martedì 21 febbraio 2017

La comunità condominiale allargata anche ai migliori amici dell’uomo?

A prescindere dalla proprietà del cucciolo, entrambi i partner manterranno pari diritti e doveri, laddove le decisioni più importanti saranno prese di comune accordo, così come le spese di mantenimento e quelle impreviste andranno salomonicamente divise a metà.

Diceva il Mahatma Gandhi che “la grandezza di una nazione ed il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui essa tratta gli animali”, e sembra che anche i giudici del nostro Paese siano sempre più sensibili a questo importante messaggio.

Si registrano, infatti, provvedimenti dell’autorità giudiziaria che riconoscono il “diritto di visita” in carcere al cane del detenuto, in quanto “membro della famiglia”, o che autorizzano il cane ad andare a trovare in ospedale il paziente ivi ricoverato, costituendo il rapporto uomo-animale “un’attività realizzatrice della personalità umana”; e in quest’ottica che si pone la sentenza del Tribunale di Roma, la quale ha stabilito l’affido “condiviso” di tale bestiola (v. sent. n. 5322 del 15 marzo 2016).
In effetti, allorché una coppia decida di separarsi, potrebbe sorgere il problema a chi vanno attribuiti gli animali domestici, in quanto non si rinviene alcuna disposizione legislativa che contempla tale ipotesi, sicché cani e gatti vengono trattati alla stregua di comuni “cose”.
Nulla vieta a marito e moglie, in caso di separazione consensuale, di concordare i tempi ed i modi della gestione dell’amico a quattro zampe, segnatamente stabilendo con chi vada a vivere l’animale, quando l’altro abbia diritto a portarlo a spasso, come regolarsi durante le vacanze, chi debba sostenere le “manutenzione” ordinaria, come debbano ripartirsi le spese eccezionali, ecc.
Le cose si complicano, però, qualora non vi sia l’accordo tra gli ex coniugi e, in tale situazione di vuoto normativo, si inserisce la decisione di cui sopra che, in buona sostanza, applica per analogia la disciplina vigente per i figli minori (nella specie, in realtà, trattavasi di coppia non sposata, ma la soluzione si rivela in linea con la progressiva assimilazione della convivenza more uxorio ai rapporti fondati sul matrimonio, come di recente sancita dalla legge n. 76/2016).
Nello specifico, il giudice capitolino ha prescritto che Fido (nome ovviamente di fantasia) trascorrerà sei mesi con il suo padrone e sei mesi con la sua padrona, i quali dovranno pagare al 50% le spese relative a cibo, cure mediche e “quanto altro eventualmente necessario al benessere” del cane; nei sei mesi in cui una delle due parti non starà con quest’ultimo, l’altro potrà comunque “vederlo e tenerlo due giorni la settimana, anche continuativi, notte compresa”.
Dunque, a prescindere dalla proprietà del cucciolo, entrambi i partner manterranno pari diritti e doveri, laddove le decisioni più importanti saranno prese di comune accordo, così come le spese di mantenimento e quelle impreviste andranno salomonicamente divise a metà: insomma, quello che rileva, e deve ritenersi preminente, è l’interesse primario dell’animale, proprio come per i figli!
Analoghe sensibilità mostrate per gli animali domestici si trovano in una recente decisione del Tribunale di Cagliari (v. ord. n. 7170 del 22 luglio 2016), che offre lo spunto per interessanti considerazioni riguardo ai limiti dei regolamenti di condominio e agli effetti, anche a livello di diritto transitorio, della riforma della normativa di settore entrata in vigore il 18 giugno 2013 (in argomento, si consenta il rinvio a A. CELESTE, Vietato … vietare cani e gatti negli appartamenti, in questa Rivista, giugno 2013, n. 175, p. 374 ss.).
La causa prendeva le mosse da un ricorso proposto - ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c. (disciplinante il procedimento sommario di cognizione) - da un condomino il quale, proprietario di un cane di piccola taglia, aveva chiesto che venisse dichiarato nullo e/o venisse annullato e/o venisse comunque dichiarato privo di efficacia l’articolo del regolamento del condominio che vietava di tenere animali domestici in casa, e che, pertanto, venisse consentito al proprio cane l’accesso al condominio.
