Che la morosità condominiale fosse - probabilmente complice la crisi generale - dura a morire lo si sapeva, ma forse si sperava che quanto disposto dalla Riforma del 2013 si muovesse nel senso di attenuarne le conseguenze, specie alla luce dei più pregnanti poteri/doveri di recupero coattivo in capo all’amministratore.
Tra questi deterrenti, indubbiamente, rientra la
possibilità, in ipotesi di mancato pagamento dei
contributi che si protragga per oltre sei mesi, di
“sospendere il condomino moroso dalla fruizione
dei servizi comuni suscettibili di godimento separato”,
contemplata dall’art. 63, comma 3, disp.
att. c.c., che non prevede più la preventiva autorizzazione,
a monte, da parte del regolamento di
condominio.
Tuttavia, sia per il ristretto àmbito giuridico di
operatività di tale norma, sia per la non agevole
realizzazione pratica dell’iniziativa, sia per gli
interventi ostativi da parte della magistratura
(sia civile che penale), l’arma de qua si è rivelata
spuntata, per cui l’amministratore di condominio
si trova con sempre meno frecce al suo arco.
Ma procediamo con ordine.
Sotto il primo aspetto, si osserva che risulta difficile
individuare i “servizi comuni suscettibili di
godimento separato”: in quest’ottica, potrebbero
esserlo il servizio di ascensore - si pensi alla
transennatura dell’impianto ai relativi pianerottoli,
con dotazione delle chiavi ai soli condomini
puntuali nei pagamenti - il servizio idrico, il
servizio di riscaldamento, mentre dubbi, per loro
indivisibilità, potrebbero nutrirsi per il servizio di
illuminazione ed il servizio di pulizia; si pensi,
poi, al servizio di portierato, laddove il portiere
custodisce lo stabile intero, con un’attività variegata,
che mira alla conservazione lato sensu
dell’edificio di cui beneficiano tutti coloro che
vi abitano (in quest’ottica, sarebbe impensabile
che il dipendente del condominio consegnasse la
posta a tutti salvo che al condomino moroso o,
addirittura, consentisse indirettamente l’ingresso
nella sua abitazione ai ladri!).
Sotto il secondo aspetto, occorre considerare le
criticità operative perché, talvolta, l’iniziativa richiede
anche interventi da attuare sugli impianti
da eseguirsi all’interno - non solo delle parti
comuni, ma anche - della proprietà esclusiva del
condomino moroso: infatti, anche se trattasi di servizi suscettibili di utilizzazione separata, per
effettuare la misura di privazione dell’uso, talvolta,
l’amministratore ha bisogno di accedere
nell’appartamento del condomino insolvente per
adottare gli opportuni “isolamenti”.
Sotto il terzo aspetto, a fronte dell’esigenza di
scoraggiare pratiche dilatorie nei pagamenti da
parte dei condomini - con immaginabili conseguenze
per quanto concerne il soddisfacimento
dei terzi creditori del condominio (appaltatori,
fornitori, ecc.) e le connesse sospensioni dei relativi
servizi - si evidenzia che l’amministratore ha
agito motu proprio, in quanto non abbisogna più
di alcuna autorizzazione da parte del regolamento,
ma ciò non ha impedito ai giudici competenti
di censurare la legittimità della stessa iniziativa.
In sede civile, la relativa controversia ha registrato
sostanzialmente due modalità di “accesso”
all’autorità giudiziaria, nel senso che il ricorso
d’urgenza ex art. 700 c.p.c. è stato proposto o da
parte del condomino moroso che si è visto sospendere
il servizio suscettibile di godimento separato
ad opera dell’amministratore, oppure da parte di
quest’ultimo il quale ha invocato dal magistrato
l’autorizzazione per entrare nell’appartamento del
suddetto condomino per adottare gli accorgimenti
tecnici idonei a realizzare la sospensione del
servizio medesimo.
Nella maggior parte dei casi sottoposti all’esame
dei giudici di merito e nella prospettiva di
un equo bilanciamento dei contrapposti interessi,
hanno prevalso quelli del condomino moroso
piuttosto che quelli del condominio.
