mercoledì 7 gennaio 2015

E' reato apostrofare l’amministratore INCOMPETENTE in assemblea?



I giudici di legittimità hanno considerato integrato il delitto di diffamazione nel comunicato redatto all’esito di un’assemblea, con il quale alcuni condomini erano stati indicati come “morosi” nel pagamento delle quote condominiali ed erano stati esclusi dalla fruizione di alcuni servizi.

Durante lo svolgersi dell’assemblea, l’agone condominiale raggiunge la sua massima espressione e, talvolta, “volano parole grosse”, se non addirittura si ricorre alle vie di fatto. Una fattispecie analizzata, di recente, dai giudici di legittimità tenta di individuare il sottile discrimen tra il comportamento delittuoso volto ad offendere il prossimo ed il legittimo diritto di critica da parte del singolo partecipante (v. Cass. pen. 5 febbraio 2015 n. 5633). Il processo penale giunto fino ai giudici di Piazza Cavour era stato deciso in senso negativo da entrambi i giudici di merito (Giudice di Pace e Tribunale), i quali avevano ritenuto un condomino responsabile del reato di “ingiuria” di cui all’art.594 cod. pen. che punisce “chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente” commesso nel corso di un’assemblea, rivolgendo all’amministratore del suo condominio l’epiteto “incompetente” e, per l’effetto, l’avevano condannato alla pena di euro 800,00 di multa, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile (in realtà, sia l’imputato che l’amministratore erano due donne, e forse questo spiegherebbe molti particolari della vicenda). Con l’impugnazione in Cassazione, il ricorrente deducendo la violazione di legge e prospettando il vizio di motivazione sull’affermazione di responsabilità affermava che la formulazione del termine contestato nell’ambito di un’assemblea condominiale, nel corso della quale l’imputato criticava l’operato dell’amministratore sia per la mancata giustificazione di spese nel rendiconto consuntivo sia per l’esecuzione di lavori nell’edificio, escluderebbe il contenuto offensivo dell’espressione e, comunque, renderebbe ravvisabile la scriminante del diritto di critica; inoltre, risultavano a questi fini gli accadimenti estranei alla condotta specificamente contestata, valorizzati nella sentenza impugnata, peraltro smentiti da un teste escusso nel giudizio di prime cure, con particolare riguardo alla ricezione dall’imputato di un biglietto di contenuto ulteriormente ingiurioso nei confronti del medesimo amministratore.
Il ricorso del condomino è stato ritenuto fondato, sicché la sentenza impugnata è stata annullata senza rinvio perché “il fatto non costituisce reato”. Gli ermellini hanno avuto debito riguardo al contesto della discussione condominiale, nel corso della quale il termine di cui all’imputazione veniva formulato, nel senso che quest’ultimo risultava senz’altro assistito dall’esercizio di un legittimo diritto di critica nei confronti dell’amministratore, riguardo alle modalità della gestione del condominio da parte dello stesso.
Invero, il termine “incompetente” non trascendeva, di per sé, i limiti di tale esercizio, non investendo la persona dell’amministratore in quanto persona fisica, ma limitando la critica agli atti dallo stesso compiuti nel compimento del proprio incarico. Né il superamento dei limiti di cui sopra poteva essere desunto da altri comportamenti segnalati nella sentenza impugnata, quale in particolare l’affissione nella bacheca condominiale, nei giorni successivi, di un biglietto nel quale l’amministratore veniva definito come un “mentecatto”, trattandosi di fatti estranei a quello specificamente contestato nell’imputazione, esauritosi nell’àmbito della discussione nell’assemblea del condominio.
La fattispecie penale avrebbe potuto essere inquadrata anche nel delitto di “diffamazione”, in quanto l’asserita offesa dell’altrui reputazione era avvenuta nell’àmbito della riunione condominiale, ossia “comunicando con più persone”, come previsto dal successivo art. 595 cod. pen., atteso che nell’assemblea sarebbe legittimati a partecipare anche persone estranee alla compagine condominiale (delegati dei condomini, inquilini, legali, tecnici, ecc.).