Al riguardo, si evidenziava la nullità sopravvenuta della predetta disposizione per effetto sia della modifica dell’art. 1138, ultimo comma, c.c., intervenuta con l’art. 16 della legge n. 220/2012 (in forza della quale le norme del regolamento non potevano vietare di possedere e detenere animali domestici), sia dell’art. 155 disp. att. c.c. (a mente del quale le disposizioni regolamentari contrarie a determinate disposizioni codicistiche cessavano di avere effetto).
Il Condominio si era costituito in giudizio, sottolineando la legittimità del divieto e della conseguente disposizione in merito all’obbligo di tenere il cane all’interno dell’appartamento e, solo in ulteriore subordine, nel giardino di pertinenza. In particolare, il resistente sosteneva, innanzitutto, la natura contrattuale del regolamento, predisposto dall’originario unico proprietario e costruttore dello stabile condominiale e richiamato, in quanto tale, nei singoli atti di trasferimento e, dunque, approvato dai relativi acquirenti - come da atto di acquisto del ricorrente, contenente l’obbligo da quest’ultimo assunto di far osservare il regolamento di condominio depositato presso il notaio - mentre l’innovazione introdotta nel 2013 riguardava i soli regolamenti assembleari assunti a maggioranza; inoltre, si metteva in luce la finalità perseguita dalla disposizione impugnata, ravvisabile nella necessità di tutelare le porzioni condominiali e di proprietà esclusiva dal pericolo contro eventuali imbrattamenti, stante l’assenza di delimitazioni materiali nei giardini, e fastidi derivanti dall’eventuale abbaiare di cani.
Il ricorso è stato ritenuto fondato e meritevole di accoglimento.
In particolare, si è osservato che la disposizione del regolamento del condominio impugnato fosse affetta da “nullità sopravvenuta”, conseguente all’introduzione, con la legge n. 220/2012, del disposto di cui all’art. 1138, ultimo comma, c.c., secondo cui “le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici”. Ad avviso del decidente, la suddetta disposizione deve, infatti, reputarsi applicabile - contrariamente a quanto sostenuto dal Condominio resistente - a tutte le disposizioni con essa contrastanti, indipendentemente dalla natura dell’atto che le contiene (regolamento contrattuale o assembleare), ed indipendentemente dal momento dell’introduzione di quest’ultimo (prima o dopo la novella del 2012).
Al contempo, si è affermato che l’eventuale norma regolamentare difforme da tale precetto fosse inficiata da nullità, siccome “contraria ai principi di ordine pubblico”, ravvisabili, per un verso, nell’essersi indirettamente consolidata, nel diritto vivente ed a livello di legislazione nazionale, la necessità di valorizzare il rapporto uomo-animale e, per altro verso, nell’affermazione di quest’ultimo principio anche a livello europeo.
L’introduzione del citato divieto é stata preceduta dai principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità che, nel prendere posizione in merito alla legittimità dei regolamenti che vietavano l’accesso e il mantenimento di animali domestici negli appartamenti, aveva più volte sostenuto la necessità che essi fossero espressione, in caso di regolamenti assembleari, dell’unanimità dei consensi dei condomini, siccome “atti ad incidere, menomandole, sulle facoltà comprese nel diritto di proprietà”, sia comune che esclusivo, dei singoli, oppure, in caso di regolamenti contrattuali, ossia quelli predisposti dall’originario unico proprietario, che fossero richiamati negli atti di acquisto delle singole unità immobiliari, costituendosi con essi servitù reciproche (v., tra le altre, Cass. 15 febbraio 2011 n. 3705; Cass. 25 ottobre 2001 n. 13164).
Quanto alla legislazione interna, si richiamano: a) la legge n. 281/1991 (legge-quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo), con la quale è stata prevista la condanna degli atti di crudeltà, maltrattamenti e abbandono degli animali, al fine di “favorire la corretta convivenza tra uomo e animale” (art. 1); b) la legge n. 189/2004, che ha introdotto nel codice penale i nuovi delitti di “animalicidio” e di maltrattamento di animali, di cui agli artt. 544-bis ss. c.p.; c) l’art. 31 della legge n. 120/2010 (nuovo Codice della strada) e il successivo d.m. attuativo n. 217/2012, che ha disposto l’obbligo di fermarsi a soccorrere l’animale ferito in caso di incidente.
