martedì 22 marzo 2016

Cosa succede quando l'amministratore, di solito insultato,offende la reputazione del prossimo?

Il discrimen tra diritto di critica e offesa del prossimo è assai labile in generale, e anche per l’amministratore di condominio non è agevole talvolta espletare il proprio mandato senza correre il rischio di arrecare pregiudizio alla reputazione di un condomino, rovinandone l’immagine che gli altri partecipanti ne conservano di lui.

Di solito, è l’amministratore di condominio che risulta oggetto degli insulti più vari, ma potrebbe succedere che lo stesso amministratore anziché subire… passi all’attacco, offendendo il prossimo, ossia i condomini o i terzi che, a vario titolo, abbiano a che fare con il condominio (qualora il “bersaglio” sia rappresentato dal legale rappresentante del condominio, si consenta il rinvio a CELESTE, “Apostrofare l’amministratore ‘incompetente’ in assemblea non è reato ma … legittimo diritto di critica del condomino”).
Nella maggior parte dei casi - almeno stando alle cronache giudiziarie - il suddetto amministratore si attira le ire dei propri condomini, a seguito delle rivendicazioni di diritti da parte di questi ultimi o/e delle evidenziate mancanze addebitate al primo; talvolta, però, si passa dalla critica (ci si augura, costruttiva, ma spesso feroce e gratuita) al vilipendio, forse frutto di frustrazioni latenti.
Succede, altresì, che siano gli stessi amministratori - o perché stanchi dall’atteggiamento ostruzionistico e poco collaborativo dei condomini, o perché in reazione alla rabbia riversata da questi ultimi nei loro confronti, oppure più semplicemente perché maleducati - a non riuscire ad esporre serenamente le proprie ragioni, né a chiarire con toni pacati le proprie condotte, finendo per utilizzare parole poco riguardose nei confronti dei loro interlocutori o profferire espressioni volte solo
a mettere in cattiva luce il singolo di fronte alla compagine condominiale.
Nella fattispecie di recente esaminata da Cass. pen. 3 novembre 2015 n. 44387, un amministratore di condominio aveva impugnato la sentenza emessa nei suoi confronti, con cui era stato condannato a pena ritenuta di giustizia per il delitto di diffamazione, commesso in danno di due soggetti, avendo inviato una lettera a tutti i condomini, nella quale aveva rappresentato che un tecnico del medesimo condominio si era espresso nei riguardi dei querelanti, sostenendo che costoro “non capivano niente ed erano malfattori, gentaglia e delinquenti”.
In particolare, uno degli offesi era stato presidente ad un’assemblea condominiale, contestando in quella circostanza alcune voci del bilancio predisposto dall'amministratore, e ciò aveva indotto quest’ultimo a rassegnare le proprie dimissioni, con la nomina di altro amministratore, mentre l’altra persona insultata era un condomino demandato a rappresentare l’ente proprietario di circa un terzo degli immobili del condominio de quo in occasione delle assemblee e che, nella circostanza sopra ricordata, aveva effettivamente votato affinché venisse designato un nuovo amministratore.
Per quel che rileva in questa sede, il ricorrente - prospettando la “mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata” - ribadiva di essersi limitato a consegnare la suddetta missiva ai soli soggetti di cui sopra, mentre l’istruttoria dibattimentale aveva certamente escluso la circostanza della spedizione dello scritto a tutti i condomini (ben 363).
Infatti, le persone offese avevano sostenuto nella querela che la missiva era stata inviata mediante raccomandata con avviso di ricevimento, salvo poi correggersi dichiarando che questa fosse stata invece “imbucata in tutte le cassette postali”; peraltro, nelle spese del bilancio condominiale, non risultavano esborsi per la relativa spedizione, e gli stessi querelanti si erano contraddetti rappresentando che, nella stessa lettera, era stata convocata una nuova assemblea, mentre, al contrario, l’assemblea era stata già fissata in precedenza, ossia due giorni dopo la data del presunto scritto diffamatorio.
Il ricorrente denunciava, altresì, l’erronea applicazione dell’art. 595 c.p., in quanto - a suo avviso - nella fattispecie concreta non sarebbe emerso in alcun modo la sussistenza del requisito della comunicazione con più persone, e sarebbe stata scorretta la valutazione dei giudici di merito secondo cui, pure ammettendo che l’amministratore avesse consegnato lo scritto ai soli querelanti, egli aveva realizzato modalità di comunicazione tali da far certamente ritenere che il contenuto della lettera non sarebbe stato divulgato ad altri (in altri termini, era suo intendimento che la lettera in oggetto restasse nella disponibilità solo delle parti offese, e che solo loro ne avessero conoscenza).
