venerdì 27 novembre 2015

E' diffamazione definire “moroso” il condomino solo perchè non paga le quote?



Sostenere che qualcuno non rispetta gli obblighi - ed i relativi oneri economici - assunti nell’aderire ad un contesto condominiale è certamente diffamatorio quando il fatto non sia vero, ma altrettanto pacificamente non lo è quando l’addebito corrisponda alla realtà, o quanto meno si abbia ragione di ritenerlo veritiero


Nell’uso dialettale, soprattutto in Veneto e, comunque, nel nord-est dell’Italia, si registra come abbastanza diffuso l’utilizzo del termine “moroso”, che sta a significare praticamente il fidanzato, forse da una contrazione della parola “amoroso”.
Ad essere più precisi, il suddetto termine indicherebbe uno step prima dell’essere fidanzato, nel senso che quest’ultimo rappresenta qualcuno di fisso, stabile e potenzialmente duraturo, mentre il primo richiama qualcosa di non ancora ufficiale, meno impegnativo, specie in vista della futura decisione del matrimonio.
Nella prassi condominiale, invece, il termine “moroso” non evoca tali positive situazioni, perché indica giuridicamente il condomino che, volente o nolente, non paga gli oneri condominiali a suo carico, necessari intuitivamente perché la “macchina condominiale” possa funzionare.
In quest’ottica, dare del “moroso” ad un condomino inadempiente ai suoi obblighi potrebbe comportare risvolti in sede penale, ed è proprio di questo che si sono occupati, da ultimo, i giudici di Piazza Cavour decidendo, con ragionevolezza e buon senso, ma con rilievi da prendere sempre cum grano salis, la seguente fattispecie (v. Cass.pen. 8 luglio 2015 n. 29105, riferita, in realtà, ad una cooperativa ma con principi pienamente esportabili in àmbito condominiale).
Continua così il difficile percorso ermeneutico intrapreso dai giudici di legittimità volto a perimetrare l’ambito di operatività esistente tra il legittimo diritto di critica da parte del singolo ed il comportamento delittuoso volto ad offendere il prossimo (qualora il “bersaglio” sia rappresentato dal legale rappresentante del condominio, “Apostrofare l’amministratore ‘incompetente’ in assemblea non è reato, ma legittimo diritto di critica del condomino”).
Orbene, il Giudice di Pace aveva condannato il presidente di un’assemblea di condominio alla pena ritenuta di giustizia per il delitto di diffamazione, in quanto, nel corso di una riunione, aveva stigmatizzato il comportamento di alcuni partecipanti al medesimo condominio, ma assenti nell’occasione, addebitando loro di essere “dissidenti imperterriti” ed “anarchici senza regole”, di “fomentare dissidi tra i condomini con scritti e parole” facendo così proseliti, di agire per “motivi deliranti”, di essere autori di “illazioni” e “soprusi”, di “non saper stare in società ed anche in condominio”, nonché di dire “un sacco di bugie”. Tecnicamente, il reato ascrittogli era quello contemplato dall’art. 595 cod. pen., in quanto l’asserita offesa dell’altrui reputazione era avvenuta nell’àmbito della riunione condominiale, ossia “comunicando con più persone”, atteso che, nell’assemblea, almeno potenzialmente, sono legittimati a partecipare anche persone estranee alla compagine condominiale (delegati dei condomini, inquilini, legali, tecnici, ecc.).
L’imputato, ricorrendo in cassazione, deduceva l’apparente e manifestamente illogicità dalla motivazione, in quanto il Tribunale, confermando la decisione del giudice di prime cure, aveva ritenuto che l’offesa sarebbe consistita nell’avere affermato, dinanzi agli altri condomini, che le persone offese dal reato di cui sopra non avevano pagato gli oneri condominiali, e dunque di non saper stare in società ed in condominio: tali espressioni, però, avrebbero dovuto essere valutate con riferimento al contesto in cui erano intervenute,connotato da un dibattito di accesa critica verso l’operato dei querelanti.