In quest’ottica, una remota pronuncia (v. Cass. pen. 2 aprile 1973 n. 4562) ha ritenuto che l’avviso di convocazione dell’assemblea, affisso nell’atrio dello stabile, con all’ordine del giorno la comunicazione che un condomino era indiziato di reità in seguito ad una denuncia dello stesso amministratore, costituisce “comunicazione a più persone” ed integra il delitto di diffamazione, poiché anche persone estranee al condominio avrebbero potuto essere informate della condizione dì indiziato di reità assunta dal condomino.
Per venire più da vicino ai giorni nostri, gli stessi giudici di legittimità (v. Cass. pen. 18 settembre 2007 n. 35543) hanno considerato integrato il delitto di diffamazione nel comunicato, redatto all’esito di un’assemblea, con il quale alcuni condomini erano stati indicati come “morosi” nel pagamento delle quote condominiali ed erano stati conseguentemente esclusi dalla fruizione di alcuni servizi, in quanto esso risultava affisso in un luogo accessibile - non già ai soli condomini dell’edificio, per i quali poteva anche sussistere un interesse giuridicamente apprezzabile alla conoscenza di tali fatti - ma ad un numero indeterminato di altri soggetti.
Le considerazioni di cui sopra offrono lo spunto per analizzare due sentenze dei massimi giudici penali che si sono occupate dell’argomento, e segnatamente dell’offesa dell’altrui reputazione mediante comunicazioni condominiali e dell’esimente dell’esercizio del diritto nel reato di diffamazione. Nel caso concreto affrontato da Cass. pen. 28 agosto 2014 n. 39986, entrambi i giudici di merito avevano condannato l’amministratore del condominio alla pena di euro 1.000,00 per il reato
di diffamazione oltre al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili per aver disposto l’affissione della missiva diffamatoria nei confronti delle parti civili, consistente nel loro stato persistente di morosità. 
Ricorrendo in cassazione, l’imputato sosteneva l’insussistenza dell’elemento “oggettivo” del reato di cui all’art. 595 cod. pen. rappresentando, in proposito, che la missiva in questione non conteneva alcun epiteto ingiurioso o altre espressioni dalle quali potesse desumersi l’offesa all’altrui reputazione; evidenziava, poi, che la dichiarazione di morosità, che si assumeva essere contraria al vero, risultava invece rispondente a verità, come le stesse parti civili avevano ammesso; eccepiva, inoltre, la carenza del requisito della comunicazione con più persone, in quanto le persone offese avevano dichiarato di avere sùbito rimosso la missiva senza che nessuno ne potesse prendere visione.
L’imputato opinava, altresì, mancante l’elemento “soggettivo” dello stesso reato di diffamazione, stante anche la presenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen. (esercizio di un diritto contemplato da un norma giuridica), esplicitando che la diffusione de qua era volta solamente a sollecitare il pagamento di quanto dovuto, essendo carente, quindi, l’animus diffamandi; si riteneva, poi, che la punibilità del fatto era esclusa, poiché il ricorrente aveva solo portato a conoscenza dei condomini interessati le decisioni assunte, così soddisfacendo un loro oggettivo interesse alla comunicazione. Il Supremo Collegio ha rigettato il suddetto ricorso sotto entrambi i profili. Quanto al primo, trattasi di questioni che attengono a valutazioni di merito, insindacabili nel giudizio di legittimità, quando il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare si presenti scevro da vizi logici, come nel caso di specie. Invero, la Corte territoriale ha adeguatamente dato atto degli elementi probatori in forza dei quali il fatto era stato attribuito al ricorrente, facendo riferimento, in particolare, alla circostanza che la comunicazione ritenuta diffamatoria era stata sottoscritta proprio dallo stesso amministratore, il quale sia era avvalso di un altro soggetto per affiggere tale comunicazione al portone di ingresso del condominio.
Relativamente al secondo profilo, si é correttamente evidenziato che la comunicazione contenente i nominativi dei condomini morosi affissa al portone, anche in presenza di un’effettiva morosità degli stessi, costituiva una condotta diffamante, non sussistendo alcun interesse da parte dei terzi alla conoscenza di quei fatti, anche se veri. Sepre con riferimento all’elemento soggettivo del reato, altrettanto correttamente il giudice distrettuale aveva sottolineato che, ai fini dell’integrazione del delitto di diffamazione, era sufficiente il dolo generico, che può assumere anche la forma del dolo eventuale, ravvisabile laddove l’agente faccia consapevolmente uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive.