Invero, sul versante del c.d. fumus boni iuris, si
è ritenuto che la privazione di una fornitura essenziale
per la vita, quale il riscaldamento in periodo
invernale o l’acqua potabile, è suscettibile
di ledere i diritti fondamentali della persona, di
rilevanza costituzionale, quale il diritto alla salute
(art. 32 Cost.).
Sul versante del c.d. periculum in mora, si è sottolineato
che il diritto che, con la sospensione
del servizio, si intende tutelare, è puramente
economico e sempre riparabile, nel senso che il
recupero di eventuali crediti è sempre possibile,
potendo il creditore contare anche sulla garanzia
costituita dagli immobili dei singoli condomini.
In sede penale, la tematica de qua è stata affrontata
da una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 47276 del 30 novembre 2015, la
quale ha confermato la condanna con cui si è ritenuto
un “amministratore di fatto” responsabile
del delitto di cui all’art. 392 c.p., oltrechè tenuto
al risarcimento del danno in favore della costituita
parte civile.
In particolare, i giudici di merito avevano accertato
che l’imputato, nella sua qualità di gestore
di un residence, aveva “disattivato la derivazione
della corrente elettrica verso l’unità abitativa di
un condomino che non aveva provveduto al pagamento
di utenze condominiali”.
Secondo i suddetti giudici, l’imputato, quantunque
non fosse il rappresentante della società che
amministrava il condominio, doveva considerarsi
il gestore di quest’ultimo, essendo emerso che
agiva sempre per conto di tale società, provvedendo
direttamente a pagare le spese condominiali
e le utenze elettriche.
Avverso la sentenza, emessa dal giudice del gravame
e confermativa di quella di prime cure, ricorreva
per cassazione l’imputato.
Per quel che interessa in questa sede, il ricorrente
lamentava soprattutto la violazione dell’art.
392 c.p. e degli artt. 125, comma 3, e 546, lett.
e), c.p.p. - in relazione all’art. 606, comma 1,
lett. b) ed e), c.p.p. - rilevando che i giudici di
merito non avrebbero preso in considerazione la
circostanza documentata in sede di appello, rilevante
anche ai fini della valutazione del dolo,
che l’amministratore della società, che gestiva
il residence, aveva comunicato alla parte offesa
di aver dato incarico ad un tecnico addetto della
manutenzione di staccare l’energia elettrica del
suo alloggio, per cui l’imputato avrebbe agito
come mero esecutore di direttive adottate dalla
società in questione.
I magistrati di Piazza Cavour hanno ritenuto tale
lagnanza “palesemente infondata”, in quanto la
prova che si assumeva essere stata pretermessa
dai giudici di merito non aveva la forza di disarticolare
l’intero ragionamento probatorio della
gravata sentenza.
E’ stato ribadito, in proposito, che il vizio di
“travisamento della prova”, desumibile dal testo
del provvedimento impugnato o da altri atti del
processo (purché specificamente indicati dal ricorrente),
è ravvisabile solo se l’errore accertato
sia idoneo appunto a disarticolare l’intero ragionamento
probatorio, rendendo illogica la motivazione
per l’essenziale forza dimostrativa del dato
processuale (v., tra le tante, Cass. pen. 16 gennaio
2014 n. 5146).
Nel caso in esame, la circostanza che l’imputato
avesse eseguito decisioni o direttive del titolare
del diritto non escludeva affatto, di per sé, la
punibilità dell’agente, in quanto - per costante giurisprudenza, v., ex multis, Cass. pen. 16 marzo
2001 n. 14335; Cass. pen. 30 aprile 1985 n. 8434
- il soggetto attivo del delitto di esercizio arbitrario
delle proprie ragioni può essere anche colui
che eserciti un diritto pur non avendone la titolarità,
ma agendo per conto dell’effettivo titolare.