Questi ultimi, infatti, avevano intrapreso una serie di giudizi dinanzi a varie autorità, creando un clima di obiettiva tensione all’interno del condominio; inoltre, era pacifico che le parti civili non avessero onorato gli impegni economici correlati alla loro partecipazione, con alcuni contenziosi ancora in atto.
Ne derivava che, alla stregua della comune sensibilità e valutando le peculiarità del caso concreto, le frasi de quibus non avrebbero dovuto intendersi idonee a ledere la reputazione di alcuno.
Il ricorrente prospettava anche la mancanza di motivazione circa la ritenuta non applicabilità degli artt. 21 Cost. e 51 cod. pen.: segnatamente, nella tesi difensiva, si deduceva che l’imputato aveva usato le ricordate espressioni nel legittimo esercizio del diritto di critica; pur avendo sviluppato, sul punto, uno specifico motivo di appello, il Tribunale non avrebbe affrontato in alcun modo la questione dell’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 595 cod. pen. L’imputato rilevava, altresì, che, nel caso in esame, non sarebbe stato configurabile l’elemento soggettivo del delitto di diffamazione: nello specifico, egli, pronunciando le parole incriminate, non aveva avuto alcuna consapevolezza di utilizzare espressioni diffamanti, né la volontà di ledere l’altrui reputazione.
Infine, lo stesso ricorrente denunciava la violazione dell’art. 599 cod. pen., in quanto, nella fattispecie, le parti civili avevano realizzato una condotta costituente fatto ingiusto, consistita nell’avere accusato l’imputato di una gestione “personalizzata” del bilancio del condominio, sino a querelarlo per appropriazione indebita (accusa di cui era, poi, stata accertata l’infondatezza).
L’imputato aveva, pertanto, agito in stato d’ira, conseguente anche alla “enorme e spropositata mole di contenzioso pendente” tra i condomini ed il condominio, e, in proposito, si richiamava la giurisprudenza di legittimità secondo cui il carattere di “immediatezza” della reazione del soggetto provocato dovesse interpretarsi in termini relativi.
Gli ermellini hanno ritenuto il suddetto ricorso fondato, sicché la sentenza impugnata è stata annullata senza rinvio perché “il fatto non costituisce reato”.
Invero, si è rilevato che, in occasione dell’assemblea del condominio, l’imputato avrebbe usato, riferendosi al comportamento dei querelanti, espressioni assai critiche, ma che non possono intendersi rilevanti ex art. 595 cod. pen.
Si tenga conto che, in materia di diffamazione, la Corte di Cassazione può conoscere e valutare l’offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice
di legittimità procedere, in primo luogo, a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell’imputato.
Relativamente al diritto di critica, va del resto considerata “un’obiettiva conflittualità tra i protagonisti della vicenda”, sostanzialmente non contestata da alcuno, da un lato, in ordine alla gestione condominiale (che i querelanti addebitavano al ricorrente) e, dall’altro, a proposito dell’osservanza delle regole del sodalizio (che, a sua volta, il ricorrente riteneva non rispettate dai querelanti).
Ed allora, il limite della “continenza” può intendersi superato soltanto in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti ed inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato.
Pertanto, il contesto nel quale la condotta si colloca può essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma “non può in alcun modo scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale” (così Cass. pen. 23 febbraio 2011 n. 15060: nella specie, era stata esclusa la scriminante del diritto di critica riguardo alla diffusione di un comunicato con il quale un soggetto, iscritto alla medesima organizzazione sindacale degli autori dello scritto ma dissenziente su specifiche posizioni, era stato definito “notoriamente imbecille”).