A livello europeo, poi, vengono citati: a) la Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, firmata a Strasburgo il 13 novembre 1987, ratificata ed eseguita in Italia con la legge n. 201/2010, nella quale è sancito l’obbligo morale dell’uomo “di rispettare tutte le creature viventi” e l’importanza degli animali da compagnia e il loro valore per la società per il contributo da essi fornito alla qualità della vita; b) il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, ratificato dalla legge n. 130/2008, il quale, all’art. 13, stabilisce che l’Unione e gli Stati membri “tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti”.
Alla luce di quanto sopra, non si è condiviso l’orientamento che vorrebbe limitare l’àmbito applicativo dell’introdotto divieto ai soli regolamenti successivi all’entrata in vigore della norma o ai soli regolamenti assembleari, essendo stati con la novella del 2012 sostanzialmente codificati, anche nella realtà condominiale, i principi già operanti nel diritto vivente e nella legislazione nazionale e internazionale, frutto dell’evoluzione, nella coscienza sociale, della rinnovata considerazione del rapporto uomo-animale, assurto ad “espressione dei più generali diritti inviolabili” di cui all’art. 2 Cost.
Ma se così è - ad avviso del magistrato sardo - il divieto scolpito dall’ultimo comma dell’art. 1138 c.c. deve costituire espressione dei principi di ordine pubblico, dalla cui violazione discende necessariamente la nullità insanabile della statuizione ad esso contraria.
Si aggiunge, in proposito, che, dal “mero inquadramento geografico” della norma, non possa nemmeno trarsi alcun elemento idoneo a restringerne la portata ai soli casi di regolamento c.d. assembleare.
Se è vero che le disposizioni contenute nei commi precedenti dell’art. 1138 c.c. dettano regole in ordine ai casi in cui l’adozione del regolamento diviene obbligatoria e al quorum necessario per la sua approvazione, riferendosi evidentemente al c.d. regolamento assembleare, è altresì vero che nessuna indicazione in merito alla natura del regolamento è contenuta nella rubrica della norma, denominata genericamente “regolamento di condominio”, e neppure nello stesso ultimo comma, ossia quello contenente il divieto, nel quale è citato il “regolamento” senza alcun’altra specificazione.
Se, quindi, nessun indizio può trarsi dall’esame lessicale dell’art. 1138 c.c. e della norma contenente il divieto, appare riduttivo far discendere una qualsiasi conseguenza dal fatto che quest’ultima sia stata “fisicamente” inserita in una disposizione che regola anche le ipotesi di regolamento c.d. assembleare, non soltanto perché la sua stessa ratio conduce a risultati differenti, come si è visto sopra, ma anche perché le stesse conseguenze della sua violazione, specificamente previste dall’art. 155 disp. att. c.c. - secondo il quale “cessano di avere effetto le disposizioni del regolamento di condominio che siano contrarie alle norme richiamate nell’ultimo comma dell’articolo 1138 del codice” - sanciscono definitivamente la correttezza della tesi della nullità del regolamento contrario al divieto, costituendo l’inefficacia mera conseguenza di un’invalidità e non invalidità essa stessa.
Pertanto - secondo la sentenza in esame - “può fondatamente sostenersi come la norma in esame non sia strettamente connessa alle ipotesi di regolamento assembleare, ma costituisca precetto generale, valevole per qualsiasi regolamento, indipendentemente dalla fonte della sua adozione”, conseguendone la declaratoria di nullità della disposizione del regolamento sopra delineata laddove vietava la detenzione tout court di animali domestici.
E’ stata, altresì, rigettata l’ulteriore domanda proposta dal Condominio, con la quale si era chiesto che venisse disposto l’obbligo, in capo al ricorrente, di tenere il cane all’interno dell’appartamento e, in subordine, nel giardino di pertinenza, non soltanto perché il riconoscimento del diritto del condomino di tenere animali domestici nella propria abitazione non esclude l’obbligo di rispettare le proprietà comuni e ancor più quelle esclusive nonché di evitare immissioni, anche sonore, intollerabili, ma anche perché l’inibitoria può ipotizzarsi e, prima ancora, l’interesse processualmente rilevante ad avanzarne richiesta, soltanto quando si presenti la lesione e non anche “in via del tutto precauzionale”.