Né tale circostanza poteva escludere, nel caso di
specie, il dolo dell’agente: è stato rammentato,
sul punto, che il delitto di esercizio arbitrario
delle proprie ragioni, previsto dall’art. 392 c.p.,
richiede, oltre il dolo generico, costituito dalla
coscienza e volontà di farsi ragione da sé, pur potendo
ricorrere al giudice, anche quello specifico,
rappresentato dall’intento di esercitare un preteso
diritto nel ragionevole convincimento della sua
legittimità.
In particolare, la sentenza impugnata aveva affermato
che, dalle deposizioni testimoniali, era
emerso che l’imputato si era occupato da sempre
della riscossione, per conto della società, delle
quote condominiali (tra cui quelle dell’energia
elettrica).
Pertanto, l’imputato, nel momento in cui aveva
effettuato l’illecito distacco dell’utenza, era ben
consapevole di agire per esercitare un diritto con
la coscienza che l’oggetto della pretesa competesse
alla società.
Orbene, la sintetica motivazione della pronuncia
degli ermellini non consente di capire se,
alla base dell’iniziativa dell’amministratore del
condominio (o della sua longa manus), ci fosse
o meno una morosità ultrasemestrale, fatto sta
che, al fine di non incappare nel delitto previsto
dall’art. 392 c.p. - che punisce “chiunque, al fine
di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere
al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo”
- sembra che necessariamente si debba
richiedere al magistrato l’autorizzazione al distacco
del servizio comune a carico del condomino
inadempiente.
In tal modo, riemergerebbe quel temperamento
che era scomparso nella versione definitiva
dell’art. 63, comma 3, disp. att. c.c., laddove, in
un primo momento durante il percorso parlamentare
della Riforma, si era stabilito che il suddetto
potere di sospensione dalla fruizione dei servizi
comuni, in capo all’amministratore, era così limitato:
“salvo che l’autorità giudiziaria, adita anche
in via d’urgenza, riconosca l’essenzialità del servizio
per la realizzazione di diritti fondamentali
della persona e l’impossibilità oggettiva del ricorso
a mezzi alternativi”.
Un’ulteriore esimente per l’amministratore potrebbe
essere costituita dall’autorizzazione prevista
in via generale nel regolamento di condominio,
con una sorta di ritorno al passato, ossia
alla vecchia versione del capoverso in esame, essendo ragionevole opinare che debba trattarsi
comunque di un regolamento non necessariamente
contrattuale, potendosi rinvenire tale previsione
anche in uno approvato con le maggioranze
di cui all’art. 1136, comma 2, c.c., richiamato
dall’art. 1138, comma 3, c.c.; d’altronde, atteso
che la sanzione é volta a colpire l’inadempienza
del condomino, l’unanimità sarebbe difficile da
raggiungere in quanto presumibilmente proprio
quest’ultimo esprimerebbe sempre il veto, perché
non propenso ad approvare una misura sostanzialmente
“masochistica”.
E’ opportuno, altresì, segnalare che, in una precedente
versione parlamentare dello stesso capoverso
- non trasfusa, poi, nel testo definitivo - si era
aggiunto che i condomini in ritardo di un semestre
nel pagamento dei contributi non avessero più il
diritto di voto; l’opportuna eliminazione di tale
previsione comporta che lo stesso risultato non
possa essere stabilito da una clausola regolamentare
che, parimenti, faccia discendere dalla morosità
del condomino l’inibizione di tale esercizio in
assemblea, atteso che una clausola limitativa della
facoltà primaria del singolo partecipante, pur
inserita in un àmbito di autonomia negoziale o
in un regolamento di natura contrattuale, sembra
decisamente alterare lo schema essenziale della
disciplina legislativa del condominio.
In argomento, è intervenuta anche la magistratura
amministrativa - v. T.A.R. Lazio, Sez. distac.
di Latina, 2 novembre 2015 n. 711 - la quale ha
affermato che il Sindaco non può ordinare al gestore
del servizio idrico il ripristino immediato
della fornitura di acqua a favore del condomino
che non paga puntualmente le rate condominiali,
con ciò annullando l’ordinanza emessa, a difesa
di alcuni cittadini, ai quali era stata interrotta la
relativa erogazione dell’acqua per gravi morosità.