In ordine, infine, alla ricorrenza, nel caso di specie, dell’esimente del diritto di critica invocato dall’imputato premesso che la scriminante in parole è in astratto ipotizzabile non solo in relazione all’attività di giornalisti o scrittori, ma anche rispetto al comune cittadino si è sottolineato che occorre sempre valutare la rilevanza della diffusione della notizia, che deve essere funzionale al corretto svolgimento delle relazioni interpersonali e dei rapporti sociali.
In quest’ottica, la diffusione della comunicazione, attraverso la sua affissione al portone di ingresso, essendo potenzialmente conoscibile da un numero indeterminato di persone, integrava il delitto contestato, per essere carente, al di fuori del ristretto àmbito condominiale, un qualsiasi interesse alla conoscenza della circostanza relativa alla morosità di alcuni condomini.
Passando ora alla fattispecie risolta da Cass. pen. 19 aprile 2006 n. 19148, il processo prendeva le mosse dall’imputazione, a danno di un condomino, del reato di cui all’art. 595, commi 1 e 2, cod. pen., per avere offeso l’onore di un altro condomino, affermando, durante il corso di un’assemblea, in presenza di una pluralità di persone, di averlo visto danneggiare la fiancata di un’autovettura parcheggiata in prossimità del passo carraio condominiale, mediante l’utilizzo di una chiave. Il Tribunale aveva ritenuto responsabile l’imputato del reato ascrittogli, condannandolo alla pena di giustizia nonché al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile; a seguito di rituale impugnazione proposta dall’imputato, la Corte d’Appello aveva confermato la decisione di prime cure. Contro tale sentenza, l’imputato aveva proposto ricorso per cassazione rilevando, in particolare, la violazione dell’art. 595 cod. pen., per essersi limitato ad informare l’assemblea di uno dei tanti comportamenti della persona offesa, che già in precedenza avevano provocato la presa di posizione di tutto il condominio; in buona sostanza, il ricorrente aveva solo riferito di comportamento integrante il reato di molestie ex art. 660 cod. pen. in danno dei condomini.
Il massimo consesso decidente penale ha ritenuto tale ricorso meritevole di accoglimento.
Invero, la Corte territoriale aveva rigettato l’istanza di rinnovazione del dibattimento affermando che essa “non porterebbe utilità all’analisi dell’esistenza del reato”, mentre in precedenza aveva affermato che il reato contestato sussiste a prescindere dalla verità o veridicità dell’accaduto”; altrettanto contraddittoriamente aveva rilevato, poi, che “è evidente l’offensività dell’attribuzione di un fatto costituente reato a prescindere dalla verità o veridicità dell’accaduto, per la quale vi è esclusione della prova liberatoria ai sensi dell’art. 596 cod. pen.”. Innanzitutto, si è opportunamente chiarito il rapporto tra tale ultima norma e quella di cui all’art. 51 cod. pen., implicitamente invocata dal ricorrente, in quanto costantemente il Supremo Collegio ha precisato che l’esimente dell’esercizio del diritto ricorre ogni qualvolta si agisce nell’àmbito di un diritto soggettivo nascente direttamente da una norma di legge o da altra fonte. Si é ricordato, inoltre, al fine di riempire di significato l’enunciato normativo in parola che, mentre nell’art. 51 cod. pen. si fa riferimento all’esercizio di un diritto, l’art. 25 dell’abrogato cod. proc. pen. e l’art. 652 del vigente cod. proc. pen. fanno riferimento, più correttamente, alla formula di proscioglimento perché “il fatto è stato compiuto nell’esercizio di una facoltà legittima”; ciò rileva in quanto l’esercizio concerne il contenuto del diritto, ossia la facoltà, non il diritto stesso, essendo le facoltà manifestazioni del diritto che sono prive di carattere autonomo ma sono in esso comprese.
Tali precisazioni sono rese necessarie per meglio comprendere il chiaro insegnamento contenuto in un’altra pronuncia (v. Cass. pen. 2 ottobre 1995 n. 11401), che ha deciso una fattispecie del tutto
simile a quella oggetto del presente procedimento con soluzione opposta a quella accolta dalla sentenza impugnata.