Ad ogni buon conto, si deve dare atto che l’argomento affrontato dalla sentenza in commento si rivela di viva attualità, non fosse altro che, in Italia, circa una famiglia su quattro ne sembra interessata; ciò ha trovato indiretta conferma, da un lato, negli ultimi resoconti parlamentari sulla riforma della normativa condominiale, in cui la maggiore attenzione dei nostri legislatori si era incentrata sulla detenzione di animali domestici all’interno delle unità immobiliari, e, dall’altro, nella lettura dei giornali e riviste dell’epoca che, occupandosi di tale riforma, avevano dedicato ampio spazio a tale tematica.
Sul versante del “tecnicismo giuridico”, la tesi che fa leva sul disposto dell’art. 152 disp. att. c.c. - a ben vedere - potrebbe … provare troppo, perché tale norma era stata concepita nel momento dell’entrata in vigore del codice civile del 1942, ma non risulta che il legislatore del 2012 abbia introdotto un’analoga disposizione, inducendo a ritenere che le nuove disposizioni valgano soltanto ex nunc.
Del pari, è opinabile che la preclusione debba operare anche nei confronti dei regolamenti contrattuali, e non solo per quelli assembleari (in disparte l’inquadramento giuridico come norma imperativa, che appare un argomento tranchant).
Da un lato, milita a favore della tesi positiva la collocazione della norma posta dopo la previsione dei limiti inderogabili contemplati nel comma 4 dell’art. 1138: in pratica, gli ultimi due capoversi di tale disposto normativo dovrebbero leggersi, in combinato disposto, nel senso che “tutti i regolamenti, anche quelli non assembleari, non possono menomare …, non possono derogare …, e comunque non possono vietare … di detenere animali”.
Non si nasconde, però, che tale soluzione potrebbe comportare una forte riduzione dell’autonomia dei condomini, che si vedrebbero inibita la possibilità di adottare il divieto all’unanimità - ad esempio, per la presenza, all’interno del condominio, di soggetti allergici o sofferenti di gravi forme di asma provocate dal contatto o dalla mera vicinanza con gli animali - e, quindi, di opporre tale limitazione ai proprietari subentranti.
Peraltro, la commissione giustizia del Senato, in sede di approvazione della norma, aveva chiarito che il divieto non riguardava i regolamenti di natura contrattuale in coerenza con i principi dell’autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.), consentendo ai condomini di deliberare limitazioni ai diritti dominicali loro spettanti.
Inoltre, si potrebbe sostenere che la norma de qua sia applicabile solo ai regolamenti redatti successivamente all’entrata in vigore della riforma, in quanto, stante il principio generale sancito dall’art. 11 preleggi, la nuova previsione non può operare retroattivamente, tuttavia, visto il regolamento de quo come contratto ad esecuzione continuata e, quindi, applicabile anche a rapporti successivi alla sua stipula, la previsione potrebbe comportare la “sopravvenuta inefficacia” - come disposto nella sentenza del tribunale isolano - delle eventuali disposizioni, in esso contenute, che contemplino il divieto di tenere animali domestici.
In conclusione, possiamo con serenità sancire il “via libera definitivo” agli animali negli appartamenti, nel senso che “tutti” i regolamenti di condominio, anche se approvati all’unanimità ed anche se redatti prima della riforma del 2012, sono automaticamente nulli nella parte in cui impediscono tale sacrosanto diritto?
In realtà, è un vero rebus, reso complicato dal patrio legislatore, maldestro nel non aver aggiornato l’elenco di cui all’art. 1138 c.c. e sbadato nel non aver introdotto una disciplina transitoria; comunque, va riconosciuto il giusto merito del giudice sardo per aver affermato rilevanti principi, in materia di relazione uomo-animale di affezione, evincibili espressamente dalla legislazione vigente (nazionale e non) nonché desumibili implicitamente dall’evoluzione (e rinnovata considerazione) del comune sentire dei cittadini.
D’altronde, anche la norma de qua è destinata ad un inevitabile aggiornamento, pur consentito dalla lettera e della ratio, ed è, comunque, soggetta ad una costante osmosi con riferimento a nozioni e interessi direttamente derivanti dal corpo sociale e dalla coscienza civile.
In conclusione, per sorridere un po’: quando una persona è triste e ci si interroga sul perché, si suole dire “che c’hai? ti è morto il gatto?”; personalmente, ho assistito a pianti a dirotto per la definitiva scomparsa del cane mentre analoghi sentimenti non li ho riscontrati per la prematura perdita della suocera, ma queste sono altre considerazioni!

di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione

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