Poiché l’art. 3, cit., segue l’art. 2, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garage.
In una controversia in cui gli attori avevano lamentato il mancato rispetto della distanza di cinque metri dal confine da parte dei proprietari del fabbricato esistente nel fondo vicino con riferimento alla realizzazione di una rampa esterna di accesso al piano superiore di tale fabbricato ed i convenuti avevano invocato l’esenzione dall’obbligo del rispetto delle distanze in base all’art. 3, comma 2, l. n. 13 del 1989, secondo cui nella realizzazione di opere dirette al superamento delle barriere architettoniche “E’ fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli artt. 873 e 907 c.c., nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune”, la S.C. ha affermato che tale disposizione deve essere interpretata come volta a consentire deroghe alla normativa sulle distanze, a prescindere dalla relativa fonte, solo in ambito condominiale e non ove vengano in rilievo rapporti fra edifici distinti appartenenti a proprietà separate (Cass. 19 settembre 2017, n. 21645).
Secondo tale decisione, in sostanza, poiché l’art.
3, cit., segue l’art. 2, il cui secondo comma prevede
che nel caso in cui il condominio rifiuti di
assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta
fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al
comma 1, i portatori di handicap possono installare,
a proprie spese, servoscala nonchè strutture
mobili e facilmente rimovibili e possono anche
modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al
fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici,
agli ascensori e alle rampe dei garages, emerge da
un mero esame letterale di tali disposizioni che
le opere considerate sono solo quelle necessarie
a rimuovere le barriere architettoniche all’interno
di edifici condominiali, essendo esse finalizzate ad impedire che l’inerzia od il rifiuto degli altri
condomini comportino un danno per il soggetto
con difficoltà di deambulazione.
Se potesse essere condivisa, tale interpretazione
avrebbe il merito di dare un senso alle disposizioni
di cui constano il primo ed il secondo comma
dell’art. 3, cit.
Purtroppo alla applicabilità della deroga alle distanze
legali solo nei rapporti tra condomini si
frappongono ostacoli insuperabili.
La deroga in questione, infatti, nel primo comma è prevista con riferimento alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, le quali disciplinano i rapporti tra proprietari di fondi confinanti.
Il successivo secondo comma conferma, invece,
l’obbligo del rispetto delle distanze di cui agli articoli
873 e 907 del codice civile nell’ipotesi in
cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni
non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di
proprietà o di uso comune.
Ora, anche volendo ammettere che le distanze di cui agli artt. 873 0 907 c.c. trovano applicazione anche nei rapporti tra condomini, il riferimento ai fabbricati alieni fa capire chiaramente che la disposizione presuppone l’esistenza di un fabbricato su un fondo confinante diverso da quello in condominio nel quale le opere vengono realizzate. Rimangono, pertanto, le perplessità causate dalla formulazione dell’art. 2 l, secondo comma, e dell’art. 3 l. 9 gennaio 1989 n. 13.
La prima di tali disposizioni sembrerebbe stabilire che, nel caso in cui l’assemblea non assuma le delibere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, il portatore di handicap può realizzare a spese proprie soltanto le opere previste da tale disposizione, ma non un ascensore (in tal senso, in dottrina, cfr. PEDICINI, Commento all’art. 2 l. 9 gennaio 1989 n. 13, in Nuove leggi civili commentate, 1991, 343; in giurisprudenza, in motivazione, cfr. Cass. 29 luglio 2004, n. 14384).
Se così fosse, da un lato, l’art. 3, cit., si occuperebbe
del problema delle distanze, che non può,
però, presentarsi con riferimento alle opere previste
nel precedente art. 2, secondo comma,dal
momento che le stesse non costituiscono “costruzione”,
e dall’altro, si arriverebbe all’assurdo che
al portatore di handicap non sarebbe consentito
quanto qualsiasi condomino può effettuare in applicazione della norma generale principio di cui
all’art. 1102 c.c., il che comporterebbe problemi
di costituzionalità della norma.
