lunedì 8 gennaio 2018

In merito a cass. N. 6649/2017 e cass. N. 12580/2017 - Giudizio di impugnazione di delibera dell'assemblea

Nel giudizio di impugnazione di deliberazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 1137 c.c l’eventuale allegazione della proprietà esclusiva di un bene, può essere oggetto di accertamento di carattere incidentale, funzionale alla decisione della causa sulla validità dell’atto collegiale, ma privo di efficacia di giudicato ai diritti dei singoli.


I. Non è facile, e nemmeno elegante, difendere accoratamente le proprie idee o le proprie opere. Anzi, è talmente scomodo provare a convincere gli altri dell’onestà e della bontà dei propri pensieri e delle proprie azioni, che addirittura Marco Tullo Cicerone (non uno a caso, quindi), per rendere credibile l’orazione contro Publio Clodio Pulcro, pronunciata dinanzi ai pontefici al fine di chiedere la restituzione dell’area del Palatino dove si trovava la sua casa, incendiata dopo il suo esilio, nonché il denaro occorrente per ricostruirla, sentì il bisogno di legittimare la sua dotta opinione di giurista addirittura con un’investitura discendente dagli Dei, perché venissero rispettate le norme religiose e dello Stato.

II. Cass. 15 marzo 2017, n. 6649, ha deciso che, se un condomino, convenuto dall’amministratore con azione di rilascio di uno spazio di proprietà comune, proponga (non un’eccezione riconvenzionale di usucapione, al fine limitato di paralizzare la pretesa avversaria, ma) una domanda riconvenzionale, ai sensi degli artt. 34 e 36 c.p.c., diretta a conseguire la dichiarazione di proprietà esclusiva del bene, viene meno la legittimazione passiva dell’amministratore rispetto alla controdomanda, dovendo la stessa, giacchè incidente sull’estensione del diritto dei singoli, svolgersi nei confronti di tutti i condomini, in quanto viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo unico e inscindibile su cui deve statuire la richiesta pronuncia giudiziale. Nell’ipotesi in cui una siffatta domanda riconvenzionale venga proposta e decisa solo nei confronti dell’amministratore, il contraddittorio non può ritenersi validamente instaurato, e, in difetto di giudicato esplicito o implicito sul punto, tale invalida costituzione del contraddittorio può essere denunciata o essere rilevata d’ufficio fino ancora al giudizio di legittimità.
Spostandoci dalla retorica latina ancora indietro per giungere all’Ecclesiaste, questa pronuncia poteva essere commentata con un laconico «nihil sub sole novum».
è evidente che Cass. 15 marzo 2017, n. 6649, pronuncia in un caso in cui la domanda del singolo condomino di rivendica della proprietà esclusiva del bene altrimenti comune, stando alla presunzione di cui all’art. 1117 c.c., era stata proposta in via riconvenzionale avverso una domanda del Condominio. Ma nulla cambia, e nulla può cambiare, se una domanda avente simili petitum e causa petendi provenga in via principale dal condomino che convenga egli il condominio. Non esiste nella teoria generale del processo domanda che imponga il litisconsorzio necessario sol se proposta in via riconvenzionale, e non anche se proposta in via principale.
La soluzione è stata già ribadita da Cass. 31 agosto 2017, n. 20612, secondo la quale “esula dai limiti della legittimazione passiva dell’amministratore medesimo una domanda che sia volta ad ottenere l’accertamento della proprietà esclusiva di un singolo su un bene altrimenti compreso fra le parti comuni ex art. 1117 c.c., imponendo una tale domanda il contraddittorio processuale di tutti i restanti condomini (…). Ne consegue che, nel giudizio di impugnazione di deliberazione dell’assemblea, ai sensi dell’art. 1137 c.c., per il quale all’amministratore di condominio spetta la legittimazione passiva, l’eventuale allegazione della proprietà esclusiva di un bene, sul quale l’impugnata delibera abbia inciso, può essere oggetto di accertamento di carattere meramente incidentale, funzionale alla decisione della causa sulla validità dell’atto collegiale, ma privo di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli”.
