venerdì 27 novembre 2015

Delibere assembleari: Attenzione al condomino in conflitto di interesse




“Il condomino che si trovi in conflitto di interesse con il condominio può astenersi dal voto, ma il suo valore personale e millesimale deve essere computato ai fini del calcolo delle maggioranze necessarie per la costituzione e, ove invece non si astenga, anche ai fini di quelle necessarie 
alla deliberazione”. (massima non ufficiale)


Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 4 novembre 2014 – 28 settembre 2015, n. 19131
Presidente Triola – Relatore Petitti


Una sentenza complessa e articolata su un problema di non poco conto, che recepisce orientamenti già espressi ma che nella prassi non sono forse così noti noti e applicati.
La decisione merita grande attenzione per l’amministratore che si trovi a gestire una assemblea che deve deliberare ad esempio in ordine ad una lite fra il Condominio e un singolo condomino.
A fronte dei principi di diritto espressi dalla corte costui può (ma non deve) astenersi dal voto, sussistendo un evidente conflitto di interessi. 
Ciò non toglie che le maggioranze per la costituzione e la deliberazione debbano essere calcolate tenendo conto anche del suo valore personale e millesimale.
Ove la delibera raggiunga la maggioranza prevista con il voto espresso dagli altri condomini non si porrà problema di sorta. diversamente, ove il valore personale e millesimale espresso dal condomino in conflitto risulti determinante nel raggiungimento delle maggioranze necessarie, la deliberà sarà annullabile e potrà essere necessario ricorrere all’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 1105 c.c. 
L’ampia disamina svolta dalla corte, con numerosi spunti di riflessione anche sulla L. 220/2012, impone questa volta un lettura pressoché integrale del testo, per coloro che vogliano comprendere meglio le motivazioni di una sentenza apparentemente bizzarra, a supporto di quanto sinteticamente riassunto sopra. Il giudizio trae origine da una impugnativa di delibera relativa ad una causa fra Supercondominio e condomino, relativamente alla quale la Corte di appello - in riforma della sentenza di primo grado - “aderiva all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, espresso dalle sentenze n. 44080 del 2002 e 100683 del 2002, secondo cui ai fini del calcolo delle maggioranze assembleari condominiali non vanno computate le quote di partecipazione condominiale e i voti dei condomini che siano in conflitto di interessi con il condominio in relazione all’oggetto della delibera.
Nella specie, la delibera impugnata era stata approvata con una maggioranza di 490,25 millesimi mentre il quorum minimo, tenuto conto che le quote dei condomini astenuti dal voto per conflitto di interessi erano pari a 87,94 millesimi, ammontava a 456,06 millesimi.”
Il giudizio approda in Cassazione, ove vengono posti al giudice di legittimità di due seguenti quesiti di diritto:
  • “Voglia la Corte di cassazione enunciare il principio di diritto secondo cui la maggioranza necessaria, in conformità degli artt. 1136 e 2373 c.c., è quella richiesta volta per volta dalla legge in rapporto a tutti i condomini ed all’intero edificio e anche nei casi di conflitto di interesse la maggioranza richiesta per le delibere si rapporta alla totalità dell’elemento personale e reale, vale a dire a tutti i partecipanti al condominio ed al valore dell’intero edificio; conseguentemente anche nell’ipotesi di conflitto di interessi, la deliberazione deve essere presa con il voto favorevole di tanti condomini, i quali rappresentino la maggioranza personale e reale fissata volta per volta”.
  • “Voglia la Corte di cassazione enunciare il principio di diritto secondo cui, anche applicando al Condominio per analogia le disposizioni ex art. 2373 c.c., la situazione di conflitto tra l’interesse proprio e quello collettivo in cui versi uno dei soggetti partecipanti all’assemblea non può ritenersi aprioristicamente estesa anche ad altri soggetti che, non partecipando all’assemblea, abbiano delegato a rappresentarli il soggetto in conflitto di interessi”.
Nel rispondere al primo quesito la corte effettuata un’ampia disamina che vale la pena leggere per intero: “se nel condominio negli edifici, nel caso di conflitto di interessi tra il condominio e taluni partecipanti, le maggioranze costituenti il quorum deliberativo debbano essere calcolate con riferimento a tutti i condomini ed al valore dell’intero edificio; ovvero soltanto ai condomini ed ai millesimi facenti capo ai singoli partecipanti, i quali non versano in conflitto di interessi relativamente alla delibera.
In altri termini, se dal numero dei condomini e dal valore dell’intero edificio (1000 millesimi) debba essere detratta la quota, personale e reale, rappresentata dai condomini in conflitto di interessi per ciò che concerne la proposta messa ai voti; se, quindi, nel calcolo della maggioranza richiesta per approvare la delibera, debba o no tenersi conto dei condomini e dei millesimi facenti capo ai partecipanti in conflitto di interessi. Il Collegio ritiene che al quesito cosi come formulato debba rispondersi affermativamente, ribadendosi le argomentazioni contenute nella decisione di questa Corte n. 1201 del 2002 e la soluzione alla quale essa è pervenuta.
Occorre premettere che l’ordinamento giucivilistico, pur non riconoscendo al condominio una sia pur limitata personalità giuridica, attribuisce, purtuttavia, ad esso potestà e poteri di carattere sostanziale e processuale, desumibili dalla disciplina della sua struttura e dai suoi organi, cosi che deve ritenersi applicabile, quanto al computo della maggioranza della relativa assemblea, la norma dettata, in materia di società, per il conflitto di interessi, con conseguente esclusione dal diritto di voto di tutti quei condomini che, rispetto ad una deliberazione assembleare, si pongano come portatori di interessi propri, in potenziale conflitto con quello del condominio (Cass. n. 11254 del 1997; in precedenza, Cass. n. 270 del 1976)”
