martedì 23 gennaio 2018

Superamento delle barriere architettoniche e distanze legali

Poiché l’art. 3, cit., segue l’art. 2, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garage.
In una controversia in cui gli attori avevano lamentato il mancato rispetto della distanza di cinque metri dal confine da parte dei proprietari del fabbricato esistente nel fondo vicino con riferimento alla realizzazione di una rampa esterna di accesso al piano superiore di tale fabbricato ed i convenuti avevano invocato l’esenzione dall’obbligo del rispetto delle distanze in base all’art. 3, comma 2, l. n. 13 del 1989, secondo cui nella realizzazione di opere dirette al superamento delle barriere architettoniche “E’ fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli artt. 873 e 907 c.c., nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune”, la S.C. ha affermato che tale disposizione deve essere interpretata come volta a consentire deroghe alla normativa sulle distanze, a prescindere dalla relativa fonte, solo in ambito condominiale e non ove vengano in rilievo rapporti fra edifici distinti appartenenti a proprietà separate (Cass. 19 settembre 2017, n. 21645).

Secondo tale decisione, in sostanza, poiché l’art. 3, cit., segue l’art. 2, il cui secondo comma prevede che nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, servoscala nonchè strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages, emerge da un mero esame letterale di tali disposizioni che le opere considerate sono solo quelle necessarie a rimuovere le barriere architettoniche all’interno di edifici condominiali, essendo esse finalizzate ad impedire che l’inerzia od il rifiuto degli altri condomini comportino un danno per il soggetto con difficoltà di deambulazione.
Se potesse essere condivisa, tale interpretazione avrebbe il merito di dare un senso alle disposizioni di cui constano il primo ed il secondo comma dell’art. 3, cit.

Purtroppo alla applicabilità della deroga alle distanze legali solo nei rapporti tra condomini si frappongono ostacoli insuperabili.

La deroga in questione, infatti, nel primo comma è prevista con riferimento alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, le quali disciplinano i rapporti tra proprietari di fondi confinanti.
Il successivo secondo comma conferma, invece, l’obbligo del rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune.

Ora, anche volendo ammettere che le distanze di cui agli artt. 873 0 907 c.c. trovano applicazione anche nei rapporti tra condomini, il riferimento ai fabbricati alieni fa capire chiaramente che la disposizione presuppone l’esistenza di un fabbricato su un fondo confinante diverso da quello in condominio nel quale le opere vengono realizzate. Rimangono, pertanto, le perplessità causate dalla formulazione dell’art. 2 l, secondo comma, e dell’art. 3 l. 9 gennaio 1989 n. 13.

La prima di tali disposizioni sembrerebbe stabilire che, nel caso in cui l’assemblea non assuma le delibere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, il portatore di handicap può realizzare a spese proprie soltanto le opere previste da tale disposizione, ma non un ascensore (in tal senso, in dottrina, cfr. PEDICINI, Commento all’art. 2 l. 9 gennaio 1989 n. 13, in Nuove leggi civili commentate, 1991, 343; in giurisprudenza, in motivazione, cfr. Cass. 29 luglio 2004, n. 14384).
Se così fosse, da un lato, l’art. 3, cit., si occuperebbe del problema delle distanze, che non può, però, presentarsi con riferimento alle opere previste nel precedente art. 2, secondo comma,dal momento che le stesse non costituiscono “costruzione”, e dall’altro, si arriverebbe all’assurdo che al portatore di handicap non sarebbe consentito quanto qualsiasi condomino può effettuare in applicazione della norma generale principio di cui all’art. 1102 c.c., il che comporterebbe problemi di costituzionalità della norma.

