venerdì 27 novembre 2015

Il trasferimento della comproprietà pro quota delle parti comuni a seguito della vendita dell’unita’ immobiliare esclusiva


Dal momento che le cose comuni sono poste al servizio del condominio per volontà di tutti i condomini, il singolo partecipante non può unilateralmente pretendere di disporre, senza il consenso degli altri, delle parti comuni separatamente, come se fossero autonome ed indipendenti dalle altre di sua proprietà esclusiva.

Se, da un lato, l’art. 1117 c.c. - anche nel testo ammodernato dalla Riforma del 2013 - introduce il principio dell’appartenenza comune delle parti strumentali alle unità immobiliari in proprietà separata o destinate al soddisfacimento delle comuni necessità abitative, i successivi artt. 1118 e 1119 c.c. confermano altri due connotati distintivi della proprietà condominiale: l’irrinunciabilità e l’indivisibilità. Al riguardo, una recente sentenza della II Sezione della Suprema Corte (la n. 1680 del 28 gennaio 2015, n. 1680), analizzando una peculiare fattispecie, ha avuto modo di affrontare, applicando i suddetti disposti normativi, la questione relativa alla trasferibilità della comproprietà pro quota delle parti comuni a seguito dell’alienazione dell’unità immobiliare esclusiva. Nella controversia in esame, un soggetto esponeva di aver preso in locazione dai convenuti, per esercitarvi l’attività di ottico, un locale sito al piano terra del fabbricato condominiale ed un altro vano ad uso ufficio posto al piano ammezzato del medesimo edificio; precisava che l’uno e l’altro vano erano stati collegati fra loro dai proprietari mediante una scala interna in legno, affinché i clienti non utilizzassero la scala condominiale per accedere al vano superiore dell’esercizio commerciale; deduceva che successivamente i convenuti gli avevano venduto detti locali, con l’apposita clausola che il vano posto al piano ammezzato non avrebbe avuto accesso dalla via pubblica; con successivo atto, gli stessi convenuti avevano poi alienato ad una società tre vani ad uso ufficio al medesimo piano ammezzato del suddetto fabbricato condominiale, confinanti con quello di sua proprietà, aventi accesso dal corridoio collegato alla scala condominiale cui si accedeva dalla medesima via; in tale atto, i venditori avevano precisato, con altra clausola, di aver murato l’apertura che in precedenza consentiva l’accesso all’ufficio di proprietà dell’attore tramite il corridoio anzidetto.
Ciò esposto, quest’ultimo conveniva in giudizio i venditori, la società e il condominio, affinché fosse accertato - previa declaratoria di inefficacia delle clausole dei citati contratti, non potendo gli alienanti, a suo giudizio, privare l’ufficio a lui venduto dell’accesso tramite il corridoio e la scala condominiale - che tale corridoio era comune alla sua proprietà; chiedeva, pertanto, che la società fosse condannata a ripristinare a sua cura e spese la funzione condominiale di tale corridoio. 
Il Tribunale, accertata la natura condominiale del corridoio di accesso agli uffici siti al piano ammezzato dello stabile, dichiarava la nullità della clausola contenuta nel contratto di vendita ed il conseguente diritto dell’attore di ripristinare l’accesso al proprio immobile dal corridoio stesso.
Tale sentenza era ribaltata dalla Corte d’Appello, rilevando: 

a) che, dal titolo d’acquisto, risultava che il corridoio in questione non era incluso tra le parti comuni dell’edificio cedutegli in comproprietà, né era annoverato come tale dall’art. 1117c.c.;

b) che il corridoio era al servizio esclusivo degli otto vani già di proprietà dei venditori posti al piano ammezzato; 

c) che era ragionevole ritenere che il corridoio fosse stato trasferito in proprietà esclusiva alla società quale accessorio delle unità immobiliari alienate;

d) e che, pertanto, legittimamente era stato chiesto all’attore di rinunciare al diritto di servirsi di tale corridoio per accedere all’ingresso dalla via.

