Appare assolutamente ingiustificata la fissazione della misura dei compensi di riscossione a carico del contribuente nella percentuale fissa del 9% delle somme riscosse nel caso in cui il pagamento sia effettuato oltre 60 giorni dalla notifica della cartella di pagamento, anziché in misura corrispondente ai costi del servizio.
Sulla costituzionalità o meno dell’aggio esattoriale,
negli anni scorsi, la Corte Costituzionale
si è pronunciata con la sentenza n.
480 del 22-30 dicembre 1993 e con l’ordinanza n.
147 del 26 maggio 2015, dichiarando in entrambi
i casi la manifesta inammissibilità delle eccezioni
sollevate dai contribuenti in riferimento agli
artt. 3 e 97 della Costituzione, così come sollevate
dalla Commissione Tributaria di primo grado di
Catania e dalle Commissioni Tributarie Provinciali
di Torino e di Latina.
Il problema, però, si è riproposto, giustamente,
per l’importanza dell’argomento, soprattutto in
un momento di crisi economica come l’attuale,
con le ordinanze del 07 luglio 2014 della Commissione
Tributaria Provinciale di Roma (in Gazzetta
Ufficiale del 13 aprile 2016) e della Commissione
Tributaria Provinciale di Milano del 23 novembre
2015 (in Gazzetta Ufficiale del 27 aprile 2016).
In particolare:
- la Commissione Tributaria Provinciale di Roma – Sez 65 - ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 del decreto legislativo n. 112/1999 Testo Unico delle disposizioni concernenti il sistema della remunerazione per la riscossione dei tributi per contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione;
- la Commissione Tributaria Provinciale di Milano – Sez. 29 – ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 del D.Lgs. n. 112/1999, Testo Unico delle disposizioni concernenti il sistema della remunerazione per la riscossione dei tributi, per contrasto con gli artt. 3, 53 e 97 della Costituzione.
Originariamente il pagamento dell’importo controverso
era richiesto al debitore solo in ipotesi di
mancato pagamento della somma dovuta entro i
termini di scadenza della cartella di pagamento;
con le modifiche introdotte dal decreto-legge n.
262/2006 detto esborso è stato generalizzato, essendo
dovuto anche se il contribuente provvede
al pagamento nei termini, di modo che, se l’adempimento
è tempestivo, il compenso ammonta
al 4,65% delle somme iscritte a ruolo, se invece
il pagamento avviene oltre i termini, il compenso
aumenta in una misura pari al 9% (oggi ridotto
all’8%, ma il problema non cambia).
Da ciò deriva che, a parità di servizio offerto,
l’importo del compenso relativo differisce a seconda
del valore della lite, in contrasto con l’art.
3 della Carta costituzionale, talché la misura della
remunerazione non risulta vincolata all’esercizio
di specifiche attività da parte dell’agente della
riscossione, come sarebbe ragionevole, ma unicamente
all’importo delle somme iscritte a ruolo.
Il giudice tributario, poi, condivide le osservazioni
svolte dal contribuente circa l’illegittimità
dell’applicazione del regime descritto con riferimento
a fatti imponibili che risalgono ad un periodo
d’imposta precedente rispetto alla data di
entrata in vigore della normativa in questione (3
ottobre 2006), introdotta dall’art. 2 del decreto legge
n. 262/2006. Ciò per la ragione che, da un
lato, si ritiene debba operare nel caso di specie
il principio di irretroattività delle novelle che
introducano pene più gravi per i contribuenti,
dall’altro determinandosi la discriminatoria conseguenza
che, a fronte di identici fatti imponibili,
all’identico periodo d’imposta riferibili, quanto
all’obbligo di corresponsione del compenso nella
misura stabilita dal mutato tasso percentuale o
di quello precedentemente in vigore, i contribuenti
si troverebbero di fatto in balia del mero
arbitrio dell’amministrazione finanziaria, in grado di unilateralmente incidere su detta misura in dipendenza
del momento della notificazione dell’intimazione
di pagamento.
Sicché i criteri indicati conducono ad una inevitabile
distorsione dell’intero sistema fiscale anche
sotto il profilo dell’art. 53 della Costituzione, tale
sistema essendo di fatto lasciato all’arbitrio delle
agenzie, con la conseguenza che la previsione
dei compensi nella misura minima del 4,65%, non
collegata ad alcuna capacità contributiva, paventa
un danno sia diretto, privando i contribuenti del
diritto di dosare la propria contribuzione in base al
reddito, scegliendo l’intensità delle proprie prestazioni
lavorative, sia indiretto, determinando una
conseguente sfiducia nel sistema fiscale e ostacolando
il libero esercizio delle arti e dei mestieri.