Al riguardo, si è ribadito che il Sindaco non può
intervenire d’autorità, in quanto il Comune è
“estraneo al rapporto contrattuale utente-gestore”;
peraltro, lo stesso strumento amministrativo
utilizzato per imporre il riallaccio dell’acqua
- ordinanza ex art. 50 del d.lgs. n. 267/2000 -
risultava illegittimo e del tutto sproporzionato
all’obiettivo da raggiungere, in carenza dei presupposti
di “contingibilità” e di “urgenza” richiesti
dalla legge.
Nella specie, il gestore del servizio idrico aveva
proceduto alla sospensione della fornitura di acqua
nei confronti di alcuni utenti per gravi morosità
(da euro 3.000,00 fino a euro 20.000,00);
successivamente, il Sindaco aveva adottato l’ordinanza
per ripristinare immediatamente il servizio
idrico, ritenendo, tra l’altro, che il suddetto gestore
non potesse procedere al distacco completo
del servizio idrico, ma soltanto alla riduzione del flusso al “minimo vitale”; quest’ultimo aveva
impugnato l’ordinanza de qua, ritenendola contraria
alle norme sulle competenze del Sindaco
fissate dal Testo unico degli Enti locali, poiché
non esistevano pericoli per l’igiene e la salute
pubblica, tutelavano “esclusivamente gli interessi
dell’utente privato”, e si basavano su irrilevanti
“aspetti di natura socio-assistenziale”.
I giudici amministrativi hanno accolto il ricorso
sulla base del principio - più volte affermato in
giurisprudenza, v., da ultimo, T.A.R. Cagliari n.
855/2015 - secondo il quale il Sindaco non può
intervenire con l’ordinanza prevista dall’art. 50,
comma 5, T.U.E.L. a vietare al gestore del servizio
idrico l’interruzione della fornitura nei confronti
di singoli utenti morosi, poiché in questo
caso si realizza uno “sviamento di potere”, che
vede il Comune, estraneo al rapporto contrattuale
gestore-utente, impedire al medesimo gestore di
azionare i rimedi di legge tesi ad interrompere la
somministrazione di acqua nei confronti di utenti
non in regola con il pagamento della prevista
tariffa.
La giurisprudenza amministrativa sembra, dunque,
oramai concordare sul fatto che il Comune
e, più in generale, la P.A., non possa intervenire
d’autorità nella sfera dei rapporti tra privati
utilizzando gli strumenti del diritto pubblico (cui
adde T.A.R. Piemonte n. 996/2015, il quale ha
annullato l’ordinanza con cui il Sindaco aveva imposto
al condominio il ripristino del riscaldamento
centralizzato e l’eliminazione degli impianti
autonomi, a tutela dei condomini rimasti senza
riscaldamento).
Con questo, non si vuole assolutamente provocare
la lesione del diritto alla salute, all’incolumità e
all’integrità fisica dei condomini privati del godimento
del servizio condominiale, atteso che non
si deve oltrepassare mai quella “soglia minima di
solidarietà e di rispetto” comunque necessaria e
doverosa nella gestione dei rapporti condominiali.
Tuttavia, si cerca di evitare quegli inconvenienti
correlati alla difficoltà nei pagamenti nei confronti
dei terzi creditori del condominio, mettendo
in atto uno degli strumenti più persuasivi e
diretti per combattere le morosità condominiali,
mediante la possibilità di escludere il condomino
inadempiente dall’utilizzazione dei servizi comuni,
segnatamente sospendendone la fruizione di
quelli suscettibili di godimento separato.
In buona sostanza, nella nuova ottica delineata
dall’art. 63, comma 3, disp. att. c.c., l’interruzione
di un servizio comune, qualora leda un diritto
costituzionalmente tutelato - quale, nel caso concreto,
il diritto alla salute - non dovrebbe trovare
applicazione nei confronti di un condominio moroso,
comportando che il nuovo strumento dissuasivo dovrà essere applicato con estrema prudenza
da parte dell’amministratore, tanto più che ora
non si prevede alcun passaggio preventivo in sede
assembleare, né che vi sia un’apposita clausola
del regolamento che autorizzi siffatta iniziativa.