Per la cassazione di tale sentenza, l’originario attore proponeva ricorso, deducendo la violazione, per un verso, dell’art. 1117 c.c., in quanto il corridoio in oggetto, per come descritto nella relazione del C.T.U., corrispondeva alla nozione di andito e, quindi, in assenza di prova contraria, doveva presumersi quale parte comune ai sensi della norma citata, nonché, per altro verso, degli artt. 1362 e ss. c.c., atteso che la mancata indicazione, nel contratto di acquisto del bene in contestazione, non aveva l’effetto di escluderne la natura comune.
I motivi - esaminati congiuntamente per la loro complementarietà - sono stati ritenuti fondati: a ben vedere, essi hanno interpellato la Corte Suprema su due questioni sequenziali. La prima, se e a quali condizioni il corridoio di accesso ad alcune unità immobiliari di un fabbricato condominiale possa considerarsi parte comune ai sensi dell’art. 1117 c.c., e, in caso affermativo, se si possa escluderne il trasferimento della comproprietà pro quota in occasione della vendita di unità immobiliari al cui servizio esso sia destinato. Sulla prima questione, si è premesso che l’art. 1117 c.c. - pur con le modifiche apportate dalla legge n. 220/2012 - contiene un’elencazione non tassativa ma solo esemplificativa delle cose comuni, essendo tali, salvo risulti diversamente dal titolo, anche quelle aventi un’oggettiva e concreta destinazione al servizio comune (v., ex multis, Cass. 13 marzo 2009, n.2009). Ciò posto, si è richiamata la giurisprudenza secondo la quale l’art. 1117 c.c. non stabilisce una “presunzione legale” di comunione per le cose in esso indicate nei numeri 1), 2) e 3), ma dispone che detti beni sono comuni, a meno che non risultino di proprietà esclusiva in base ad un titolo; e che il criterio di individuazione delle cose comuni dettato da tale norma non opera a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (v. Cass. S.U. 7 luglio 1993, n. 7449), servizio esclusivo che, ove riferito non ad una sola ma a più unità immobiliari, dà luogo al c.d. condominio parziale (v., in generale, Cass. 24 novembre 2010, n. 23851), a sua volta configurato anche con riferimento al caso di corridoi posti al servizio soltanto di talune delle unità immobiliari condominiali (v. Cass. 10 ottobre 2007, n. 21246; Cass. 28 aprile 2004, n. 8136). Non senza puntualizzare che il c.d. condominio parziale non possiede una propria autonomia perfetta, distinta e separata da quella relativa al condominio avente ad oggetto l’intero fabbricato, ma costituisce null’altro che una situazione configurabile per la semplificazione dei rapporti gestori interni alla collettività condominiale, in ordine a determinati beni o servizi appartenenti soltanto ad alcuni condomini (v. Cass. 17 febbraio 2012, n. 2363, che difatti ne ha escluso l’autonoma legittimazione in giudizio). Sul secondo interrogativo, gli ermellini hanno osservato che la clausola, contenuta nel contratto di vendita di un appartamento sito in un edificio in condominio, con cui sia esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune parti comuni dell’edificio stesso, deve ritenersi nulla, poiché con essa si intende attuare indirettamente la rinuncia di un condomino alle dette parti comuni, vietata dal capoverso dell’art. 1118 c.c. (v., tra le altre, Cass. 29 maggio 1995, n. 6036). Inoltre, se si considerasse valida la vendita che escluda un diritto condominiale, si inciderebbe sulle quote millesimali, in violazione del comma 2 dell’art. 1118 c.c.: invero, in materia di determinazione del valore dei piani o delle porzioni di piano rispetto a quello dell’edificio, da cui dipende la proporzione nei diritti e negli obblighi dei condomini, l’assemblea dei condomini non dispone di alcun potere, non essendo materia di delibera l’accertamento di uno stato di fatto, ed è chiaro che ciò ché non può disporre la suddetta assemblea non può nemmeno essere realizzato da un singolo condomino, il quale, pertanto, non può alienare la propria unità immobiliare separatamente dai diritti sulle cose comuni. Il giudice distrettuale - ad avviso del Supremo Collegio - non ha fatto buon governo