mercoledì 22 giugno 2016

INDEROGABILITÀ DELLE MAGGIORANZE DELIBERANTI: Cass. sent. n.19131/2015

All'interno del condominio "la disciplina del metodo collegiale e del principio di maggioranza risponde a criteri specifici; il che comporta che le maggioranze occorrenti per la validità delle delibere in tema di gestione in nessun caso possono modificarsi in meno" (Cass. sent. n.19131/2015).


Sentenza 19131/2015

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) convenivano in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Roma, il Supercondominio (OMISSIS), chiedendo l'annullamento della delibera adottata dall'assemblea in data 25 maggio 1999, limitatamente ai punti 2 e 4, recanti, rispettivamente, "cause pendenti contro il sig. (OMISSIS): esame problematiche e delibere consequenziali", e "integrazione compenso dell'amministratore giudiziario per le assemblee straordinarie: esame problematiche e delibere consequenziali".
Quanto al punto 2, gli attori deducevano che la questione della instaurazione di un nuovo giudizio nei confronti dello (OMISSIS) non figurava all'ordine del giorno e, quanto al punto 4, che il compenso concesso all'amministratore superava le tariffe previste dalle Associazioni di Amministratori condominiali.
Si costituiva il Supercondominio (OMISSIS) chiedendo il rigetto della domanda.
L'adito Tribunale, con sentenza in data 5 giugno 2002, annullava la delibera limitatamente al punto 2, rigettando la domanda concernente il punto 4.
Avverso questa sentenza proponeva appello il Supercondominio (OMISSIS) resistevano (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS).
Con l'unico motivo di impugnazione il Supercondominio censurava la sentenza del Tribunale per non aver fatto applicazione dell'articolo 2373 c.c., che in tema di maggioranze assembleari prevede che ai fini del computo delle maggioranze si deve tenere conto del voto dei condomini titolari, in relazione all'oggetto della deliberazione, di un interesse particolare contrastante, anche solo potenzialmente, con quello condominiale. E nella specie, rilevava il Super-condominio, il conflitto di interessi era stato dichiarato dai condomini attori, i quali, proprio per tale ragione, all'assemblea del 25 maggio 1999, avevano dichiarato di astenersi sul voto relativo al punto 2 dell'ordine del giorno.
Con sentenza depositata il 29 ottobre 2008, la Corte d'appello di Roma accoglieva il gravame.
Premesso che doveva ritenersi incontroversa l'esistenza del conflitto di interessi degli appellati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), avendo gli stessi espressamente dichiarato di astenersi dal voto per avere un interesse proprio, la Corte distrettuale aderiva all'orientamento della giurisprudenza di legittimità, espresso dalle sentenze n. 44080 del 2002 e 100683 del 2002, secondo cui ai fini del calcolo delle maggioranze assembleari condominiali non vanno computate le quote di partecipazione condominiale e i voti dei condomini che siano in conflitto di interessi con il condominio in relazione all'oggetto della delibera.
Nella specie, la delibera impugnata era stata approvata con una maggioranza di 490,25 millesimi mentre il quorum minimo, tenuto conto che le quote dei condomini astenuti dal voto per conflitto di interessi erano pari a 87,94 millesimi, ammontava a 456,06 millesimi.
Per la cassazione di questa sentenza hanno proposto ricorso (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), affidato a due motivi; ha resistito, con controricorso, il Supercondominio (OMISSIS); sono rimasti intimati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS).
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono "carente, contraddittoria motivazione della Sentenza d'appello su punti fondamentali della controversia, travisamento dei fatti, violazione e falsa applicazione dell'articolo 2373 c.c., e dell'articolo 1136 c.c.". Premesso che la Corte d'appello avrebbe errato nel leggere il verbale dell'assemblea condominiale del 21 maggio 1999, atteso che la verbalizzazione doveva essere rettamente intesa, per come fatto palese dalle parole utilizzate, nel senso che la affermazione della sussistenza di un conflitto di interesse doveva essere ravvisata solo in capo ai condomini che avessero citato in giudizio lo (OMISSIS) e non anche in capo ai sottoscrittori della dichiarazione, i ricorrenti, oltre a rilevare la erroneità delle indicazioni contenute nella sentenza impugnata in ordine pronunce di questa Corte in materia, sostengono che il presidente dell'assemblea condominiale avrebbe errato nel ritenere approvata una deliberazione che non aveva invece raggiunto il quorum della metà dei voti validi espressi a favore della delibera stessa. Le disposizioni sul conflitto di interessi, infatti, non consentirebbero al presidente dell'assemblea di detrarre dal numero dei votanti, dopo l'espressione del voto, coloro che si trovano in conflitto di interessi, atteso che la disposizione dell'articolo 2373 c.c., opera con modalità differenti, nel senso che una volta effettuata la votazione occorre fare la prova di resistenza per verificare se la delibera, detratti i voti dei partecipanti in conflitto di interessi, abbia ottenuto comunque la maggioranza richiesta.