Sotto il profilo dell’art. 97 della Costituzione, ossia
del buon andamento della P.A., la frattura con
il dettato costituzionale si verifica nel momento
in cui il compenso risulti dovuto in assenza di una
qualsiasi attività dell’agente della riscossione, a
detrito tanto del principio amministrativistico
dell’imparzialità e della trasparenza delle scelte
della P.A., quanto del principio di natura civilistica
della corrispettività delle prestazioni.
La questione di legittimità costituzionale involge,
dunque, l’art. 17, comma 1, decreto legislativo
n. 112/1999 per contrasto con l’art. 3 della Costituzione
per violazione del principio di eguaglianza
del cittadino di fronte alla legge laddove
il compenso viene legato al valore della lite anziché
alle prestazioni effettivamente svolte; con
l’art. 53 per violazione del principio di capacità
contributiva essendo prevista quale compenso per
l’attività di riscossione una percentuale fissa sulle
somme iscritte a ruolo e con l’art. 97 della Costituzione,
la normativa difettando di quei criteri
di trasparenza e correlazione con l’attività richiesta
e congruità con i costi medi di gestione del
servizio, corollari necessari del principio di buon
andamento sancito dall’art. 97 della Costituzione.
In punto di non manifesta infondatezza della questione,
il giudice tributario ricorda che la Corte
Costituzionale con la sopra citata sentenza n. 480
del 30 dicembre 1993 ha stabilito che la misura
dell’aggio deve ritenersi ragionevole (e quindi costituzionalmente
legittima) se essa è contenuta
in un importo minimo e massimo che non superi
di molto la soglia di copertura del costo della procedura.
Nello stesso senso, Consiglio di Stato 29
gennaio 2008, n. 272.
Per cui, condividendo i dubbi del contribuente,
il giudice tributario ritiene, giustamente, che la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
17, comma 1, decreto legislativo 13 aprile 1999,
n. 112, come modificato dall’art. 32, comma 1,
lettera a) del decreto legge 29 novembre 2008, n.185, convertito dalla legge 28 gennaio 2009, n.
2, in vigore dal 29 novembre 2008, per contrasto
con gli articoli 3, 53 e 97 della Costituzione, sia
rilevante in quanto esso non può essere definito
in assenza di una risoluzione della questione di
legittimità costituzionale e che tale questione
non sia manifestamente infondata alla luce delle
considerazioni suesposte.
In punto di non manifesta infondatezza della questione,
il giudice tributario rileva che la Corte Costituzionale
con la sentenza n. 480 del 30 dicembre
1993 ha già stabilito che la misura dell’aggio deve
ritenersi ragionevole (e quindi costituzionalmente
legittima) se essa è contenuta in un importo minimo
e massimo che non superi di molto la soglia di
copertura del costo della procedura.
Il giudice tributario ritiene che la norma debba
essere nuovamente valutata sotto un altro profilo.
Appare assolutamente ingiustificata la fissazione
della misura dei compensi di riscossione a carico
del contribuente nella percentuale fissa del nove
per cento delle somme riscosse nel caso in cui
il pagamento sia effettuato oltre sessanta giorni
dalla notifica della cartella di pagamento, anziché
in misura corrispondente ai costi del servizio di
riscossione.
I dubbi in ordine alla ragionevolezza della misura
dell’aggio sono alimentati, oltre che dalla considerazione
che la legge non fissa un importo massimo
prestabilito dello stesso, anche dalla constatazione
che l’agente, nell’ambito della nuova
procedura di riscossione delle somme risultanti
dagli atti di cui alla lett. a) dell’art. 29, comma 1,
del d.l. n. 78 del 2010, non avrà più neppure l’onere
di notificare la cartella di pagamento senza
aggravio di relativi costi.
Se a ciò si aggiunge che, a seguito dell’abrogazione
a decorrere dal 26 febbraio 1999 dell’obbligo del
non riscosso come riscosso (art. 2, comma 1, decreto
legislativo 22 febbraio 1999, n. 37), l’agente
della riscossione non subisce più alcun danno
patrimoniale da riparare per effetto dell’inadempimento
del contribuente e che il servizio di riscossione
coattiva non è più gestito da concessionari
privati, ma da un ente pubblico economico, emergono
con chiarezza i profili di dubbia legittimità
costituzionale dell’attuale disciplina sul punto.