Prosegue la corte osservando che” Nella sentenza n. 1201 del 2002 si è, quindi, rilevato come in tema di condominio negli edifici l’ipotesi del potenziale conflitto di interessi tra il condominio ed i singoli partecipanti non è regolata e che, per disciplinarla, dalla giurisprudenza si è richiamato per analogia il disposto dell’art. 2373 cod. civ., nel testo ratione temporis applicabile, anteriore alle
modificazioni introdotte dal d.lgs. n. 6 del 2003, dettato in tema di società di capitali, che stabilisce l’obbligo di astensione del socio, il quale si trova in posizione di conflitto (primo comma), e l’impugnabilità della delibera “se, senza il voto dei soci che avrebbero dovuto astenersi dalla votazione, non si sarebbe raggiunta la necessaria maggioranza” (secondo comma).
Il comma ultimo dello stesso articolo prescrive(va) che le azioni, per le quali non può essere esercitato il diritto di voto, sono tuttavia computate ai fini della regolare costituzione della assemblea.
Si è quindi rilevato come, con riferimento alle società di capitali, la
giurisprudenza dominante abbia affermato che il quorum deliberativo deve essere computato non già in rapporto all’intero capitale sociale, bensì in relazione alla sola parte di capitale facente capo ai soci aventi diritto al voto, con esclusione della quota dei soci che versino in conflitto di interessi (Cass. n. 2489 del 1959; Cass. n. 2562 del 1996; Cass. n. 15613 del 2007). La Corte ha quindi proceduto alla verifica della sussistenza, ai fini della estensione della medesima disciplina delineata per le società di capitali all’assemblea di condominio, della stessa ratio, pervenendo ad una soluzione sul punto negativa. Delle argomentazioni svolte nella sentenza n. 1201 del 2002 a sostegno di tale conclusione, ad avviso del Collegio, sono determinanti quella che fa riferimento al rapporto esistente tra gestione delle cose comuni e fruizione delle proprietà esclusive, e quella che si fonda sulla diversità strutturale del funzionamento delle assemblee nelle società ci capitali e di quelle condominiali.
Sotto il primo profilo, invero, non appare discutibile che, a differenza di quanto avviene nelle società di capitali, nel condominio non esiste un fine gestorio autonomo: la gestione delle cose, degli impianti e dei servizi comuni non mira a conseguire uno scopo proprio del gruppo e diverso da quello dei singoli partecipanti. La gestione delle cose, degli impianti e dei servizi comuni è strumentale alla loro utilizzazione e godimento individuali e, principalmente, al godimento individuale dei piani o delle porzioni di piano in proprietà esclusiva. Tutto ciò si riflette, anzitutto, sul conflitto di interessi, posto che per il sorgere del conflitto tra il condominio ed il singolo condomino è necessario che questi sia portatore, allo stesso tempo, di un duplice interesse: uno come condomino ed uno come estraneo al condominio (e, che l’interesse sia estraneo al godimento delle parti comuni ed a quello delle unità abitative site nell’edificio) e che i due interessi non possano soddisfarsi contemporaneamente, ma che il soddisfacimento dell’uno comporti il sacrificio dell’altro. E si riflette, altresì, sulla disciplina delle maggioranze assembleari, in quanto, posto che nell’organizzazione dell’assemblea la gestione delle parti comuni è predisposta in funzione del godimento delle parti comuni e soprattutto in funzione strumentale a vantaggio del godimento dei piani o delle porzioni di piano in proprietà esclusiva, la disciplina del metodo collegiale e del principio di maggioranza risponde a criteri specifici ; il che comporta che le maggioranze occorrenti per la validità delle delibere in tema di gestione in nessun caso possono modificarsi in meno”.
“Sotto il secondo profilo, deve rilevarsi che nell’assemblea condominiale, sia nella disciplina ratione temporis applicabile, sia in quella introdotta con la legge n. 220 del 2012, il quorum deliberativo - come quello costitutivo - è determinato con riferimento sia all’elemento personale (i condomini partecipanti all’assemblea), sia all’elemento reale (il valore di ciascun piano o porzione di piano rispetto all’intero edificio, espresso in millesimi). Da nessuna norma si prevede che, ai fini della costituzione dell’assemblea o delle deliberazioni, non si tenga conto di alcuni dei partecipanti al condominio e dei relativi millesimi. Il principio maggioritario, adottato dal codice per le deliberazioni assembleari con la regola della “doppia maggioranza”
è un principio specifico dell’istituto condominiale, che vale a distinguerlo dalla disciplina della comunione e delle società, in quanto solo nel condominio è previsto che la maggioranza venga raggiunta dal punto di vista delle persone e del valore.
La sentenza del 2002 individua la ragione della inderogabilità in meno delle maggioranze, e specialmente delle maggioranze qualificate, in quella di impedire che tramite il principio maggioritario, in qualche misura, vengano menomati i diritti dei singoli partecipanti sulle parti comuni e il godimento delle unità immobiliari in proprietà esclusiva.
Perciò, i quorum sono fissati in misura inderogabile (in meno), richiedendosi per le decisioni di particolare importanza il concorso di un numero considerevole di partecipanti e di una frazione consistente del valore dell’edificio.