di tali principi. Un primo errore è stato rinvenuto lì dove la sentenza impugnata si è limitata a registrare la non inclusione del concetto di “corridoio” tra le parti comuni annoverate dall’art. 1117 cod. civ., senza valutarne l’eventuale condominialità oggettiva (senza verificare, cioè, se il corridoio avesse comunque attitudine all’uso comune di tutte o di alcune delle unità immobiliari del condominio). Poi, passata ad esaminare il titolo di provenienza invocato a proprio vantaggio dalla società, vale a dire l’atto di acquisto, la Corte territoriale ha accertato che tale atto non includeva tra le parti comuni dell’edificio il corridoio in contesa, e, stante che dalla relazione del C.T.U. era emerso che questo era posto al servizio esclusivo degli otto vani siti al piano ammezzato, ha ritenuto “ragionevole” - ed in ciò risiede il secondo errore - che esso fosse stato trasferito in proprietà esclusiva ai convenuti in quanto “accessorio” delle unità immobiliari trasferitegli. Infine, a conferma di tale interpretazione, si è richiamato il disinteresse del condominio, l’iniziale rinuncia dell’attore a servirsi del corridoio e la nozione di condominio parziale, concludendo nel senso che “il corridoio in contesa - destinato al servizio e/o godimento esclusivo delle sole unità immobiliari site al primo piano ammezzato dell’edificio - appartenesse in proprietà ai relativi proprietari quale accessorio di dette unità immobiliari, e conseguentemente non avesse natura
condominiale”. Pertanto, la conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata, secondo cui, essendo il corridoio di esclusiva proprietà dei convenuti, questi ultimi ben avrebbero potuto escluderne la cessione della proprietà pro quota all’attore - secondo gli ermellini - non appare sorretta da un procedimento né giuridicamente corretto, né logicamente comprensibile nei suoi presupposti fattuali.
Tornando al disposto dell’art. 1118 c.c. - per quel che interessa in questa sede - si osserva che i commi 2 e 3 del testo novellato denotano la medesima portata precettiva dell’originario comma 2: nel dettaglio, quest’ultimo prevedeva che “il condomino non può, rinunziando al diritto sulle cose anzidette, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione”, mentre oggi, sdoppiandosi, sancisce, al comma 2, che “il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni”, e, al comma 3, che “il condomino non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali”. Ne consegue l’inefficacia di un eventuale atto di abbandono del diritto di proprietà sulle cose comuni, o meglio, il condomino può sempre rinunciare al diritto di comproprietà sul bene comune, ma resta pur sempre obbligato a contribuire alle spese per la sua conservazione. La ratio della norma risiede nel fatto che l’abbandono di cui sopra importerebbe un aggravio per gli altri condomini senza un corrispondente vantaggio, prescindendo dall’eventuale effetto positivo derivante dalla diminuzione dei partecipanti alla comunione; il rinunciante, infatti, perdendo il suo diritto di comproprietà sulla cosa, non potrebbe rinunciare a servirsi della cosa stessa quando l’uso gli è necessario per godere delle cose di cui ha la proprietà esclusiva (si pensi alla funzione di protezione del tetto comune o alle scale che deve pur sempre utilizzare per raggiungere il proprio appartamento). In tal senso, si è espressa la magistratura di vertice, sottolineando che il comma 2 dell’art. 1118 c.c. (vecchio testo), a norma del quale il condomino non può, rinunciando al diritto sulle parti comuni, sottrarsi al contributo sulle spese per la loro conservazione, non si limita a regolare la partecipazione dei condomini alle spese delle parti comuni nonostante la rinuncia del relativo diritto da parte del singolo condomino ma, indirettamente, esclude la validità della predetta rinuncia dato che le parti comuni necessarie per l’esistenza e l’uso dei piani o delle porzioni di piano oppure destinate al loro uso o servizio continuerebbero a servire il condomino anche dopo, e nonostante, la rinuncia; è, pertanto, nulla la clausola contenuta nel contratto di compravendita