Si è appena aperta la quindicesima edizione della Biennale di Architettura di Venezia. Quella di due anni fa, curata da Rem Koolhaas era stata molto interessante. Quella di quest’anno, curata dall’architetto cileno Alejandro Aravena, premio Pritzker per il 2016, lo è ancora di più. Reporting from the front, questo è il titolo della mostra, è incentrata sui problemi della città contemporanea, disastrata, bellicosa, violenta ed ingiusta.
Parla di etica del costruire e del vivere, del concetto di accoglienza come condivisione delle cose belle del mondo. Indaga sul concetto di responsabilità sociale dell’architetto, progettista e protagonista dei cambiamenti dello spazio in cui viviamo.
Ricerca le buone pratiche ed i migliori esempi di progettualità urbana nei cinque continenti. Rifugge dall’esaltazione delle archistar e dai rendering che, come dice Pierluigi Panza sul Corriere della Sera, rendono stupefacente anche il progetto di un pollaio.
Mostra che l’accoglienza non è solo un dovere, ma è anche una risorsa ed un piacere umano e culturale. Un esempio per tutti: nei muri del padiglione tedesco sono sti aperti dei varchi, per ricordare anche la demolizione del muro di Berlino, e all’interno sono state sistemate un grande numero di sedie. Un inno all’abbattimento dei muri e delle frontiere che cha il suo megafono in un edificio costruito da Albert Speer proprio per Hitler. Ricorda che il problema dei cambiamenti climatici, delle depauperamento delle risorse, della polarizzazione delle diversità e delle disuguaglianze, è molto serio ed ineludibile. Tra le parole chiave per decodificare questa biennale sostenibilità è certamente quella più omnicomprensiva. Sostenibilità nell’approccio progettuale, nell’uso dei materiali, nel rispetto per i cittadini, nell’utilizzo dell’energia, del confort abitativo, nel riciclo dei materiali, nei metabolismi urbani e nelle nuove forme dell’abitare. Il contenimento degli sprechi, ad esempio, viene enfatizzato attraverso il riutilizzo
di molti dei materiali usati nella precedente
edizione della mostra.
Al Padiglione Italiano viene presentata la mostra
Taking Care. Progettare per il bene comune. In
questa esposizione, curata da TAMassociati, vengono
mostrati progetti, anche di modesta dimensione,
di architetti giovani. Sono allestiti anche
cinque stand che mostrano i lavori di altrettante
associazioni le cui attività sono incentrate
sull’impegno sociale realizzato anche attraverso
l’architettura.
Tra gli architetti presenti vale la pena di ricordare
Norman Foster, Renzo Piano, David Chipperfield,
ma la parte del leone la fanno architetti giovani e
non ancora famosi.
Quella di quest’anno è una edizione della Biennale
che parte dal basso, si rivolge ai committenti
più deboli, mette l’individuo al centro del progetto,
mette in evidenza le contraddizioni della
società contemporanea in termini disuguaglianza
sociale, di sfruttamento delle risorse, del rapporto
tra paesi ricchi e paesi poveri.
E’ una esposizione che ha anche l’obiettivo, oltre
che di mostrare architetture, di sensibilizzare
i visitatori sull’importanza di avere, tutti noi,
nessuno escluso, comportamenti responsabili ed
eticamente sostenibili.
Parla molto delle periferie delle città, che sono
energivore, violenti, ingiuste e spesso anche brutte.
Parla di quel patrimonio edilizio esistente che
è anche al centro del Protocollo Abitare Biotech e
che è destinato, nei prossimi decenni, ad essere
il centro di una attività edilizia che si pone come
obiettivo quello di fare più belli, meno energivori,
più sicuri e più confortevoli, tutti gli edifici che
insieme costituiscono la città nella quale, sempre
di più, le donne e gli uomini vogliono abitare.
Una Biennale di Architettura che arriva al momento
giusto per indicarci una via dalla quale non
possiamo più deviare e che diventata non solo
auspicabile, ma decisamente ineludibile.
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