attivo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere anche colui che eserciti un diritto pur non avendone la titolarità, ma agendo per conto dell’effettivo titolare.
Né tale circostanza poteva escludere, nel caso di specie, il dolo dell’agente: è stato rammentato, sul punto, che il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto dall’art. 392 c.p., richiede, oltre il dolo generico, costituito dalla coscienza e volontà di farsi ragione da sé, pur potendo ricorrere al giudice, anche quello specifico, rappresentato dall’intento di esercitare un preteso diritto nel ragionevole convincimento della sua legittimità.
In particolare, la sentenza impugnata aveva affermato che, dalle deposizioni testimoniali, era emerso che l’imputato si era occupato da sempre della riscossione, per conto della società, delle quote condominiali (tra cui quelle dell’energia elettrica).
Pertanto, l’imputato, nel momento in cui aveva effettuato l’illecito distacco dell’utenza, era ben consapevole di agire per esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa competesse alla società.
Orbene, la sintetica motivazione della pronuncia degli ermellini non consente di capire se, alla base dell’iniziativa dell’amministratore del condominio (o della sua longa manus), ci fosse o meno una morosità ultrasemestrale, fatto sta che, al fine di non incappare nel delitto previsto dall’art. 392 c.p. - che punisce “chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo” - sembra che necessariamente si debba richiedere al magistrato l’autorizzazione al distacco del servizio comune a carico del condomino inadempiente.
In tal modo, riemergerebbe quel temperamento che era scomparso nella versione definitiva dell’art. 63, comma 3, disp. att. c.c., laddove, in un primo momento durante il percorso parlamentare della Riforma, si era stabilito che il suddetto potere di sospensione dalla fruizione dei servizi comuni, in capo all’amministratore, era così limitato: “salvo che l’autorità giudiziaria, adita anche in via d’urgenza, riconosca l’essenzialità del servizio per la realizzazione di diritti fondamentali della persona e l’impossibilità oggettiva del ricorso a mezzi alternativi”.
Un’ulteriore esimente per l’amministratore potrebbe essere costituita dall’autorizzazione prevista in via generale nel regolamento di condominio, con una sorta di ritorno al passato, ossia alla vecchia versione del capoverso in esame, essendo ragionevole opinare che debba trattarsi comunque di un regolamento non necessariamente contrattuale, potendosi rinvenire tale previsione anche in uno approvato con le maggioranze di cui all’art. 1136, comma 2, c.c., richiamato dall’art. 1138, comma 3, c.c.; d’altronde, atteso che la sanzione é volta a colpire l’inadempienza del condomino, l’unanimità sarebbe difficile da raggiungere in quanto presumibilmente proprio quest’ultimo esprimerebbe sempre il veto, perché non propenso ad approvare una misura sostanzialmente “masochistica”.
E’ opportuno, altresì, segnalare che, in una precedente versione parlamentare dello stesso capoverso - non trasfusa, poi, nel testo definitivo - si era aggiunto che i condomini in ritardo di un semestre nel pagamento dei contributi non avessero più il diritto di voto; l’opportuna eliminazione di tale previsione comporta che lo stesso risultato non possa essere stabilito da una clausola regolamentare che, parimenti, faccia discendere dalla morosità del condomino l’inibizione di tale esercizio in assemblea, atteso che una clausola limitativa della facoltà primaria del singolo partecipante, pur inserita in un àmbito di autonomia negoziale o in un regolamento di natura contrattuale, sembra decisamente alterare lo schema essenziale della disciplina legislativa del condominio.
In argomento, è intervenuta anche la magistratura amministrativa - v. T.A.R. Lazio, Sez. distac. di Latina, 2 novembre 2015 n. 711 - la quale ha affermato che il Sindaco non può ordinare al gestore del servizio idrico il ripristino immediato della fornitura di acqua a favore del condomino che non paga puntualmente le rate condominiali, con ciò annullando l’ordinanza emessa, a difesa di alcuni cittadini, ai quali era stata interrotta la relativa erogazione dell’acqua per gravi morosità.