E, si badi, le maggioranze occorrenti per la validità delle delibere in tema di gestione in nessun caso possono modificarsi in meno. Infatti, i quorum costitutivo e deliberativo dall’assemblea, che decide a maggioranza, non possono immutarsi in meno, e gli stessi quorum non possono modificarsi in misura minore neppure per contratto. Ciò si ricava con certezza dalla disposizione dettata dall’art. 1138, quarto comma, cod. civ., secondo cui il regolamento contrattuale di condominio in nessun caso può derogare alle norme ivi richiamate, comprese quelle stabilite dall’art. 1136 cod. civ. concernenti la costituzione dell’assemblea e la validità delle delibere (Cass. n. 11268 del 1998).
Orbene, nel caso in cui la maggioranza prescritta non si possa raggiungere perché non si può tenere conto del numero e dei millesimi dei condomini in potenziale conflitto di interessi, non si vede la ragione - al fine di evitare la paralisi del collegio - di attribuire uno straordinario potere deliberativo alla minoranza. Se l’assemblea non può deliberare perché nella votazione non si raggiunge la maggioranza prescritta, nel caso di conflitto di interessi il rimedio di attribuire alla minoranza un ingiustificato potere di deliberare sovvertirebbe gli equilibri fissati, sulla base degli elementi personale e reale, dalle regole concernenti il metodo collegiale ed il principio maggioritario. Con la precisazione che se l’assemblea non può deliberare soccorre la disposizione contenuta nell’art. 1105, quarto comma, cod. civ. - applicabile al condominio in virtù del rinvio fissato dall’art. 1139 cod. civ. - secondo cui, quando non si formano le maggioranze, ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria.
Né è senza rilievo la circostanza che la riforma del diritto societario (d.lgs. n. 6 del 2003) abbia rimodulato l’art. 2373 cod. civ., il quale nella sua attuale formulazione prevede, al primo comma, che “la deliberazione approvata con il voto determinante di coloro che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società è impugnabile a norma dell’articolo 2377 qualora possa recarle danno” e, al secondo comma, che “gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità. I componenti del consiglio di gestione non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza”.
Come si vede, e come evidenziato dai ricorrenti, nella nuova formulazione dell’art. 2373 cod. civ. è venuta meno la disposizione, sulla quale pure si fondava la soluzione adottata in ambito societario ai fini di poter distinguere, in tema di conflitto di interesse, il quorum costitutivo dell’assemblea da quello deliberativo della stessa (Cass. n. 2562 del 1996; Cass. n. 15613 del 2007). D’altra parte, il legislatore del 2012, nel riformare il condominio, nulla ha aggiunto in tema di disciplina del conflitto di interesse nell’ambito condominiale; con il che rafforzando l’interpretazione giurisprudenziale che, pur richiamando la disciplina societaria in tema di conflitto di interesse, faceva salve le specificità dell’istituto condominiale, e segnatamente quella della impossibilità di distinguere il quorum costitutivo da quello deliberativo. Il Collegio rileva che le argomentazioni svolte dalla sentenza n. 1201 del 2002, che consapevolmente si è contrapposta ad un precedente orientamento che aderiva alla soluzione seguita dalla Corte d’appello nella sentenza impugnata, non siano state a loro volta contrastate da successive pronunce di questa Corte.
In particolare, la quasi coeva sentenza n. 10863 del 2002, probabilmente perché deliberata prima della pubblicazione della sentenza n. 1201 del 2002, non contiene altro che un richiamo al precedente orientamento e non si misura in alcun modo con gli argomenti prima evidenziati. Altre decisioni della Corte hanno poi interessato il diverso problema della computabilità o no dei voti espressi dal condomino che si trovi in conflitto di interessi, qualora questi sia anche rappresentante di altri condomini, ma non hanno in alcun modo considerato il profilo qui in esame (Cass. n. 10863 del 2002; Cass. n. 22234 del 2004; Cass. n. 18192 del 2009).
In sostanza, deve qui riaffermarsi il principio per cui “in tema di condominio, le maggioranze necessarie per approvare le delibere sono inderogabilmente quelle previste dalla legge in rapporto a tutti i partecipanti ed al valore dell’intero edificio, sia ai fini del conteggio del quorum costitutivo sia di quello deliberativo, compresi i condomini in potenziale conflitto di interesse con il condominio, i quali possono (non debbono) astenersi dall’esercitare
il diritto di voto. Pertanto, anche nell’ipotesi di conflitto d’interesse, la deliberazione deve essere presa con il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino la maggioranza personale e reale fissata dalla legge e, in caso di mancato raggiungimento della maggioranza necessaria per impossibilità di funzionamento del collegio, ciascun partecipante può ricorrere all’Autorità giudiziaria”.
Foro convenzionale e regolamento di condominio 
In deroga all’art.23 c.p.c. (Foro per le cause tra 
soci e tra condomini), il regolamento condominiale 
può stabilire la competenza per territorio di un Tribunale 
diverso da quello del luogo in cui è ubicato il 
condominio. Infatti, l’art.23 c.p.c. introduce un foro 
speciale esclusivo per le controversie tra condomini, 
stabilendo che per esse è competente il giudice del 
luogo in cui si trova l’immobile condominiale; il carattere 
esclusivo del foro non significa che lo stesso 
sia anche inderogabile. Le ipotesi di inderogabilità 
della competenza territoriale sono stabilite dall’art.
28 c.p.c., e non vi rientra il foro per le cause tra 
condomini; il foro ex art. 23 c.p.c. è derogabile in 
presenza di un accordo tra le parti sul punto.