A conclusione del motivo i ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto: "Voglia la Corte di cassazione enunciare il principio di diritto secondo cui la maggioranza necessaria, in conformità degli articoli 1136 e 2373 c.c., è quella richiesta volta per volta dalla legge in rapporto a tutti i condomini ed all'intero edificio e anche nei casi di conflitto di interesse la maggioranza richiesta per le delibere si rapporta alla totalità dell'elemento personale e reale, vale a dire a tutti i partecipanti al condominio ed al valore dell'intero edificio; conseguentemente anche nell'ipotesi di conflitto di interessi, la deliberazione deve essere presa con il voto favorevole di tanti condomini, i quali rappresentino la maggioranza personale e reale fissata volta per volta".
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli articoli 1136, 1138 e 2373 c.c., e del Decreto Legislativo n. 6 del 2003, articolo 1, nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione, con specifico riferimento al fatto che la Corte d'appello ha ritenuto che correttamente il presidente dell'assemblea abbia detratto 87,94 millesimi da quelli presenti in assemblea, senza considerare che la detta componente reale era riferibile a condomini che avevano conferito la delega e senza quindi verificare se il conflitto di interessi fosse ravvisabile con riferimento a ciascuno di essi.
I ricorrenti ricordano, poi, la nuova formulazione dell'articolo 2373 c.c., dalla quale desumono anche l'interpretazione della previgente disciplina, nel senso che la delibera è annullabile solo se, all'esito della prova di resistenza, i voti espressi da chi si trovi in conflitto di interesse, risultino decisivi per il raggiungimento del quorum previsto.
A conclusione del motivo i ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto: "Voglia la Corte di cassazione enunciare il principio di diritto secondo cui, anche applicando al Condominio per analogia le disposizioni ex articolo 2373 c.c., la situazione di conflitto tra l'interesse proprio e quello collettivo in cui versi uno dei soggetti partecipanti all'assemblea non può ritenersi aprioristicamente estesa anche ad altri soggetti che, non partecipando all'assemblea, abbiano delegato a rappresentarli il soggetto in conflitto di interessi".
3. La questione giuridica posta dal primo motivo di ricorso è la seguente: se, nel condominio negli edifici, nel caso di conflitto di interessi tra il condominio e taluni partecipanti, le maggioranze costituenti il quorum deliberativo debbano essere calcolate con riferimento a tutti i condomini ed al valore dell'intero edificio; ovvero soltanto ai condomini ed ai millesimi facenti capo ai singoli partecipanti, i quali non versano in conflitto di interessi relativamente alla delibera. In altri termini, se dal numero dei condomini e dal valore dell'intero edificio (1000 millesimi) debba essere detratta la quota, personale e reale, rappresentata dai condomini in conflitto di interessi per ciò che concerne la proposta messa ai voti; se, quindi, nel calcolo della maggioranza richiesta per approvare la delibera, debba o no tenersi conto dei condomini e dei millesimi facenti capo ai partecipanti in conflitto di interessi.
Il Collegio ritiene che al quesito cosi come formulato debba rispondersi affermativamente, ribadendosi le argomentazioni contenute nella decisione di questa Corte n. 1201 del 2002 e la soluzione alla quale essa è pervenuta.
3.1. Occorre premettere che l'ordinamento giuscivilistico, pur non riconoscendo al condominio una sia pur limitata personalità giuridica, attribuisce, purtuttavia, ad esso potestà e poteri di carattere sostanziale e processuale, desumibili dalla disciplina della sua struttura e dai suoi organi, cosi che deve ritenersi applicabile, quanto al computo della maggioranza della relativa assemblea, la norma dettata, in materia di società, per il conflitto di interessi, con conseguente esclusione dal diritto di voto di tutti quei condomini che, rispetto ad una deliberazione assembleare, si pongano come portatori di interessi propri, in potenziale conflitto con quello del condominio (Cass. n. 11254 del 1997; in precedenza, Cass. n. 270 del 1976).
Nella sentenza n. 1201 del 2002 si è, quindi, rilevato come in tema di condominio negli edifici l'ipotesi del potenziale conflitto di interessi tra il condominio ed i singoli partecipanti non è regolata e che, per disciplinarla, dalla giurisprudenza si è richiamato per analogia il disposto dell'articolo 2373 c.c., nel testo ratione temporis applicabile, anteriore alle modificazioni introdotte dal Decreto Legislativo n. 6 del 2003, dettato in tema di società di capitali, che stabilisce l'obbligo di astensione del socio, il quale si trova in posizione di conflitto (comma 1), e l'impugnabilità della delibera "se, senza il voto dei soci che avrebbero dovuto astenersi dalla votazione, non si sarebbe raggiunta la necessaria maggioranza" (comma 2). Il comma ultimo dello stesso articolo prescrive(va) che le azioni, per le quali non può essere esercitato il diritto di voto, sono tuttavia computate ai fini della regolare costituzione della assemblea.