Nel silenzio della norma, sembra che il potere discrezionale
conferito all’amministratore - restando
il suo dovere di perseguire il moroso, in modo
incisivo, mediante il ricorso al decreto ingiuntivo
di cui al comma 1 dello stesso art. 63 disp. att.
c.c. - debba essere messo in atto cum grano salis,
solo in situazioni talmente gravi da non consentirgli
una diversa soluzione, e sempre alla luce
dei canoni generali della diligenza del buon padre
di famiglia, stando attenti a che il magistrato, a
seguito di istanza (di regola, d’urgenza) del condomino
leso, potrebbe censurare eventuali azioni
che possano minacciare i diritti soggetti fondamentali
della persona umana.
Ad ogni buon conto, appare chiaro il messaggio
del legislatore nel senso di responsabilizzare i condomini
a provvedere celermente a saldare i propri
debiti, pena la sospensione del servizio comune,
ma è pur sempre preferibile - qualora appunto la
risposta alla morosità di uno dei partecipanti non
si fermi solamente all’aspetto “economico” - che
il regolamento, per così dire a monte, o l’assemblea,
di volta in volta, indichi con precisione le
ipotesi in presenza delle quali l’amministratore
possa avvalersi del rimedio in esame e, altresì, le
modalità concrete con cui attuare tale reazione
“in natura”.
Invero, trattasi, pur sempre, di una misura privata
abbastanza grave, per non dire odiosa,
che assomiglia molto alla “ragion fattasi” - e la
sentenza penale in commento ne è un’indiretta
dimostrazione - riservata di solito alla pubblica
amministrazione o agli esercenti pubblici servizi,
in ordine alla quale il singolo condomino, privato
dell’uso del servizio comune, si viene a trovare in
una situazione di pati a fronte della quale non
sembra possa avanzare alcuna pretesa risarcitoria.
Nel previgente regime, lo stesso legislatore, disponendo che l’inibitoria attuata dall’amministratore
trovasse la fonte legittimante nel regolamento,
tutelava in qualche modo lo stesso condomino
moroso da decisioni arbitrarie dell’amministratore,
specie laddove non venivano contemplate adeguate
proporzioni tra debito del singolo e servizio
sospeso.
Nel difetto della previsione regolamentare - eliminata
nell’attuale regime - l’amministratore,
ricorrendo a questa misura drastica, agisce a
proprio rischio, nel senso che, qualora nel successivo
eventuale giudizio instaurato dal condomino
pregiudicato dalla suddetta privazione, si accertasse
l’inesistenza della morosità del condomino
medesimo o, addirittura, venisse negato il credito
del condominio, potrebbe configurarsi una
qualche responsabilità in capo all’amministratore
medesimo.
Al contempo, non potrà evitarsi di attribuire,
all’amministratore di condominio, un vero e proprio
potere/dovere in tal senso, conseguendone,
da un lato, che l’amministratore dovrà esercitarlo
senza tenere conto della volontà dei condomini
(a meno che non si pervenga ad una modifica
del regolamento), e, dall’altro, che il medesimo
amministratore sarà inevitabilmente costretto ad
applicare la misura sanzionatoria per non incorrere
lui in un inadempimento (e, quindi, in una
possibile revoca assembleare o giudiziaria).
In altri termini, solo l’esperienza e la professionalità
sapranno suggerire all’amministratore quando
è opportuno, oltre che legittimo, esercitare tale
forma di autotutela (che comporta il vivere in un
appartamento gelato o il farsi la doccia fredda):
è vero che ci sono condomini che non arrivano
a fine mese, riuscendo con difficoltà a “sbarcare
il lunario”, vivendo stentatamente e mettendo
insieme il denaro appena sufficiente alla sopravvivenza
quotidiana, ma è anche vero che alcuni
intenzionalmente non pagano le rate condominiali,
optando per l’acquisto in leasing del suv o preferendo
non privarsi dello smartphone di ultima
generazione!
di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione
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