Lo stesso ricorrente prospettava, inoltre, il difetto di motivazione, per omessa pronuncia sulla ravvisabilità della scriminante di cui all’art. 51 c.p., segnatamente affermando che le frasi ritenute offensive erano state riportate dall’imputato “con l’unica ed evidente finalità di adempiere al proprio dovere di amministratore”, che era quello di rendere edotti i condomini sulle vicende relative alla precedente assemblea e su quelle della vita condominiale in genere.
In particolare, la famosa missiva spiegava le ragioni per cui il tecnico del condominio era stato indotto a cambiare la propria intenzione di voto, essendosi egli espresso per la nomina di un nuovo amministratore solo a causa delle pressioni subite dai querelanti, conseguendone che sussisteva certamente l’interesse dei condomini ad essere informati di episodi incidenti sui loro diritti patrimoniali, essendo anche pacifica la verità del fatto rappresentato.
Il ricorrente argomentava, da ultimo, che, una volta informato dal tecnico del condominio circa le pressioni subite per far sì che venisse nominato un nuovo amministratore, egli aveva in ipotesi agito nello stato d’ira provocato da un fatto ingiusto ascrivibile alle presunte persone offese, non potendo, quindi, condividersi l’assunto del giudice del merito, in base al quale l’imputato non aveva reagito ad un’aggressione altrui, “avendo invece avuto modo di ponderare una più opportuna e composta difesa”, e risultando, al contrario, “un evidente nesso di dipendenza tra il comportamento dei querelanti e quello dell’imputato”, nel senso che quest’ultimo era stato la diretta conseguenza di quello dei primi.
I giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto addirittura “inammissibile” il suesposto ricorso, condannando l’amministratore alle spese processuali ed al pagamento di una determinata somma in favore della cassa delle ammende.
Sul punto, si è evidenziato che gli argomenti ivi esposti - circa l’essersi acquisita o meno la prova di una comunicazione con più persone e l’aver riportato frasi in realtà pronunciate da altri - tendevano a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti che riguardavano la ricostruzione del fatto e l’apprezzamento del materiale probatorio, da riservare all’esclusiva competenza del giudice di merito
e già adeguatamente valutati sia in primo che in secondo grado.
Ad avviso del Tribunale, e quindi della Corte territoriale la quale ne aveva richiamato gli assunti, risultava rilevante che i querelanti avessero rappresentato che - per quanto a loro conoscenza - la missiva di cui sopra fosse stata inserita nelle buche delle lettere dei vari condomini.
Del resto, a sconfessare l’opposta tesi era, sul piano logico, proprio lo stesso tenore delle successive doglianze dell’amministratore.
Invero, nel reclamare successivamente, ai fini della configurabilità della pretesa causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., il proprio diritto-dovere di informare i condomini, l’imputato aveva sostenuto che questi ultimi “dovevano sapere come erano andate le cose” in occasione della precedente assemblea: in tal modo, egli stesso confermava la destinazione di quello scritto ad essere divulgato, tanto più che era il tenore della missiva ad escluderne una finalità di “informazione” riservata ai soli querelanti, giacché conteneva una serie di altre comunicazioni di interesse del condominio. In ordine, poi, alle scriminanti di cui agli artt. 51 e 599 c.p., si è condiviso il rilievo dei giudici di merito, secondo i quali la libertà di riferire i fatti, ed anzi il dovere, quale amministratore, di informare i condomini doveva accordarsi con l’interesse della persona offesa a che non venisse amplificata l’espressione ingiuriosa asseritamente pronunciata da un terzo ai suoi danni.
In altri termini, mentre poteva essere di interesse per i condomini conoscere la posizione del tecnico del condominio e, quindi, legittimo per l’imputato riferirla (aprendo poi in assemblea un dibattito), non aveva alcun interesse per la comunità dei condomini apprendere dei presunti epiteti pronunciati dal primo, e che invece faceva comodo all'amministratore diffondere, allo scopo di offendere la reputazione dei due condomini (probabilmente, volendosi “vendicare” mediante una condotta volta a mettere in cattiva luce, davanti al condominio, i suoi oppositori).
Offesa, peraltro, realizzata non già contestando al presunto autore del fatto ingiusto la scorrettezza del suo comportamento, bensì ponendosi “come mero ed obiettivo canale di trasmissione” affinché le presunte espressioni del tecnico del condominio venissero amplificate il più possibile.