Le considerazioni contenute nella giurisprudenza
della Corte Costituzionale, sul costo del servizio
pubblico di riscossione, tanto più inducono
il giudice tributario a sollevare la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 17, del decreto
legislativo n. 112/1999.
Nella sentenza n. 59/1987 la Corte Costituzionale
ritenne che la scelta del legislatore, seppure discrezionale,
non può sottrarsi al sindacato sotto
il profilo del buona andamento secondo i canoni della non arbitrarietà e della ragionevolezza della
disciplina rispetto al fine indicato nell’art. 97, primo
comma, della Costituzione, di tal che, in sede
di giudizio sulla legittimità costituzionale delle
leggi, la violazione del principio di buon andamento
dell’amministrazione può essere invocata
allorché si assuma l’arbitrarietà o la manifesta irragionevolezza
della disciplina impugnata rispetto
al fine indicato nell’art. 97, primo comma, Costituzione
(Corte Costituzionale n. 10/1980): per
modo che sempre emergono profili di irragionevole
applicazione dell’aggio di riscossione anche
sugli interessi di mora, sol che si consideri che
l’agente della riscossione, in relazione agli importi
non pagati tempestivamente dal contribuente,
non ha anticipato alcuna somma all’erario.
In sintesi si ripete che:
- il giudice tributario rileva che la prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, 1° comma, del decreto legislativo n. 112/1999 è rilevante e non manifestamente infondata atteso che il pagamento dell’aggio è stabilito in misura fissa anziché in misura corrispondente ai costi effettivi del servizio di riscossione;
- l’irrazionalità normativa deriva dalla circostanza che detta misura non assicura che la gestione del servizio sia volta soltanto alla copertura dei costi;
- il dubbio di incostituzionalità si consolida poi laddove viene configurato l’obbligo del pagamento pur in assenza di specifici criteri di determinazione del costo di tale servizio;
- l’obbligo dell’aggio può ritenersi ragionevole e coerente allorché la misura corrisponda al costo effettivo della prestazione, mentre deve ritenersi ingiusto, penalizzante e costituzionalmente illegittimo per l’assenza di un tetto minimo e massimo alla misura dei compensi;
- tale sistema fa risaltare l’incostituzionalità della previsione di una qualche forma di riequilibrio per effetto del d.l. n. 201/2011;
- la disciplina previgente appare quanto mai irragionevole poiché il compenso di riscossione costituisce il corrispettivo di una specifica prestazione di servizi: deve ritenersi del tutto arbitraria la determinazione della misura di tale compenso a carico del contribuente nella percentuale fissa del nove per cento (oggi otto per cento) delle somme iscritte a ruolo, non essendo quest’ultima in alcun modo ancorata ai costi effettivi e giustificati di gestione sostenuti dall’agente della riscossione (e ciò contrasta con l’art. 97 della Costituzione per la manifesta irrazionalità).
Mentre l’impossibilità di accedere a correttivi interpretativi
“costituzionalmente orientati” tanto
più rende necessario l’approdo della questione
all’esame di costituzionalità.
Se infatti tra i poteri del giudice tributario vi
è quello, riconosciuto dall’art. 7, comma 5, del
decreto legislativo n. 546/92, di disapplicare un
regolamento o un atto generale rilevante ai fini
della decisione, cionondimeno, detto potere non
può estendersi a norme di rango ordinario, per cui
il doveroso tentativo di individuare una interpretazione
della norma costituzionalmente corretta
non offre altra soluzione se non quella di un intervento
del giudice delle leggi per l’impossibilità
di individuare una interpretazione adeguatrice
che possa correggere (in sede interpretativa ed
applicativa) l’art. 17 del decreto legislativo n.
112/1999.
Alla luce di tutto quanto sopra esposto, è consigliabile
che i contribuenti ed i difensori tributari
eccepiscano l’incostituzionalità dell’aggio oppure,
nelle controversie pendenti in tema di riscossione,
chiedano la sospensione dei giudizi in attesa
della pronuncia della Corte Costituzionale.
Anche se non si può fare una previsione sull’orientamento
della Corte, bisogna rilevare che non
sarà cosa facile salvare l’aggio e riconoscerne la
costituzionalità, malgrado l’espediente dell’inammissibilità.
di Maurizio Villani
Avvocato Tributarista in Lecce
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