Infatti, in tema di diffamazione, l’esercizio di un diritto scrimina se il fatto offensivo è vero; quando viene attribuito un reato, ciò che scrimina non è soltanto la verità dell’incolpazione, sub specie di nomen iuris del fatto, ma anche la verità del solo dato oggettivo (possesso della refurtiva, ingiusta attribuzione di un debito nel bilancio di una società, ecc.), che è rappresentativo, di per sè, secondo la diligenza dell’uomo medio, del corrispondente reato (falso in bilancio, appropriazione indebita, furto, truffa, ecc.); la verità del fatto, in tal senso intesa, deve essere apprezzata, nella serietà della prospettazione e ai fini dell’accertamento del dolo e dell’esimente, con riferimento al momento in cui viene posto in essere l’atto diffamatorio nonché alle circostanze e ai comportamenti che, in quel tempo, fanno ritenere fondata la propalazione; il post factum, in quanto estraneo alla verità del momento, ed il successivo accertamento giudiziale dell’infondatezza dell’accusa, basata su elementi non conosciuti o non conoscibili al tempo della propalazione, non possono avere incidenza giuridica per escludere la causa di giustificazione. Tanto premesso in ordine alla verità del fatto, si è, altresì, precisato che, poiché nessuno può ergersi a giudice dell’indegnità altrui, in quanto la norma incrimina anche la propalazione di fatti veri, l’esimente postula il limite della continenza, onde evitare che l’esercizio del diritto si risolva in un pretesto ed in uno strumento illecito di aggressione all’altrui reputazione. Il requisito della continenza - secondo l’insegnamento richiamato - ha una duplice prospettazione, soggettiva e oggettiva, in quanto desumibile dai due elementi essenziali, sintomatici di serenità, misura e proporzione qui di seguito elencati:
  1. dalle espressioni usate, che possono essere anche colorate dal gergo corrente, ma non devono essere oggettivamente denigratorie e rappresentative di un dolus malus di gratuita offesa;
  2. dalla sfera di tutela riconosciuta dall’ordinamento giuridico, in quanto la propalazione è giustificata se mantenuta in termini strettamente necessari per esercitare il diritto.
In applicazione dei principi innanzi trascritti, la pronuncia richiamata ha ritenuto non punibile, ai sensi dell’art. 51 cod. pen., il condomino che, nel corso di un’assemblea, a fronte dell’ingiusta contabilizzazione, oggettivamente falsa, e dell’arrogante resistenza dell’amministratore che si era rifiutato di chiarire la situazione, aveva sollecitato, provocatoriamente, i condomini dissenzienti ad agire in via giudiziaria, affermando, testualmente, “ci hanno fregato dieci milioni, possono fregarcene cento”. Sul punto, si è spiegato che “l’atto è scriminato perché manifestazione dello ius defendendi e postulandi, esercitato nel contesto di un’assemblea condominiale, preparatoria dell’azione giudiziaria,
e mantenuto in termini contenuti, non eccessivi rispetto allo scopo lecito da realizzare, pur se coloriti dal gergo corrente”. Nella fattispecie in esame, non si discorre di continenza, essendo pacifico già dall’imputazione che l’imputato si è limitato a riferire un fatto costituente reato (art. 635 cod. pen.) attribuito ad al condomino ed avente effetti pregiudizievoli secondo l’assunto del ricorrente, e sul punto l’accertamento è demandato al giudice del rinvio sull’interesse del condominio e tale da giustificare un’iniziativa dell’amministratore nei confronti di altro condomino.