Va, infatti osservato che è pacifico in giurisprudenza che la norma di cui all’art. 1120 c.c., nel prescrivere che le innovazioni della cosa comune siano approvate dai condomini con determinate maggioranze, tende a disciplinare l’approvazione di quelle innovazioni che comportano oneri di spesa per tutti i condomini; ma, ove non debba procedersi a tale ripartizione per essere stata la spesa relativa alle innovazioni di cui si tratta assunta interamente a proprio carico da un condomino, trova applicazione la norma generale di cui all’art. 1102 c.c., che contempla anche le innovazioni, ed in forza della quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne uguale uso secondo il loro diritto, e, pertanto, può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa comune. Ne consegue che, ricorrendo dette condizioni, il condomino ha facoltà di installare a proprie spese nella tromba delle scale dell’edificio condominiale un ascensore, ponendolo a disposizione degli altri condomini, e può far valere il relativo diritto con azione di accertamento, in contraddittorio degli altri condomini che contestino il diritto stesso, indipendentemente dalla mancata impugnazione della delibera assembleare che abbia respinto la sua proposta al riguardo (Cass. 10 aprile 1999, n. 3508; in senso conforme, in precedenza, cfr.: Cass. 12 febbraio 1993 n. 1781; Cass. 5 aprile 1977 n. 1300; in dottrina, con specifico riferimento all’ art. 2 l. 9 gennaio 1989 n. 13, cfr. CELESTE, Portatori di handicap: quanti scalini devono ancora salire per raggiungere le proprie abitazioni?, in Foro it., 2008, I, 601, il quale peraltro sembra ritenere che anche in tal caso troverebbe applicazione l’art. 1121, ultimo comma, c.c.).
Per quanto riguarda l’art. 3, cit., a prescindere
dalla imperfetta formulazione del secondo comma
in ordine alla menzione congiunta degli spazi e
delle aree, come se si trattasse di entità differenti,
ed alla menzione in entrambi i commi di
spazi “di uso comune” (di incerta individuazione)
distinti da quelli in proprietà comune, senza
precisare se tali spazi devono essere comuni
al solo edificio interessato dalle opere od anche
all’edificio confinante, il primo comma prevede
una deroga alle norme sulle distanze previste dai
regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine,
trascurando che: a) le norme relative alle
dimensioni dei cortili non riguardano la distanza
tra le costruzioni; b) per le chiostrine (cioè
i cortili interamente interni ai fabbricati) non è
comunque concepibile un problema di distanze.
Per dare un senso a tale disposizione si può solo
ipotizzare che il legislatore abbia inteso stabilire
che è possibile una deroga non solo per quanto
riguarda le distanze legali, ma anche per quanto
riguarda le dimensioni dei cortili e delle chiostrine,
quali previste nella normativa locale.
Come, poi, è stato osservato in dottrina (VILLANI,
Commento all’art. 3 l. 9 gennaio 1989 n. 13,
in Nuove leggi civili commentate, 1991, 344 ss.),
il legislatore nel primo comma ha esonerato il costruttore
dal rispetto dei regolamenti senza dire
se tale esonero si estenda anche al rispetto delle
norme di legge, mentre nel secondo comma ha
tenuto fermo l’obbligo di rispetto di due specifiche
norme codicistiche, gli artt. 873 e 907, senza
nulla dire nè dei regolamenti edilizi, pure nelle
stesse norme espressamente richiamati.
Si è sostenuto (VILLANI, op. cit., 346 ss.) che il
primo comma andrebbe letto nel senso che se tra gli
edifici vi sono spazi comuni o di uso comune, o se
si tratta di costruire in spazi interni ad un edificio
(cortili, chiostrine, etc.) lo si può fare in esenzione
da ogni limite di legge (artt. 873 e 907 c.c.) e di regolamenti
edilizi; il secondo comma andrebbe letto
come se testualmente affermasse che nell’ipotesi di
costruzioni tra fondi alieni, non separati da spazi
comuni, è fatto l’obbligo di rispetto delle distanze
previste dagli art. 873 c.c. ivi compresi i regolamenti
da esso richiamati, e 907 c.c. Anche volendo aderire
a tale interpretazione, rimarrebbe comunque
oscura la ratio di tali disposizioni, a prescindere
dal fatto che esse non potrebbero trovare applicazione
con riferimento alle chiostrine, essendo
esse interne ad un fabbricato.
di Roberto Triola
già Presidente della Seconda Sezione Civile della Cassazione
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