venerdì 27 novembre 2015

Trascrivibilità ed opponibilità del regolamento di condominio

La questione della trascrivibilità ed opponibilità  del regolamento di condominio, non essendo stata risolta dal legislatore della riforma del 2012, suscita ancora notevole interesse e dibattito.
A tal riguardo sembra opportuno chiarire immediatamente che nessun indice normativo positivo a favore della trascrivibilità, ai fini dell’opponibilità, del regolamento condominiale nei registri immobiliari può rinvenirsi nel dettato dell’art. 2659 c.c.; detta norma, che nella sua attuale formulazione prevede l’indicazione nella nota di trascrizione direttamente del condominio (specificandone la denominazione – ove esistente – l’ubicazione ed il codice fiscale), consente la trascrizione degli atti relativi ai cosiddetti “beni comuni censibili” (ad esempio: l’alloggio del portiere; i vani destinati a sala condominiale ecc.) direttamente “a favore o contro” il condominio, in luogo delle molteplici trascrizioni pro quota “a favore” o “contro” i singoli proprietari delle unità immobiliari.
Nessuna utilità pratica si può invece trarre dall’articolo in esame per suffragare la possibilità della trascrizione del regolamento condominiale, ex art. 1138 c.c., ai fini dell’opponibilità delle disposizioni in esso contenute. Infatti, è opinione pressoché unanime ritenere che la funzione delle trascrizioni de quo appartenga al rango della mera pubblicità notizia. Più in chiaro, si esclude che detta ipotetica trascrizione possa assumere valore dichiarativo, in funzione dell’opponibilità a terzi, per le seguenti ragioni. In primo luogo, perché l’intestazione direttamente in capo al condominio dei beni comuni non esclude la situazione di materiale contitolarità pro quota dei medesimi in capo ai singoli condomini: pertanto, finché detti beni restano “condominiali”, essi si trasferiscono automaticamente in uno con le unità immobiliari individuali, non ingenerandosi alcun conflitto circolatorio tra acquirente e condominio, tale da giustificare un’autonoma formalità pubblicitaria ai fini della sua soluzione ex art. 2644 c.c. . In secondo luogo, per il rispetto del principio di continuità delle trascrizioni ex art. 2650 c.c.: infatti, ove si ritenesse che dall’intestazione in capo al condominio dei beni in questione si possa desumere un cambiamento di titolarità materiale degli stessi, da un lato i singoli condomini non potrebbero più validamente trasmettere pro quota i beni “del condominio”, dall’altro detti beni risulterebbero cedibili ai terzi (perdendo la loro natura di beni comuni) in forza di una “decisione assembleare” imputabile al condominio e non per consenso negoziale di ciascun condomino, come invece deve correttamente ancora avvenire. Si rileva, infatti, che per orientamento tuttora prevalente, il condominio non può essere ascritto alla categoria degli enti autonomi dotati di un loro patrimonio e che a tal fine nessun appiglio normativo può rinvenirsi nel nuovo testo dell’art. 2659 c.c., il cui fine è perciò di mera semplificazione sistematica; in pratica, esso consente di evidenziare la natura condominiale del bene e non di denunciare una diversa titolarità dello stesso, che continua ad appartenere pro quota ai condomini.
Quanto fin qui affermato consente, in buona sostanza, di spezzare il nesso tra trascrivibilità “a favore del condominio” ed opponibilità del regolamento, con conseguente ridimensionamento della portata della questione della pubblicità dello stesso nei registri immobiliari; infatti, sembra corretto escludere che essa possa valere a conferire “efficacia reale” con valenza “erga omnes” alle disposizioni in esso contenute.
Ciò posto, per entrare nel vivo della discussione, sembra opportuno ricordare preliminarmente la distinzione tra i due diversi tipi di regolamento, assembleare e contrattuale, previsti dalla legge. La differenza tra i due, contrariamente a quanto potrebbe apparire dalla definizione, non concerne il procedimento di formazione, bensì il contenuto del regolamento: infatti, si definisce “assembleare” il regolamento che si limiti a prevedere esclusivamente le disposizioni indicate nel 1° comma dell’art.1138 c.c., senza incidere sulla disciplina delle singole unità immobiliari; si definisce invece “contrattuale” il regolamento che, prevedendo limitazioni circa l’uso, il godimento o la destinazione delle proprietà individuali, assume una chiara valenza pattizia, di guisa che risulta necessaria la sua approvazione consensuale da parte di tutti i proprietari delle unità costituite in condominio.