D’altronde, una diversa conclusione si porrebbe in contrasto persino con il senso comune, qualora si consideri che, in sede di assemblea applicando erroneamente l’art. 596 cod. pen. come si è verificato nella fattispecie esaminata dal Supremo Collegio ai condomini sarebbe inibito di segnalare all’amministratore la condotta pregiudizievole per il diritto sulla cosa comune posta in essere da altro condomino, come ad esempio la realizzazione senza concessione e, quindi, costituente reato - di una costruzione edilizia in violazione delle distanze legali o di altra servitù in danno dell’edificio condominiale. Da ultimo, è stato segnalato che, quanto innanzi affermato, non si pone in contrasto con la summenzionata Cass. pen. n. 4562/1973, in quanto, nella fattispecie decisa con tale ultima decisione la condotta dell’amministratore, il quale aveva affisso nell’atrio dello stabile un avviso contenente il riferimento di fatto costituente reato ad uno dei condomini, è stata ritenuta non scriminata perché posta in essere con modalità tali da consentire la propalazione del fatto vero denunciato anche a persone estranee al condominio, integrando, così, il delitto di diffamazione; per contro, nella concreta fattispecie, la condotta è stata posta in essere nella sede nella quale la facoltà ricompresa nel diritto del comproprietario può legittimamente essere esercitata (assemblea condominiale). Trattasi, invece, di fattispecie analoga a quella già decisa in cui all’imputato era contestato di avere, nella sua qualità di condomino, offeso l’onore dell’amministratore, spedendo a costui e ad alcuni condomini lettera a mezzo fax con la quale accusava lo stesso “di gestire in maniera illecita la gestione degli appalti e delle spese condominiali in genere traendone profitto”, segnatamente affermando che “i gareggianti invitati senza garanzie vengono indotti ad alzare irregolarmente le offerte onde far fronte a richieste sottobanco ed ignote”. Anche in quell’occasione la sentenza impugnata è stata annullata, affinché il giudice del rinvio ammettesse le prove richieste dall’imputato al fine di dimostrare la verità dei fatti affermati in ordine ai rapporti condominiali messi a conoscenza dei diretti interessati con “diffida stragiudiziale prodromica al promovimento del processo civile” (v. Cass. pen. 3 aprile 2006 n. 12980).
In quest’ultima fattispecie, in particolare, il giudice del merito del tutto apoditticamente aveva ritenuto “irrilevante” la circostanza dedotta dall’imputato “di non poter avere a disposizione la documentazione inerente agli appalti concernenti il condominio, quali il libro cassa ed il libro dei verbali delle assemblee”. Invece, é pacifico - v. ora anche gli artt. 1130, n. 9), e 1130-bis c.c. (come modificati a seguito della legge n. 220/2012) - che ciascun condomino ha la facoltà di ottenere dall’amministratore l’esibizione dei documenti contabili non soltanto in sede di rendiconto annuale e di approvazione del bilancio da parte dell’assemblea, ma anche al di fuori di tale sede, senza la necessità di specificare la ragione per la quale egli intende prendere visione o estrarre copia dei documenti medesimi, sempre che l’esercizio di tale potere non intralci l’attività amministrativa e non sia contrario ai principi di correttezza, ed i relativi costi siano assunti dai condomini istanti (v., tra le altre, Cass. civ. 29 novembre 2001 n. 15159; Cass. civ. 26 agosto 1998 n. 8460). Pertanto, se, da un lato, la circostanza, ritenuta erroneamente irrilevante, doveva essere accertata unitamente all’altra relativa al giudizio civile che il ricorrente afferma essere stato definito dal Tribunale in ordine alla gestione dell’amministratore del condominio al fine di verificare se le critiche mosse dall’imputato al querelante avessero dato causa ad un contenzioso, sì da non potersi escludere aprioristicamente senza, dunque, esaminare la questione nel merito se le censure mosse all’amministratore fossero qualificabili come diffida stragiudiziale prodromica al promovimento del processo civile predetto, dall’altro, l’eventuale diniego di accesso ai documenti dedotto dall’imputato poteva consentire l’applicazione dell’invocata esimente di cui all’art. 599, comma 2, cod. pen. D’altronde, dalla stessa sentenza impugnata, si evinceva che i testi escussi avessero riferito di avere “letto” la missiva inviata dall’imputato all’amministratore, ma non espressamente di averla “ricevuta” dall’imputato, sì che non risultava accertata con sufficiente certezza la condotta del reato di all’art. 595 cod. pen. di cui sopra.

Nessun commento:

Posta un commento

Commenti, critiche e correzioni sono ben accette e incoraggiate, purché espresse in modo civile. Scrivi pure i tuoi dubbi, le tue domande o se hai richieste: il team dei nostri esperti ti risponderà il prima possibile.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...