Si è quindi rilevato come, con riferimento alle società di capitali, la giurisprudenza dominante abbia affermato che il quorum deliberativo deve essere computato non già in rapporto all'intero capitale sociale, bensì in relazione alla sola parte di capitale facente capo ai soci aventi diritto al voto, con esclusione della quota dei soci che versino in conflitto di interessi (Cass. n. 2489 del 1959; Cass. n. 2562 del 1996; Cass. n. 15613 del 2007).
La Corte ha quindi proceduto alla verifica della sussistenza, ai fini della estensione della medesima disciplina delineata per le società di capitali all'assemblea di condominio, della stessa ratio, pervenendo ad una soluzione sul punto negativa.
Delle argomentazioni svolte nella sentenza n. 1201 del 2002 a sostegno di tale conclusione, ad avviso del Collegio, sono determinanti quella che fa riferimento al rapporto esistente tra gestione delle cose comuni e fruizione delle proprietà esclusive, e quella che si fonda sulla diversità strutturale del funzionamento delle assemblee nelle società ci capitali e di quelle condominiali.
3.1.1. Sotto il primo profilo, invero, non appare discutibile che, a differenza di quanto avviene nelle società di capitali, nel condominio non esiste un fine gestorio autonomo: la gestione delle cose, degli impianti e dei servizi comuni non mira a conseguire uno scopo proprio del gruppo e diverso da quello dei singoli partecipanti. La gestione delle cose, degli impianti e dei servizi comuni è strumentale alla loro utilizzazione e godimento individuali e, principalmente, al godimento individuale dei piani o delle porzioni di piano in proprietà esclusiva. Tutto ciò si riflette, anzitutto, sul conflitto di interessi, posto che per il sorgere del conflitto tra il condominio ed il singolo condomino è necessario che questi sia portatore, allo stesso tempo, di un duplice interesse: uno come condomino ed uno come estraneo al condominio (e, che l'interesse sia estraneo al godimento delle parti comuni ed a quello delle unità abitative site nell'edificio) e che i due interessi non possano soddisfarsi contemporaneamente, ma che il soddisfacimento dell'uno comporti il sacrificio dell'altro. E si riflette, altresì, sulla disciplina delle maggioranze assembleari, in quanto, posto che nell'organizzazione dell'assemblea la gestione delle parti comuni è predisposta in funzione del godimento delle parti comuni e soprattutto in funzione strumentale a vantaggio del godimento dei piani o delle porzioni di piano in proprietà esclusiva, la disciplina del metodo collegiale e del principio di maggioranza risponde a criteri specifici; il che comporta che le maggioranze occorrenti per la validità delle delibere in tema di gestione in nessun caso possono modificarsi in meno.
3.1.2. Sotto il secondo profilo, deve rilevarsi che nell'assemblea condominiale, sia nella disciplina ratione temporis applicabile, sia in quella introdotta con la legge n. 220 del 2012, il quorum deliberativo - come quello costitutivo - è determinato con riferimento sia all'elemento personale (i condomini partecipanti all'assemblea), sia all'elemento reale (il valore di ciascun piano o porzione di piano rispetto all'intero edificio, espresso in millesimi).
Da nessuna norma si prevede che, ai fini della costituzione dell'assemblea o delle deliberazioni, non si tenga conto di alcuni dei partecipanti al condominio e dei relativi millesimi. Il principio maggioritario, adottato dal codice per le deliberazioni assembleari con la regola della "doppia maggioranza" è un principio specifico dell'istituto condominiale, che vale a distinguerlo dalla disciplina della comunione e delle società, in quanto solo nel condominio è previsto che la maggioranza venga raggiunta dal punto di vista delle persone e del valore.
La sentenza del 2002 individua la ragione della inderogabilità in meno delle maggioranze, e specialmente delle maggioranze qualificate, in quella di impedire che tramite il principio maggioritario, in qualche misura, vengano menomati i diritti dei singoli partecipanti sulle parti comuni e il godimento delle unità immobiliari in proprietà esclusiva. Perciò, i quorum sono fissati in misura inderogabile (in meno), richiedendosi per le decisioni di particolare importanza il concorso di un numero considerevole di partecipanti e di una frazione consistente del valore dell'edificio. E, si badi, le maggioranze occorrenti per la validità delle delibere in tema di gestione in nessun caso possono modificarsi in meno. Infatti, i quorum costitutivo e deliberativo dall'assemblea, che decide a maggioranza, non possono immutarsi in meno, e gli stessi quorum non possono modificarsi in misura minore neppure per contratto. Ciò si ricava con certezza dalla disposizione dettata dall'articolo 1138, quarto comma, cod. civ., secondo cui il regolamento contrattuale di condominio in nessun caso può derogare alle norme ivi richiamate, comprese quelle stabilite dall'articolo 1136 cod. civ. concernenti la costituzione dell'assemblea e la validità delle delibere (Cass. n. 11268 del 1998).