Al riguardo, si è ribadito che il Sindaco non può intervenire d’autorità, in quanto il Comune è “estraneo al rapporto contrattuale utente-gestore”; peraltro, lo stesso strumento amministrativo utilizzato per imporre il riallaccio dell’acqua - ordinanza ex art. 50 del d.lgs. n. 267/2000 - risultava illegittimo e del tutto sproporzionato all’obiettivo da raggiungere, in carenza dei presupposti di “contingibilità” e di “urgenza” richiesti dalla legge.
Nella specie, il gestore del servizio idrico aveva proceduto alla sospensione della fornitura di acqua nei confronti di alcuni utenti per gravi morosità (da euro 3.000,00 fino a euro 20.000,00); successivamente, il Sindaco aveva adottato l’ordinanza per ripristinare immediatamente il servizio idrico, ritenendo, tra l’altro, che il suddetto gestore non potesse procedere al distacco completo del servizio idrico, ma soltanto alla riduzione del flusso al “minimo vitale”; quest’ultimo aveva impugnato l’ordinanza de qua, ritenendola contraria alle norme sulle competenze del Sindaco fissate dal Testo unico degli Enti locali, poiché non esistevano pericoli per l’igiene e la salute pubblica, tutelavano “esclusivamente gli interessi dell’utente privato”, e si basavano su irrilevanti “aspetti di natura socio-assistenziale”.
I giudici amministrativi hanno accolto il ricorso sulla base del principio - più volte affermato in giurisprudenza, v., da ultimo, T.A.R. Cagliari n. 855/2015 - secondo il quale il Sindaco non può intervenire con l’ordinanza prevista dall’art. 50, comma 5, T.U.E.L. a vietare al gestore del servizio idrico l’interruzione della fornitura nei confronti di singoli utenti morosi, poiché in questo caso si realizza uno “sviamento di potere”, che vede il Comune, estraneo al rapporto contrattuale gestoreutente, impedire al medesimo gestore di azionare i rimedi di legge tesi ad interrompere la somministrazione di acqua nei confronti di utenti non in regola con il pagamento della prevista tariffa.
La giurisprudenza amministrativa sembra, dunque, oramai concordare sul fatto che il Comune e, più in generale, la P.A., non possa intervenire d’autorità nella sfera dei rapporti tra privati utilizzando gli strumenti del diritto pubblico (cui adde T.A.R. Piemonte n. 996/2015, il quale ha annullato l’ordinanza con cui il Sindaco aveva imposto al condominio il ripristino del riscaldamento centralizzato e l’eliminazione degli impianti autonomi, a tutela dei condomini rimasti senza riscaldamento).
Con questo, non si vuole assolutamente provocare la lesione del diritto alla salute, all’incolumità e all’integrità fisica dei condomini privati del godimento del servizio condominiale, atteso che non si deve oltrepassare mai quella “soglia minima di solidarietà e di rispetto” comunque necessaria e doverosa nella gestione dei rapporti condominiali.
Tuttavia, si cerca di evitare quegli inconvenienti correlati alla difficoltà nei pagamenti nei confronti dei terzi creditori del condominio, mettendo in atto uno degli strumenti più persuasivi e diretti per combattere le morosità condominiali, mediante la possibilità di escludere il condomino inadempiente dall’utilizzazione dei servizi comuni, segnatamente sospendendone la fruizione di quelli suscettibili di godimento separato.
In buona sostanza, nella nuova ottica delineata dall’art. 63, comma 3, disp. att. c.c., l’interruzione di un servizio comune, qualora leda un diritto costituzionalmente tutelato - quale, nel caso concreto, il diritto alla salute - non dovrebbe trovare applicazione nei confronti di un condominio moroso, comportando che il nuovo strumento dissuasivo dovrà essere applicato con estrema prudenza da parte dell’amministratore, tanto più che ora non si prevede alcun passaggio preventivo in sede assembleare, né che vi sia un’apposita clausola del regolamento che autorizzi siffatta iniziativa.