L’esimente de qua, in applicazione degli stessi principi, è stata, invece, ravvisata nel contesto conflittuale tra il correntista di un istituto di credito ed un funzionario di banca, al quale il primo aveva attribuito “meschini comportamenti” in una missiva indirizzata alle autorità sovraordinate (v. Cass. pen. 17 febbraio 2014 n. 23579), come pure tra l’amministratore di una società ed il collaboratore licenziato, avendo il primo comunicato alla clientela, in termini obiettivi e continenti, le ragioni dell’allontanamento del dipendente (v.Cass. pen. 27 marzo 2007 n. 29277).
Venendo al caso in esame - ad avviso dei magistrati del Palazzaccio - è pacifico come la reale portata offensiva dei termini rivolti dall’imputato alle controparti sia stata analizzata, dai giudici di merito, con modalità non del tutto coerenti.
In particolare, per il Giudice di Pace, assumerebbero rilievo le espressioni “fomentare dissidi per i soliti motivi deliranti, anarchici senza regole, il non sapere stare in società e anche in condominio”, da ritenere altamente lesive dell’altrui reputazione proprio perché indicative di un comportamento, ossia di un modo di fare non solo continuativo ma abituale e certamente non ortodosso, passibile quindi di determinare l’altrui riprovazione.
Secondo il Tribunale, le frasi lesive dell’onore delle persone offese erano quelle “di non pagare gli oneri condominiali, il non sapere stare in società ed anche in condominio”, frasi che, del resto, erano state pronunciate alla presenza di altri condomini e cristallizzate nel verbale di assemblea, accessibile a chiunque vi avesse interesse.
Il Supremo Collegio ha, invece, ritenuto che sia oltremodo significativa la circostanza dell’avere il giudice di appello evocato la condotta (in ipotesi, attribuita dall’imputato alle parti civili) di non pagare gli oneri condominiali; quel comportamento, in realtà, non assume affatto rilievo ai fini della diffamazione contestata, perché non contemplato dalla rubrica, ma costituisce il presupposto stesso dell’iniziativa dell’imputato.
Sostenere che qualcuno non rispetta gli obblighi -ed i relativi oneri economici- assunti nell’aderire ad un contesto condominiale è certamente diffamatorio quando il fatto non sia vero, ma altrettanto pacificamente non lo è quando l’addebito corrisponda alla realtà, o quanto meno si abbia ragione di ritenerlo veritiero.
Ne deriva, in buona sostanza, che innegabilmente il presidente dell’assemblea ha inteso stigmatizzare la condotta di soggetti che, a suo avviso, dimostravano appunto di “non saper stare” (non rispettandone la prima ed essenziale regola, di versare il dovuto) in un condominio, e non si vede proprio dove possa ravvisarsi, in quest’ordine di principi, la lesione dell’altrui reputazione.
Né il suddetto quadro può mutare prendendo in considerazione le ulteriori e distinte espressioni su cui aveva posto l’accento il giudice di primo grado, ovvero rilevando - come si legge nella sentenza impugnata - le potenzialità diffusive del verbale di quell’assemblea.
Stante il presupposto del contenzioso economico di cui sopra, financo esteso alla complessiva gestione condominiale, l’imputato ha manifestato l’opinione che i suoi contraddittori fomentavano dissidi (che egli riteneva, evidentemente, del tutto pretestuosi), che lo facevano adducendo motivi talmente inconsistenti da apparire deliranti, e che pertanto quei soggetti si rivelavano insofferenti al rispetto delle norme di un consorzio civile; espressioni, senza dubbio, aspre e fortemente polemiche, ma che non sconfinavano di certo nella contumelia fine a se stessa: con particolare riferimento all’epiteto che importa le connotazioni più negative, deve del resto osservarsi che, secondo la tesi dell’imputato - condivisibile o meno che fosse - ad essere “deliranti” non erano le parti civili, bensì le loro argomentazioni, alle quali il ricorrente intendeva evidentemente contrapporre le proprie.