Corte di Cassazione, VI Civile -2, ordinanza 11
giugno – 25 agosto 2015, n. 17130
Presidente Petitti – Relatore Giusti

E’ noto che il codice di procedura detti una serie di norme per individuare il Tribunale territorialmente competente per determinate controversie. L’art. 23 c.p.c. prevede che “per le cause tra condomini, ovvero tra condomini e condominio , il giudice del luogo dove si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi”. E’ altrettanto noto che le parti possano in talune ipotesi derogare e tali criteri e indicare un diverso Tribunale (è norma di comune esperienza che spesso nei contratti commerciali sia indicata la clausola “per tutte le controversie relative al presente contratto sarà competente il Tribunale di…).
Ebbene, tale deroga è consentita anche per le cause condominiali e può essere contenuta nel regolamento di condominio. Nel caso di specie la questione ha grande rilievo pratico perché il condominio si trova a Tempio PAusania mentre come foro convenzionale è indicato il Tribunale di Milano.
Osserva la corte che “È condivisibile il presupposto interpretativo da cui muovono i ricorrenti: l’art.23 cod. proc. civ. introduce un foro speciale esclusivo per le controversie tra condomini, stabilendo che per esse è competente il giudice del luogo in cui si trova l’immobile condominiale (Cass., Sez. Un.,18 settembre 2006, n. 20076); il carattere esclusivo del foro non significa che lo stesso sia anche inderogabile; le ipotesi di inderogabilità della competenza territoriale sono stabilite dall’art. 28 cod. proc. civ., e non vi rientra il foro per le cause tra condomini; il foro ex art. 23 cod. proc. civ. è derogabile in presenza di un accordo tra le parti sul punto. Nella specie il foro convenzionale è stabilito dall’art. 32 del regolamento condominiale per ogni controversia relativa al regolamento stesso.
Tale clausola risulta applicabile, posto che la nullità o l’annullamento dell’assemblea condominiale è stata richiesta per violazione delle normedi regolamento in materia di valida costituzione dell’assemblea.” La clausola che deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria è considerata vessatoria ai sensi dell’art. 1341 c.c. e richiede pertanto specifica e separatista approvazione nei contratti. Ne deriva che trattandosi di disciplina convenzionale essa possa essere contenuta solo in regolamenti di natura contrattuale.
La stessa Corte fa riferimento, nel caso di specie, ad un accordo delle parti sul punto.


di Massimo Ginesi
Coordinatore giuridico CSN Anaci

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