Va, infatti osservato che è pacifico in giurisprudenza che la norma di cui all’art. 1120 c.c., nel prescrivere che le innovazioni della cosa comune siano approvate dai condomini con determinate maggioranze, tende a disciplinare l’approvazione di quelle innovazioni che comportano oneri di spesa per tutti i condomini; ma, ove non debba procedersi a tale ripartizione per essere stata la spesa relativa alle innovazioni di cui si tratta assunta interamente a proprio carico da un condomino, trova applicazione la norma generale di cui all’art. 1102 c.c., che contempla anche le innovazioni, ed in forza della quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne uguale uso secondo il loro diritto, e, pertanto, può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa comune. Ne consegue che, ricorrendo dette condizioni, il condomino ha facoltà di installare a proprie spese nella tromba delle scale dell’edificio condominiale un ascensore, ponendolo a disposizione degli altri condomini, e può far valere il relativo diritto con azione di accertamento, in contraddittorio degli altri condomini che contestino il diritto stesso, indipendentemente dalla mancata impugnazione della delibera assembleare che abbia respinto la sua proposta al riguardo (Cass. 10 aprile 1999, n. 3508; in senso conforme, in precedenza, cfr.: Cass. 12 febbraio 1993 n. 1781; Cass. 5 aprile 1977 n. 1300; in dottrina, con specifico riferimento all’ art. 2 l. 9 gennaio 1989 n. 13, cfr. CELESTE, Portatori di handicap: quanti scalini devono ancora salire per raggiungere le proprie abitazioni?, in Foro it., 2008, I, 601, il quale peraltro sembra ritenere che anche in tal caso troverebbe applicazione l’art. 1121, ultimo comma, c.c.).

Per quanto riguarda l’art. 3, cit., a prescindere dalla imperfetta formulazione del secondo comma in ordine alla menzione congiunta degli spazi e delle aree, come se si trattasse di entità differenti, ed alla menzione in entrambi i commi di spazi “di uso comune” (di incerta individuazione) distinti da quelli in proprietà comune, senza precisare se tali spazi devono essere comuni al solo edificio interessato dalle opere od anche all’edificio confinante, il primo comma prevede una deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine, trascurando che: a) le norme relative alle dimensioni dei cortili non riguardano la distanza tra le costruzioni; b) per le chiostrine (cioè i cortili interamente interni ai fabbricati) non è comunque concepibile un problema di distanze. Per dare un senso a tale disposizione si può solo ipotizzare che il legislatore abbia inteso stabilire che è possibile una deroga non solo per quanto riguarda le distanze legali, ma anche per quanto riguarda le dimensioni dei cortili e delle chiostrine, quali previste nella normativa locale.
Come, poi, è stato osservato in dottrina (VILLANI, Commento all’art. 3 l. 9 gennaio 1989 n. 13, in Nuove leggi civili commentate, 1991, 344 ss.), il legislatore nel primo comma ha esonerato il costruttore dal rispetto dei regolamenti senza dire se tale esonero si estenda anche al rispetto delle norme di legge, mentre nel secondo comma ha tenuto fermo l’obbligo di rispetto di due specifiche norme codicistiche, gli artt. 873 e 907, senza nulla dire nè dei regolamenti edilizi, pure nelle stesse norme espressamente richiamati.

Si è sostenuto (VILLANI, op. cit., 346 ss.) che il primo comma andrebbe letto nel senso che se tra gli edifici vi sono spazi comuni o di uso comune, o se si tratta di costruire in spazi interni ad un edificio (cortili, chiostrine, etc.) lo si può fare in esenzione da ogni limite di legge (artt. 873 e 907 c.c.) e di regolamenti edilizi; il secondo comma andrebbe letto come se testualmente affermasse che nell’ipotesi di costruzioni tra fondi alieni, non separati da spazi comuni, è fatto l’obbligo di rispetto delle distanze previste dagli art. 873 c.c. ivi compresi i regolamenti da esso richiamati, e 907 c.c. Anche volendo aderire a tale interpretazione, rimarrebbe comunque oscura la ratio di tali disposizioni, a prescindere dal fatto che esse non potrebbero trovare applicazione con riferimento alle chiostrine, essendo esse interne ad un fabbricato.

di Roberto Triola
già Presidente della Seconda Sezione Civile della Cassazione

Nessun commento:

Posta un commento

Commenti, critiche e correzioni sono ben accette e incoraggiate, purché espresse in modo civile. Scrivi pure i tuoi dubbi, le tue domande o se hai richieste: il team dei nostri esperti ti risponderà il prima possibile.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...