di un appartamento sorto in un edificio in condominio con cui viene esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune parti dell’edificio comuni per legge o per volontà delle parti, avendo una siffatta clausola il contenuto e gli effetti di una rinuncia del condomino-acquirente alle predette parti (v. Cass. 29 maggio 1995, n. 6036: nella specie, si trattava di un’area comune destinata, per convenzione, al parcheggio delle macchine dei condomini). Dunque, di regola, l’atto abdicativo unilaterale del singolo non ha bisogno di alcuna accettazione da parte degli altri condomini, nei confronti dei quali è irrilevante, mentre è efficace soltanto se vi è contemporaneamente la rinuncia anche ai diritti sulle cose di proprietà individuale, ma così - a ben riflettere - il singolo cessa di essere “condomino”. Dal canto suo, l’art. 1119 c.c. recita: “le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio” - quest’ultima frase è stata aggiunta dalla legge n. 220/2012, con decorrenza dal 18 marzo 2013 - conseguendone anche che è impossibile, in caso di alienazione di una parte esclusiva, riservarsi una parte comune. Pertanto, dal momento che le cose comuni sono poste al servizio del condominio per volontà di tutti i condomini, il singolo partecipante non può unilateralmente pretendere di disporre, senza il consenso degli altri, delle parti comuni separatamente, come se fossero autonome ed indipendenti dalle altre di sua proprietà esclusiva. In un caso concreto sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità, si è coerentemente affermato che le scale, essendo elementi strutturali necessari all’edificazione di uno stabile condominiale e mezzo indispensabile per accedere al tetto ed al terrazzo di copertura, conservano la qualità di parti comuni, così come indicato nell’art. 1117 c.c., anche relativamente ai condomini proprietari di negozi con accesso dalla strada, in assenza di titolo contrario, poiché anche tali condomini ne fruiscono quanto meno in ordine alla conservazione e manutenzione della copertura dell’edificio; ne consegue che va ritenuto nullo l’accordo avente ad oggetto la cessione del diritto reale d’uso del pianerottolo del quarto piano di un edificio e della sovrastante scala a chiocciola, in quanto privo del necessario consenso di tutti i condomini e, in particolare, di quello dei proprietari dei negozi siti al piano terreno e con accesso alla strada (v. Cass. 10 luglio 2007, n. 15444).
Dunque, con l’avvenuta costituzione del condominio, si trasferiscono ai singoli acquirenti delle unità immobiliari esclusive anche le corrispondenti quote delle parti comuni, di cui non è più consentita la disponibilità separata a causa dei concorrenti diritti degli altri condomini, a meno che non emerga dal titolo, in modo chiaro ed inequivocabile, la volontà delle parti di riservare al costruttore originario oppure ad uno o più dei condomini la proprietà esclusiva di beni che, per loro struttura ed ubicazione, dovrebbero considerarsi comuni (v. Cass. 19 febbraio 2004, n. 3257). 
Il cedente di una singola porzione di piano non può riservare a sé, ormai terzo rispetto al condominio, il diritto di comproprietà e, quindi, l’uso di parti comuni destinate al complesso immobiliare, e, di converso, con la vendita dell’appartamento segue necessariamente, come relazione pertinenziale di principale ad accessorio, il trasferimento della comproprietà (sulla base della quota millesimale) sulle parti comuni dell’edificio in cui era posta l’unità immobiliare oggetto dell’alienazione. Affinando ulteriormente i concetti, i giudici di Piazza Cavour hanno precisato che, in tema di rinuncia di un condomino al diritto sulle cose comuni, vietata dall’art. 1118 c.c., la cessione della proprietà esclusiva non può essere separata dal diritto sui beni comuni soltanto quando le cose comuni e le porzioni di proprietà esclusiva siano - per effetto di incorporazione fisica - indissolubilmente legate le une alle altre o nel caso in cui, pur essendo suscettibili di separazione senza pregiudizio reciproco, esista tra di essi un vincolo di destinazione che sia caratterizzato da