«Nihil sub sole novum», perché anche per il condominio, come per ogni persona o soggetto giuridico, ovvero per ogni parte soggettivamente complessa, vige il principio secondo cui la legittimazione processuale va d’ufficio accertata dal giudice con riferimento all’astratta idoneità della veste del soggetto che agisca in nome e per conto dell’ente ad abilitarlo alla rappresentanza sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio. In tal senso, l’ambito della legittimatio ad processum dell’amministratore di condominio non può non coincidere con l’ambito delle sue attribuzioni, sul fondamento del principio dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), inteso non soltanto come obiettiva presenza o probabilità della lite, ma altresì come «appartenenza» della stessa a chi agisce, nel senso che la relazione della lite con l’amministratore agente debba consistere in ciò che l’interesse in lite sia «condominiale».
Se, dunque, l’oggetto della controversia riguarda l’estensione dei diritti dominicali dei singoli condomini sulle parti comuni, ossia se l’esito del processo intentato possa essere quello di accertare che un determinato bene, rientrante nella presunzione di attribuzione condominiale ex art. 1117 c.c., sia stato acquistato, a titolo derivativo o originario, da un singolo condomino, o da un terzo rispetto alla compagine dei partecipanti, allora la rappresentanza dell’amministratore rimane del tutto estranea. Come ai sensi dell’art. 1108, comma 3, c.c. (applicabile al condominio: art. 1139 c.c.), occorre il consenso di tutti i condomini per gli atti di alienazione dei beni comuni, così sussiste, per la necessaria corrispondenza tra l’unitarietà del rapporto sostanziale sottostante e l’integrità del contrattiddittorio processuale, il litisconsorzio necessario dei condomini tutti ove nel giudizio sia in gioco l’accertamento o la costituzione di una vicenda acquisitiva di taluno di quei beni in favore di chi si sia reso attore nel processo.
«Nihil sub sole novum», soprattutto a rileggere tutto quel che segue:
1) poiché per la sussistenza della rappresentanza processuale occorre sempre il conferimento di un mandato espresso rivestito della forma scritta, ove in un verbale di assemblea condominiale si conferisca all’amministratore l’espresso specifico mandato di stare in giudizio in nome e per conto di alcuni o di tutti i condomini per far valere, nel loro rispettivo interesse, una pretesa assegnata alla loro sfera giuridica dalle fattispecie negoziali di acquisto, lo stesso verbale (sia pure consacrante una deliberazione unanime) in tanto può essere idoneo a conferire all’amministratore il potere di rappresentanza convenzionale nel processo di singoli condomini solo in quanto esso sia stato sottoscritto individualmente da ciascun mandante (Cass. 3 agosto 1984, n. 4623; Cass. 12 febbraio 1981, n. 869);
2) poiché la legittimazione ad agire in giudizio dell’amministratore in caso di pretese concernenti l’affermazione di diritti di proprietà (anche comune), può trovare fondamento soltanto nel mandato a lui conferito da ciascuno dei condomini, l’assenza dell’apposito potere rappresentativo in capo all’amministratore in relazione all’azione esercitata cagiona la mancata costituzione del rapporto processuale per difetto della legittimazione processuale, inscindibilmente connessa alla capacità di rappresentanza sostanziale, con conseguente nullità della procura alle liti, di tutti gli atti compiuti e della sentenza (Cass. 13 marzo 2007, n. 5862);
3) in ordine alla legittimazione attiva dell’amministratore, esorbita dai poteri rappresentativi “ex lege” del medesimo la proposizione di una domanda diretta non alla difesa della proprietà comune, ma alla sua estensione mediante declaratoria di appartenenza al condominio di un’area adiacente al fabbricato condominiale (siccome, si assumeva nella specie, acquistata per usucapione), implicando essa non solo l’accrescimento del diritto di comproprietà, ma anche la proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlati (Cass., 24 settembre 2013, n. 21826; questa sentenza ribadiva che il sistema codicistico creato dagli artt. 1130 e 1131 c.c. separa le situazioni di carattere condominiale da quelle di carattere individuale del singolo condomino, nel senso che soltanto in ordine alle prime l’amministratore è legittimato ad esercitare le funzioni di rappresentanza, rappresentanza, peraltro, del tutto speciale, in ragione della determinazione legale delle relative attribuzioni);