Le considerazioni di cui sopra - ad avviso degli ermellini - sono apparse lineari e congrue, alla luce dei principi dettati dalla giurisprudenza del Supremo Collegio sui limiti e sul carattere di “proporzionalità” delle condotte da ritenere scriminate ai sensi delle norme richiamate. Quanto, infine, alla possibilità di rilevare nel caso di specie un’ipotesi di “particolare tenuità del fatto”, ai sensi dell’art. 131-bis c.p. - applicabile ai procedimenti penali in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 28/2015, inclusi quelli di legittimità - si è avuto modo di sottolineare anche il particolare che la lettera era stata preparata e divulgata per ottenere il massimo effetto di diffusione di conoscenza all'interno della realtà del grande complesso condominiale, circostanza, questa, manifestamente indicativa di una valutazione di “gravità non minima” della condotta de qua.
E’ andata decisamente meglio ad un collega che è stato, invece, assolto dallo stesso reato di diffamazione, ovviamente in una fattispecie diversa da quella finora esaminata: nel caso concreto posto all'attenzione di Cass. pen. 3 aprile 2014 n. 15364, un amministratore di condominio aveva, infatti, evitato la condanna per il delitto di cui art. 595 c.p. In particolare, all'imputato era stata ascritta la condotta dell’avere, con un comunicato trasmesso a tutti i condomini, unitamente all'avviso di convocazione dell’assemblea, riferendosi ad una contestazione sollevata da un condomino in ordine alla lettura dei contatori dell’acqua, offeso la reputazione di quest’ultimo, mediante le espressioni “da qui sono iniziate le ire del sig. … che si rifiuta di pagare l’acqua uscita dal suo contatore e che, con varie contestazioni anche presso la ditta, l’ha costretta a rifare una nuova ripartizione modificando la sua bolletta dell’acqua secondo la sua personale autolettura, e mi manda una diffida dove in pratica mi dice di non fare il mio dovere di onesto amministratore di tutti i condomini”.
Avverso tale sentenza, aveva proposto ricorso per cassazione la persona offesa, la quale lamentava la ricorrenza dei vizi di violazione di legge e di manifesta illogicità della sentenza impugnata ai fini delle statuizioni civili.
In particolare, si evidenziava che il diritto di critica faceva venir meno la responsabilità penale, purché non sconfinasse nell'attacco gratuito e personale e, comunque, solo due limiti potevano scriminare la condotta “ingiuriosa”, ossia la veridicità del fatto e la correttezza espositiva, limiti questi entrambi travalicati dall'imputato nel caso in esame.
Invero, il limite della veridicità non risultava rispettato, atteso che - come asseritamente emerso dall'istruttoria dibattimentale - la lettura del contatore era stata effettuata dall'amministratore, mentre il ricorrente ne aveva invocata un’altra corretta, dopo essersi visto richiedere un importo palesemente in contrasto con l’effettivo consumo, riguardando la perdita di acqua le tubature condominiali; inoltre, l’amministratore aveva fatto riferimento ad una “autolettura” del condomino, laddove era stata la stessa ditta ad aver preso atto che l'autolettura fornita dall'amministratore era errata.
La portata diffamatoria ed offensiva del comunicato nei confronti del ricorrente - ad avviso di quest’ultimo - si ricavava, poi, dal tono complessivo utilizzato, poiché in sostanza l’amministratore aveva definito la persona offesa come un contestatore disonesto, poco serio e non corretto, che aveva posto in essere un comportamento irresponsabile, creando danno al condominio aggravando l’esborso economico di tutti i condomini al fine di coprire il “personale autosconto”, e screditandolo agli occhi dei medesimi condomini.
D’altronde, la lesività ed il discredito erano stati ampliati proprio dal contesto in cui i fatti si erano verificati, atteso che l’aver costretto i condomini ad un esborso monetario non dovuto inevitabilmente determinava il deterioramento dei rapporti condominiali, e ciò senza colpa del ricorrente che si era limitato soltanto a tutelare le proprie ragioni, pagando quanto effettivamente dovuto.
Il massimo consesso decidente ha ritenuto che tale ricorso non era meritevole di accoglimento, escludendo, in buona sostanza, la valenza offensiva della condotta dell’amministratore.
Si è osservato, al riguardo, che il giudice di merito, previa ricostruzione del contesto in relazione al quale si era inserito il “comunicato” oggetto di contestazione - con ragionamento logico immune da censure, ed applicando correttamente i principi di diritto in merito alla configurazione del reato di diffamazione - aveva correttamente escluso nella fattispecie in esame la sussistenza di tale delitto.