La predetta differenza emerge con discreta evidenza dal testo dell’art.1138 c.c.; nello specifico, dal divieto contenuto nell’ultimo comma alla “menomazione” dei diritti di ciascun condomino, nonché dal riferimento alle “convenzioni” tra i condomini stessi, si può ricavare l’essenza del cosiddetto regolamento contrattuale, in contrapposizione a quello assembleare.
In sintesi mentre quest’ultimo, necessario ed obbligatorio in presenza di più di dieci condomini, deve essere approvato dalla maggioranza (ex art. 1136 secondo comma c.c.) e riguarda esclusivamente la disciplina di interessi comuni, il primo è sempre facoltativo e, coinvolgendo diritti individuali, deve ricevere il consenso di tutti i condomini singolarmente considerati.
In altre parole, il cosiddetto “regolamento contrattuale” non può mai rivestire la qualifica di atto collegiale imputabile alla maggioranza; esso, anche nell’ipotesi in cui alla sua formulazione si addivenga “in sede assembleare”, richiede sempre il consenso unanime, qualificandosi sostanzialmente come una “convenzione” tra condomini, ossia come contratto plurilaterale tra i medesimi. Di conseguenza, tale regolamento, non potendo essere assimilato a quello assembleare, non può partecipare della medesima disciplina, ivi compresa quella relativa alla sua efficacia ed opponibilità.
Il fulcro della questione proposta riguarda proprio quest’ultimo aspetto sul quale deve, dunque, concentrarsi l’attenzione.
In relazione al regolamento assembleare la questione dell’opponibilità può considerarsi sostanzialmente risolta dall’art. 1107 c.c., applicabile al condominio in quanto espressamente richiamato dall’art. 1138 c.c., nonché in virtù del rinvio generico alla disciplina della comunione di cui all’art. 1139 c.c.. 
In pratica, ai sensi dell’art. 1107 c.c., ove il regolamento di tipo assembleare, approvato dalla maggioranza ex art. 1136 secondo comma c.c., non venga impugnato nei termini e nei modi di legge, esso si considera efficace (e quindi opponibile) anche agli eredi ed aventi causa dei singoli compartecipi, a prescindere da qualsivoglia forma di pubblicità dello stesso. In altre parole, le regole relative alla disciplina delle parti comuni, ovvero le disposizioni funzionali al miglior godimento delle stesse da parte di tutti, nonché quelle sul decoro dell’edificio, sulle spese o sull’amministrazione, si considerano di per se stesse operative nei confronti dei soggetti titolari delle singole unità immobiliari, nonché dei loro successori ed aventi causa, in forza della predetta norma ed in ragione del fatto
che gli interessi coinvolti attengono alla collettività cosicché su di essi non può negativamente incidere la singola vicenda circolatoria.
Diverso è il discorso nel caso di regolamento contrattuale. Il problema riguarda proprio l’ipotesi in cui esista un regolamento contrattuale, originariamente approvato da tutti i condomini, qualora le singole unità immobiliari vengano successivamente alienate o trasmesse. Ci si chiede, infatti, se le limitazioni a cui abbiano acconsentito gli originari proprietari delle unità immobiliari possano essere opposte ai loro eredi e/o aventi causa e se ai fini di tale opponibilità sia possibile ricorrere alla trascrizione del regolamento nei registri immobiliari.
Come si è accennato, si riconosce al cosiddetto “regolamento contrattuale” natura convenzionale: le clausole relative alla disciplina delle parti di proprietà esclusiva conservano quindi un’efficacia meramente obbligatoria tra i condomini che abbiano prestato il proprio consenso, restando esclusa l’automatica opponibilità ai loro aventi causa. Di conseguenza, per considerare questi ultimi parimenti obbligati al rispetto delle disposizioni regolamentari che, seppure contenute nell’unico documento identificato come “regolamento condominiale”, abbiano natura contrattuale, in quanto concernenti l’uso, il godimento o la destinazione delle singole unità immobiliari, occorrerebbe ottenere lo specifico consenso negoziale alla stregua di una sostanziale successiva adesione all’originario contratto plurilaterale “aperto”.