Le possibilità di accesso al verbale dell’assemblea, infine, non sembra - ad avviso del massimo consesso decidente - che fossero indiscriminate, risultando limitate a chi poteva avervi diritto od interesse qualificato all’interno dello stesso condominio; sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affermare che integra il delitto di diffamazione il comunicato, redatto all’esito di un’assemblea condominiale, con il quale alcuni condomini siano indicati come morosi nel pagamento delle quote condominiali e vengano conseguentemente esclusi dalla fruizione di alcuni servizi, qualora esso sia affisso in un luogo accessibile (non già ai soli condomini dell’edificio per i quali può sussistere un interesse giuridicamente apprezzabile alla conoscenza di tali fatti, bensì) ad un numero indeterminato di altri soggetti (v.Cass. pen. 18 settembre 2007 n. 35543).
Di diverso parere sono stati, di recente, gli stessi giudici di legittimità in un’altra fattispecie, ancorché non completamente sovrapponibile (v.Cass. pen. 11 novembre 2014 n. 46498).
Nel caso concreto, l’imputato era stato condannato dal Giudice di Pace alla pena di euro 200,00 di multa, oltre al risarcimento in favore della parte civile, per avere offeso l’onore e la reputazione di un partecipante, definendolo “condomino moroso, ad uso a non pagare le quote condominiali di sua spettanza”.
Il Tribunale aveva confermato tale decisione e, contro la sentenza di appello, l’imputato aveva proposto ricorso per cassazione per vizio di motivazione sotto forma di travisamento del fatto, consistente nella negazione della sussistenza di una circostanza sicuramente risultante dalle prove.
In particolare, si impugnava la suddetta sentenza laddove si escludeva l’esercizio del diritto di critica sulla considerazione che agli atti non vi era prova alcuna che i fatti oggetto della dichiarazione incriminata fossero veridici.
Il ricorso per cassazione, in questo caso, è stato ritenuto infondato.
Preliminarmente, si è osservato che il “travisamento”, per essere rilevante in sede di legittimità, deve essere di tale portata da scardinare il costrutto argomentativo della sentenza; nella specie, la verità oggettiva dei fatti dedotta dal ricorrente atteneva esclusivamente al mancato pagamento delle spese condominiali, circostanza che non avrebbe comportato comunque la sussistenza dell’invocata scriminante del diritto di critica, sia perché la parte lesa, pur ammettendo di non aver pagato le spese condominiali, ha sostenuto di essere a sua volta in credito con il condominio - il che esclude la sua morosità, quantomeno fino a prova del contrario - sia perché il diritto di critica deve essere esercitato nel giusto contesto e tale non era certamente quello in cui si era manifestata la frase diffamatoria.
Invero, la critica nei confronti di un condomino può legittimamente estrinsecarsi all’interno di un’assemblea condominiale o nei rapporti con l’amministratore, ma di certo non può legittimare affermazioni offensive rivolte nei confronti di terzi, tanto più se - come nel caso di specie - ignari ospiti della persona offesa.
Nell’ipotesi concreta, poi, l’intento diffamatorio era implicito, ma evidente, né va dimenticato che il vizio di “travisamento della prova” può essere dedotto solo nell’ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto, nell’ipotesi di doppia pronuncia conforme, il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il giudice di appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (v. Cass. pen. 28 maggio 2008, n. 25883).
In tema di ricorso per cassazione, dunque, quando ci si trova dinanzi ad una “doppia pronuncia conforme”, e cioè ad una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), l’eventuale vizio di travisamento può essere rilevato in sede di legittimità ex art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (v. Cass. pen. 10 febbraio 2009 n. 20395).
Quanto premesso ha consentito alla Suprema Corte di affermare la piena legittimità, sotto il profilo della motivazione, della sentenza impugnata, sicché il ricorso presentato dall’imputato non è stato considerato meritevole di accoglimento.
Come dire, il definire “moroso” il condomino perché non paga le quote talvolta potrebbe costare caro (altro che situazione idilliaca!).


di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore presso la Corte di Cassazione

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