Orbene, nel caso in cui la maggioranza prescritta non si possa raggiungere perchè non si può tenere conto del numero e dei millesimi dei condomini in potenziale conflitto di interessi, non si vede la ragione - al fine di evitare la paralisi del collegio - di attribuire uno straordinario potere deliberativo alla minoranza. Se l'assemblea non può deliberare perchè nella votazione non si raggiunge la maggioranza prescritta, nel caso di conflitto di interessi il rimedio di attribuire alla minoranza un ingiustificato potere di deliberare sovvertirebbe gli equilibri fissati, sulla base degli elementi personale e reale, dalle regole concernenti il metodo collegiale ed il principio maggioritario.
Con la precisazione che se l'assemblea non può deliberare soccorre la disposizione contenuta nell'articolo 1105 c.c., comma 4, - applicabile al condominio in virtù del rinvio fissato dall'articolo1139 c.c. - secondo cui, quando non si formano le maggioranze, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria.
3.2. Nè è senza rilievo la circostanza che la riforma del diritto societario (Decreto Legislativo n. 6 del 2003) abbia rimodulato l'articolo 2373 c.c., il quale nella sua attuale formulazione prevede, al comma 1, che "la deliberazione approvata con il voto determinante di coloro che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società è impugnabile a norma dell'articolo 2377 qualora possa recarle danno" e, al comma 2, che "gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità. I componenti del consiglio di gestione non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza". Come si vede, e come evidenziato dai ricorrenti, nella nuova formulazione dell'articolo 2373 c.c., è venuta meno la disposizione, sulla quale pure si fondava la soluzione adottata in ambito societario ai fini di poter distinguere, in tema di conflitto di interesse, il quorum costitutivo dell'assemblea da quello deliberativo della stessa (Cass. n. 2562 del 1996; Cass. n. 15613 del 2007).
D'altra parte, il legislatore del 2012, nel riformare il condominio, nulla ha aggiunto in tema di disciplina del conflitto di interesse nell'ambito condominiale; con il che rafforzando l'interpretazione giurisprudenziale che, pur richiamando la disciplina societaria in tema di conflitto di interesse, faceva salve le specificità dell'istituto condominiale, e segnatamente quella della impossibilità di distinguere il quorum costitutivo da quello deliberativo.
3.3. Il Collegio rileva che le argomentazioni svolte dalla sentenza n. 1201 del 2002, che consapevolmente si è contrapposta ad un precedente orientamento che aderiva alla soluzione seguita dalla Corte d'appello nella sentenza impugnata, non siano state a loro volta contrastate da successive pronunce di questa Corte. In particolare, la quasi coeva sentenza n. 10863 del 2002, probabilmente perchè deliberata prima della pubblicazione della sentenza n. 1201 del 2002, non contiene altro che un richiamo al precedente orientamento e non si misura in alcun modo con gli argomenti prima evidenziati.
Altre decisioni della Corte hanno poi interessato il diverso problema della computabilità o no dei voti espressi dal condomino che si trovi in conflitto di interessi, qualora questi sia anche rappresentante di altri condomini, ma non hanno in alcun modo considerato il profilo qui in esame (Cass. n. 10863 del 2002; Cass. n. 22234 del 2004; Cass. n. 18192 del 2009).
In sostanza, deve qui riaffermarsi il principio per cui "in tema di condominio, le maggioranze necessarie per approvare le delibere sono inderogabilmente quelle previste dalla legge in rapporto a tutti i partecipanti ed al valore dell'intero edificio, sia ai fini del conteggio del quorum costitutivo sia di quello deliberativo, compresi i condomini in potenziale conflitto di interesse con il condominio, i quali possono (non debbono) astenersi dall'esercitare il diritto di voto. Pertanto, anche nell'ipotesi di conflitto d'interesse, la deliberazione deve essere presa con il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino la maggioranza personale e reale fissata dalla legge e, in caso di mancato raggiungimento della maggioranza necessaria per impossibilità di funzionamento del collegio, ciascun partecipante può ricorrere all'Autorità giudiziaria".
4. La Corte d'appello si è discostata da tale principio, sicchè si impone l'accoglimento del primo motivo, con assorbimento del secondo.
La sentenza impugnata deve essere conseguentemente cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, per nuovo esame del gravame alla luce dell'indicato principio di diritto.
Al giudice di rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione.

fonte: DossierCondominio

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