Il punto è che soventemente tale consenso espresso, da prestarsi al momento dell’acquisto dell’unità immobiliare in condominio, manca risultando l’acquirente all’oscuro dell’esistenza di limitazioni al godimento gravanti sulla res acquistata. La questione
è tanto più complessa ove si consideri il dettato dell’art. 1489 c.c.: da tale norma, infatti, si evince che la mancata conoscenza da parte dell’acquirente del fatto che la res acquistata sia gravata da oneri, diritti reali o personali, non apparenti, che ne diminuiscano il libero godimento, rende instabile lo stesso trasferimento, legittimando l’avente causa alla richiesta di risoluzione del contratto, ovvero alla riduzione del prezzo, ad eccezione soltanto dell’ipotesi in cui i predetti limiti (anche non dotati del requisito dell’apparenza) siano stati espressamente dichiarati nel contratto di acquisto; in tal caso, infatti, può ritenersi che essi facciano parte dell’accordo “per relationem” o che comunque siano debitamente conosciuti dall’acquirente. Al di fuori di tale specifica evenienza, non sembra invece che le predette clausole possano considerarsi vincolanti per gli aventi causa dell’originario condomino; diverso discorso potrebbe farsi per gli eredi posto che essi, subentrando in locum et ius defuncti, sono tenuti ad ottemperare le obbligazioni contrattuali facenti capo al de cuius, a meno che esse non debbano considerarsi estinte con la morte, per effetto della loro natura “intuitus personae”.
D’altro canto, l’efficacia reale erga omnes delle clausole del regolamento portanti limitazioni sulla proprietà del singolo, non può essere ricavata dalla trascrizione del regolamento condominiale nei registri immobiliari, sia per il fatto che l’art. 2659 c.c. – come detto sopra – riguarda i beni condominiali e non le singole unità, sia per la valenza meramente notiziale che tale trascrizione assume.
A questo punto bisogna sottolineare che sul piano tecnico-giuridico, le limitazioni al godimento di un immobile richiamano l’istituto della servitù (artt. 1027 e ss. c.c.); nello specifico, per ciò che concerne la disciplina del condominio, le disposizioni che riguardano l’uso, il godimento o la destinazione delle singole unità immobiliari vengono solitamente configurate come servitù autonome e reciproche “a favore” o “contro” ciascuna proprietà individuale. Tale inquadramento consente di ricorrere alla trascrizione di cui all’art. 2643 n. 4) c.c., certamente con finalità dichiarativa. Senonché il riferimento al predetto istituto non consente di risolvere appieno la problematica in esame, se solo si pensi al fatto che le servitù, per essendo qualificate come “diritto reale tipico a contenuto atipico”, debbono comunque rispondere ai requisiti essenziali di predialità, indivisibilità, accessorietà ed alterità dei beni coinvolti, di guisa che il riferimento alle stesse non giova allorquando si pongano obblighi che determinino utilitas personali (cioè riferibili alla persona del singolo condomino) e non reali, ossia riferibili all’immobile in quanto tale (si pensi ad un particolare diritto a sostare o a depositare oggetti in una determinata area).
Il meccanismo della trascrizione delle cosiddette servitù reciproche ex art. 2643 n. 4) c.c. si scontra poi con alcuni ostacoli di ordine pratico di notevole rilievo, soprattutto nelle ipotesi, non sporadiche, di regolamento condominiale predisposto ab origine dal costruttore dell’edificio; in tal caso, infatti, fino a che non si proceda alla vendita di tutte le unità immobiliari si palesa la violazione del principio sopra richiamato di alterità dei fondi (nemini res sua servit), con la conseguenza di non poter considerare – almeno medio tempore – regolarmente costituita la servitù. Del resto, proprio per ovviare alla farraginosità e scarsa economicità del metodo delle “trascrizioni a catena”, il Ministero delle Finanze, prima della riforma dell’art. 2659 c.c., con una celebre circolare (n. 128/T del 2 maggio 1995), consentì la trascrizione del regolamento direttamente “a favore del condominio e contro i condomini”, creando per il condominio un autonomo codice meccanizzato (quadro A della nota di trascrizione, relativo ai soggetti).