4) in tema di condominio degli edifici, poiché l’accertamento della proprietà di un bene non può essere effettuato se non nei confronti di tutti i soggetti a vantaggio o verso i quali esso è destinato ad operare, secondo l’effetto di giudicato richiesto con la domanda, ove quest’ultima sia proposta da alcuni condomini per far dichiarare la natura comune di un bene nell’ambito di un edificio condominiale, il giudizio deve svolgersi nei confronti di tutti gli altri partecipanti al condominio stesso, i quali, nel caso di esito della lite favorevole agli attori, non potrebbero altrimenti né giovarsi del giudicato, né restare terzi non proprietari rispetto al convenuto venditore-costruttore (ad esempio, Cass. 30 aprile 2012, n. 6607);
5) in tema di condominio degli edifici, l’azione di accertamento della proprietà comune, in quanto ha ad oggetto la contitolarità del diritto di proprietà in capo a tutti i condomini, è relativa a un rapporto sostanziale plurisoggettivo unitario, dando luogo a un’ipotesi di litisconsorzio necessario fra tutti i condomini; infatti, il giudicato si forma ed è opponibile nei confronti dei soli soggetti che hanno partecipato al giudizio; d’altra parte, poiché non è applicabile ai rapporti assoluti la disciplina specifica dei rapporti obbligatori, non è estensibile alla specie il criterio dettato in materia di obbligazioni indivisibili dall’art. 1306 cod. civ., in virtù del richiamo di cui all’art.1317 cod. civ., secondo cui gli effetti favorevoli di una sentenza pronunciata nei confronti di uno o di alcuni dei diversi componenti dell’obbligazione solidale o indivisibile si comunicano agli altri (Cass. 17 marzo 2006, n. 6056);
6) in tema di condominio degli edifici, ove alcuni condomini, convenuti per l’accertamento della proprietà comune di un bene, propongano domanda riconvenzionale di accertamento della proprietà esclusiva, in base ai titoli o per intervenuta usucapione, dev’essere disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, configurandosi un’ipotesi di litisconsorzio necessario, in quanto viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo unico e inscindibile. Ne consegue che, qualora nessuna delle parti provveda all’integrazione del contraddittorio, l’eccezione di estinzione sollevata dal convenuto, ancorché limitata alla sola domanda riconvenzionale, investe necessariamente l’intero rapporto processuale, e comporta l’estinzione totale del processo (Cass. 8 settembre 2009, n. 19385. Ma ancora, potrebbero richiamarsi Cass. 8 febbraio 2012, n. 1768 (in motivazione), o Cass. 6 agosto 2001, n. 10828, per cui: in tema di condominio negli edifici, l’art. 1131, comma secondo, cod. civ. prevede la legittimazione passiva dell’amministratore solo in ordine alle liti riguardanti le parti comuni dell’edificio, con la conseguenza che, ove un condomino chieda che l’accertamento della proprietà esclusiva di parte del sottotetto, viene meno la legittimazione passiva dell’amministratore, dovendo la causa, riguardante l’estensione del diritto dei singoli in dipendenza dei rispettivi acquisti, svolgersi nei confronti di tutti i condomini; nell’ipotesi in cui la suddetta controversia venga proposta e decisa solo nei confronti dell’amministratore, il contraddittorio non può ritenersi validamente instaurato, e, in difetto di giudicato esplicito o implicito sul punto, tale invalida costituzione del contraddittorio deve essere rilevata d’ufficio anche in sede di legittimità.
C’è poi stata Cass. sez. un., 13 novembre 2013, n. 25454, la quale ha affrontato la questione della necessità del litisconsorzio di tutti i comproprietari con riguardo a controversia tra due singoli condomini, volta all’accertamento della natura condominiale di un’area adiacente ad un box auto ed alla rimozione dei manufatti ivi realizzati dal convenuto, il quale aveva, tuttavia, eccepito di essere titolare dello spazio conteso in forza di precedente assegnazione, senza formulare al riguardo un’apposita domanda riconvenzionale.