Nel silenzio della norma, sembra che il potere discrezionale conferito all’amministratore - restando il suo dovere di perseguire il moroso, in modo incisivo, mediante il ricorso al decreto ingiuntivo di cui al comma 1 dello stesso art. 63 disp. att. c.c. - debba essere messo in atto cum grano salis, solo in situazioni talmente gravi da non consentirgli una diversa soluzione, e sempre alla luce dei canoni generali della diligenza del buon padre di famiglia, stando attenti a che il magistrato, a seguito di istanza (di regola, d’urgenza) del condomino leso, potrebbe censurare eventuali azioni che possano minacciare i diritti soggetti fondamentali della persona umana.
Ad ogni buon conto, appare chiaro il messaggio del legislatore nel senso di responsabilizzare i condomini a provvedere celermente a saldare i propri debiti, pena la sospensione del servizio comune, ma è pur sempre preferibile - qualora appunto la risposta alla morosità di uno dei partecipanti non si fermi solamente all’aspetto “economico” - che il regolamento, per così dire a monte, o l’assemblea, di volta in volta, indichi con precisione le ipotesi in presenza delle quali l’amministratore possa avvalersi del rimedio in esame e, altresì, le modalità concrete con cui attuare tale reazione “in natura”.
Invero, trattasi, pur sempre, di una misura privata abbastanza grave, per non dire odiosa, che assomiglia molto alla “ragion fattasi” - e la sentenza penale in commento ne è un’indiretta dimostrazione - riservata di solito alla pubblica amministrazione o agli esercenti pubblici servizi, in ordine alla quale il singolo condomino, privato dell’uso del servizio comune, si viene a trovare in una situazione di pati a fronte della quale non sembra possa avanzare alcuna pretesa risarcitoria.
Nel previgente regime, lo stesso legislatore, disponendo che l’inibitoria attuata dall’amministratore trovasse la fonte legittimante nel regolamento, tutelava in qualche modo lo stesso condomino moroso da decisioni arbitrarie dell’amministratore, specie laddove non venivano contemplate adeguate proporzioni tra debito del singolo e servizio sospeso.
Nel difetto della previsione regolamentare - eliminata nell’attuale regime - l’amministratore, ricorrendo a questa misura drastica, agisce a proprio rischio, nel senso che, qualora nel successivo eventuale giudizio instaurato dal condomino pregiudicato dalla suddetta privazione, si accertasse l’inesistenza della morosità del condomino medesimo o, addirittura, venisse negato il credito del condominio, potrebbe configurarsi una qualche responsabilità in capo all’amministratore medesimo.
Al contempo, non potrà evitarsi di attribuire, all’amministratore di condominio, un vero e proprio potere/dovere in tal senso, conseguendone, da un lato, che l’amministratore dovrà esercitarlo senza tenere conto della volontà dei condomini (a meno che non si pervenga ad una modifica del regolamento), e, dall’altro, che il medesimo amministratore sarà inevitabilmente costretto ad applicare la misura sanzionatoria per non incorrere lui in un inadempimento (e, quindi, in una possibile revoca assembleare o giudiziaria).
In altri termini, solo l’esperienza e la professionalità sapranno suggerire all’amministratore quando è opportuno, oltre che legittimo, esercitare tale forma di autotutela (che comporta il vivere in un appartamento gelato o il farsi la doccia fredda): è vero che ci sono condomini che non arrivano a fine mese, riuscendo con difficoltà a “sbarcare il lunario”, vivendo stentatamente e mettendo insieme il denaro appena sufficiente alla sopravvivenza quotidiana, ma è anche vero che alcuni intenzionalmente non pagano le rate condominiali, optando per l’acquisto in leasing del suv o preferendo non privarsi dello smartphone di ultima generazione!

di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione

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