Sul piano operativo la soluzione predetta ha generato la prassi di depositare il regolamento condominiale presso un notaio, con richiesta espressa di curarne la trascrizione nei registri immobiliari.
Questa prassi, alacremente contestata dalla stessa dottrina notarile che ne rileva lo scarso rigore giuridico, non può comunque sconfessare quanto sopra affermato circa il fatto che la trascrizione “a favore del condominio” non sia idonea ai fini dell’opponibilità delle limitazioni relative ad uso, godimento e destinazione delle singole unità immobiliari; si ricorda, infatti, che l’art. 2659 c.c., che sostanzialmente ha “codificato” il suddetto metodo messo a punto dalla predetta circolare ministeriale e che consente attualmente tale forma di pubblicità, non può assumere alcuna valenza sistematica in tal senso. 
Non va trascurato, però, che la trascrizione de qua ha comunque prodotto un effetto che, in un certo senso, può giovare ai fini dell’opponibilità ai terzi acquirenti delle clausole di natura contrattuale contenute nel regolamento condominiale; essa, infatti, facilita notevolmente la conoscenza dell’esistenza del regolamento, nonché il suo materiale reperimento, in guisa che esso possa essere adeguatamente richiamato negli atti di acquisto e sottoposto ad espressa accettazione dell’acquirente. Tale effetto è avallato dalla Cassazione la quale ha ritenuto che il regolamento contrattuale di condominio, anche se non sia stato inserito nel testo del contratto di compravendita delle singole unità immobiliari, fa corpo con esso allorquando sia stato espressamente richiamato ed approvato, cosicché le sue clausole rientrino “per relationem” nel contenuto dei singoli contratti, vincolando i relativi acquirenti. Resta da precisare che a questo scopo non si ritiene sufficiente la mera clausola di stile che fa generico rinvio alle servitù esistenti sull’immobile, solitamente inserita nelle precisazioni immobiliari dell’atto di trasferimento, ma occorre uno specifico richiamo. È poi necessaria l’approvazione precipua delle clausole limitative dei diritti dei singoli in relazione a ciascuna unità immobiliari nel caso di regolamento predisposto dal costruttore/imprenditore, nel rispetto della disciplina della tutela del “consumatore” (artt. 33 e ss. del d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 – cosiddetto “codice del consumo”).
Infine, non si può omettere di rilevare che l’attuale formulazione dell’art. 1138 c.c. prevede l’allegazione del regolamento condominiale nel registro dei verbali dell’assemblea (di cui al numero 7 dell’art.1130 c.c.).
Non v’è dubbio che tale forma di pubblicità “interna” al condominio sia finalizzata alla conoscenza ed al facile reperimento del regolamento ex art. 1138 c.c., essendo l’opponibilità dello stesso già sancita a livello sostanziale dall’art. 1107 c.c., come rilevato innanzi. Alla luce di ciò è quindi lecito domandarsi se questo nuovo sistema di pubblicità “privata”, applicata per estensione al regolamento che contenga “clausole di natura contrattuale”, possa di per sé garantire il richiamo del regolamento negli atti di trasferimento delle singole unità immobiliari; in tal caso, infatti, la consultazione dei registri immobiliari risulterebbe addirittura superflua, con evidente scadimento dell’unica utilità pratica della trascrizione del medesimo che, come spiegato innanzi, non è comunque idonea ai fini dell’opponibilità.
Resta da precisare che le “servitù” espressamente richiamate in atto e non regolarmente trascritte ex art. 2643 n. 4) c.c. vengono qualificate in dottrina come “servitù occulte”: queste ultime si considerano opponibili in base ad un criterio di diritto sostanziale, ossia in base al principio generale per il quale “nessuno può trasferire ad altri diritti maggiori di quelli di cui risulti titolare” e, quindi, a prescindere da qualunque tipo di pubblicità formale che, in caso contrario, finirebbe con l’assumere un’indebita valenza “costitutiva”.

di Gianni Masullo
CSN ANACI

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