indivisibilità per essere i beni condominiali essenziali per l’esistenza ed il godimento delle proprietà esclusive; qualora, invece, i primi siano semplicemente funzionali all’uso ed al godimento delle singole unità, queste ultime possono essere cedute separatamente dal diritto di condominio sui beni comuni, con la conseguenza che, in tal caso, la presunzione di cui all’art. 1117 c.c. risulta superata dal titolo (v. Cass. 2 luglio 2004, n. 12128: nella specie, si è ritenuta valida la clausola contrattuale con cui, nell’atto di vendita di due locali siti a piano terra e con ingresso diretto dalla via pubblica, era stato imposto all’acquirente il divieto di utilizzare la porta di ingresso, l’androne ed il vano scala dell’edificio condominiale sul rilievo che l’uso dei beni condominiali in oggetto non era essenziale per l’utilizzazione dei locali di proprietà esclusiva). La questione concernente l’impossibilità della riserva di una parte comune nel caso di alienazione di parte esclusiva è stata affrontata soprattutto per verificare se il proprietario di un appartamento di un edificio condominiale potesse separare o meno il diritto al parcheggio nell’autorimessa comune dalla proprietà esclusiva dell’appartamento, alienando quest’ultima e trattenendo invece il primo. In proposito, se si considerano le caratteristiche peculiari delle parti dichiarate comuni dall’art. 1117 c.c. - salvo diversa statuizione del titolo - si rileva facilmente che esse o costituiscono parti integranti dell’edificio (suolo, muri maestri, ecc.), o sono locali destinati a servizi comuni (locali per la lavanderia, portineria, ecc.), oppure sono pertinenze comuni (ascensori, pozzi, ecc.), ma in ogni caso servono tutte a rendere possibili l’uso e il completo godimento delle parti di proprietà esclusiva. Ora, se questo è vero, tale inerenza o destinazione condominiale esige che le parti comuni poste al servizio dei singoli piani non mutino la loro funzione obiettiva, diventando accessori di altre cose o entrando nella sfera giuridica di altri soggetti estranei al rapporto, data la stretta ed indissolubile interdipendenza che sussiste fra le parti comuni dell’edificio e quelle di proprietà esclusiva di ciascun condomino; ed è proprio per questo che tutta la disciplina giuridica dettata per il condominio degli edifici è informata sia al principio dell’indivisibilità delle parti comuni sia al criterio dell’inseparabilità delle medesime da quelle di pertinenza esclusiva dei condomini. In forza dell’indisponibilità del diritto sulle parti comuni dell’edificio indipendentemente dalla proprietà esclusiva, resta ferma, nel rapporto tra il cedente ed il condominio, l’inefficacia degli atti di disposizione della cosa comune singolarmente considerata e, quindi, l’inopponibilità nei confronti del secondo della riserva di proprietà da parte del primo sulle cose comuni. In questa lunghezza d’onda, si è posta un’importante pronuncia del Supremo Collegio (v. Cass. 10 gennaio 1990, n. 9), la quale ha statuito che, nel condominio degli edifici, la disciplina delle parti comuni, o presuntivamente dichiarate tali dall’art. 1117 c.c., è informata ai principi dell’indivisibilità e della loro inseparabilità, in ragione della loro destinazione al relativo servizio, da quelle di pertinenza esclusiva dei condomini,
sicché, non potendo il singolo condomino, senza il consenso degli altri partecipanti, unilateralmente disporre delle parti comuni in modo autonomo ed indipendente da quelle di sua proprietà esclusiva, il cedente di una porzione immobiliare di sua esclusiva proprietà non può riservare a sè il diritto di comproprietà e, quindi, l’uso di parti comuni destinate al complesso condominiale (nella specie, diritto al parcheggio nell’autorimessa comune), con la conseguenza che, essendo inopponibile al condominio l’anzidetta riserva di proprietà, egli, ormai terzo rispetto al condominio, non è più legittimato a partecipare alle assemblee nè ad impugnare le relative delibere.

di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore presso la Corte di Cassazione

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