Nella sentenza impugnata, risultava messo in risalto, innanzitutto, che la vicenda oggetto di giudizio si riferiva ad un contrasto insorto tra l’amministratore del condominio ed un condomino in merito alla titolarità - condominiale o esclusiva - di una tubazione posta nell'appartamento del predetto condomino che, nel rompersi, aveva provocato danni per l’ingente fuoriuscita di acqua: nello specifico, l’amministratore sosteneva trattarsi di un “flessibile” installato in cucina, con la conseguenza che i costi derivanti dalla perdita di acqua erano riferibili al suddetto proprietario, mentre quest’ultimo attribuiva la causa dell’allagamento alla colonna portante nel muro, sicché il costo della relativa perdita era da ritenersi condominiale.
Nella sentenza impugnata, si leggeva anche che tale condomino aveva confermato che, nel suo appartamento, si era verificato un allagamento per il quale erano intervenuti i vigili del fuoco, i quali, insieme all'amministratore, avevano verificato, tra l’altro, i valori del contatore dell’acqua, valori che,
in seguito, erano stati da lui contestati alla ditta incaricata della lettura.
Orbene, così descritto il contesto che aveva occasionato l’invio del comunicato ai condomini, contenente le espressioni oggetto di addebito al condomino, secondo i giudici di legittimità si era correttamente escluso che tali espressioni avessero in se portata lesiva della reputazione del querelante, inserendosi invece “nell'ambito di una vivace polemica” per il sostenimento delle spese di consumo dell’acqua.
In quest’ottica, le espressioni utilizzate dall'amministratore non sono apparse in sè pregiudizievoli dell’onore della persona offesa, non contenendo un giudizio negativo sulla persona e sulle sue qualità negative per intaccarne l’opinione tra il pubblico dei consociati (argomentando ex Cass. pen. 21 settembre 2012 n. 43184), ma risultavano piuttosto descrittive di un comportamento che dava conto di una “contrapposizione”, nel senso di una diversità di vedute.
A fortiori, se tali espressioni venivano considerate nel contesto in cui erano state utilizzate, ossia un comunicato rivolto dall'amministratore ai soli condomini, al fine di informarli sulla ripartizione a carico di tutti dei costi dell’acqua, ritenuti in prima battuta di pertinenza esclusiva del suddetto condomino.
L’onere di informazione a carico dell’amministratore, dunque, seppur si era tradotto nell'utilizzo di espressioni vivaci, con i riferimenti “alle ire” ed al “rifiuto di pagare” del condomino interessato, si presentava, tuttavia, funzionale a dar conto delle ragioni che avevano determinato la ripartizione dei costi e della polemica tecnico-giuridica intercorsa tra i due.
Peraltro, la descrizione, quantunque con toni vivaci, del comportamento del condomino, non appariva gratuita ed ultronea, in quanto necessaria proprio per spiegare agli altri partecipanti, naturali destinatari del comunicato e non a terzi, l’attribuzione dei costi dell’acqua, e ciò senza utilizzare circostanze non veritiere, atteso che era pacifico che il condomino aveva contestato i valori del costo dell’acqua a lui addebitati, chiedendo una nuova lettura.
In proposito, le deduzioni del ricorrente, secondo cui l’amministratore lo avrebbe di fatto dipinto come un “contestatore disonesto” e un “piantagrane prepotente” che danneggia il condominio, costringendo i condomini ad un esborso monetario non dovuto, non trovavano concreto fondamento nelle espressioni utilizzate, che risultavano senz'altro indirizzate a dar conto della vicenda e di una diversità di posizioni tra l’amministrazione condominiale ed il condomino, e non ad incidere concretamente sulla reputazione di quest’ultimo (v., tra le altre, Cass. pen. 19 ottobre 2012 n. 5654).
Come si vede, il discrimen tra diritto di critica e offesa del prossimo è assai labile in generale, e anche
per l’amministratore di condominio non è agevole talvolta espletare il proprio mandato senza correre il rischio di arrecare pregiudizio alla reputazione di un condomino, rovinandone l’immagine che gli altri partecipanti ne conservano di lui.
E’ senz'altro umano, in talune occasioni, alzare un po’ i toni della discussione, eccedere nello scritto,
colorire le espressioni usate, censurare anche in maniera non cordiale, purché il tutto si mantenga nell’àmbito della verità, della continenza e della correttezza, senza trascendere mai nell’aggressione
verbale fine a se stessa, nell'offesa gratuita, nel discredito o nell'umiliazione.




di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione

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