III.  Vengo ora a Cass. 18 maggio 2017, n. 12580. Questa pronuncia ha ritenuto valida la clausola del regolamento contrattuale che, in ipotesi di rinuncia o distacco dall’impianto di riscaldamento centralizzato, ponga, a carico del condomino rinunciante o distaccatosi, l’obbligo di contribuzione alle spese per il relativo uso in aggiunta a quelle, comunque dovute, per la sua conservazione, potendo i condomini regolare, mediante convenzione espressa, adottata all’unanimità, il contenuto dei loro diritti ed obblighi e, dunque, ferma l’indisponibilità del diritto al distacco, suddividere le spese relative all’impianto anche in deroga agli artt. 1123 e 1118 c.c. L’autonomia privata può infatti derogare alla disciplina dell’art. 1118 c.c., prescegliendo un accordo di valore negoziale che si risolve in un impegno irrevocabile di determinare quantitativamente le quote di contribuzione alle spese in un certo modo (cosi già Cass. 26 marzo 2010, n. 7300; e poi Cass. 23 dicembre 2011, n. 28679; Cass. 20 marzo 2006, n. 6158; Cass. 28 gennaio 2004, n. 1558).
I criteri legali di ripartizione delle spese condominiali possono, invero, essere derogati, come prevede l’art. 1123 c.c., e la relativa convenzione modificatrice della disciplina legale di ripartizione può essere contenuta sia nel regolamento condominiale (che perciò si definisce “di natura contrattuale”), sia in una deliberazione dell’assemblea che venga approvata all’unanimità, o col consenso di tutti i condomini. La natura delle disposizioni contenute negli artt. 1118, comma 1, e 1123 c.c. non preclude, infatti, l’adozione di discipline convenzionali che differenzino tra loro gli obblighi dei artecipanti di concorrere agli oneri di gestione del condominio, attribuendo gli stessi in proporzione maggiore o minore rispetto a quella scaturente dalla rispettiva quota individuale di proprietà. In assenza di limiti posti dall’art. 1123 c.c., la deroga convenzionale ai criteri codicistici di ripartizione delle spese condominiali può arrivare a dividere in quote uguali tra i condomini gli oneri generali e di manutenzione delle parti comuni, e finanche a prevedere l’esenzione totale o parziale per taluno dei condomini dall’obbligo di partecipare alle spese medesime (Cass. 4 agosto 2016, n. 16321; Cass 25 marzo 2004, n. 5975; Cass. 16 dicembre 1988).
Una volta, però, rinvenuto il fondamento scriminante delle convenzioni in tema di spese condominiali nell’esercizio dell’autonomia privata e nella disponibilità e derogabilità dei criteri legali di ripartizione, non c’è fondamento giuridico per ritenere valide le sole convenzioni sulle spese che obblighino uno o più condomini a pagare di più o, rispettivamente, di meno di quanto avrebbero comunque dovuto pagare in proporzione al valore della loro proprietà o all’uso, e per ritenere, invece, invalide le clausole che obblighino a contribuire alle spese il condomino che altrimenti non vi sarebbe affatto tenuto. Sarebbe come dire che è valido il patto con cui Tizio, che dovrebbe per legge pagare uno, si obblighi invece a pagar cento, mentre è nullo il contratto con cui lo stesso Tizio si obblighi a pagare soltanto uno, quando per legge non doveva pagare nulla.

di Antonio Scarpa
Consigliere della Corte di Cassazione

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