A prescindere dalla proprietà del cucciolo, entrambi i partner manterranno pari diritti e doveri, laddove le decisioni più importanti saranno prese di comune accordo, così come le spese di mantenimento e quelle impreviste andranno salomonicamente divise a metà.
Diceva il Mahatma Gandhi che “la grandezza
di una nazione ed il suo progresso morale
si possono giudicare dal modo in cui essa
tratta gli animali”, e sembra che anche i giudici
del nostro Paese siano sempre più sensibili a questo
importante messaggio.
Si registrano, infatti, provvedimenti dell’autorità
giudiziaria che riconoscono il “diritto di visita” in
carcere al cane del detenuto, in quanto “membro
della famiglia”, o che autorizzano il cane ad andare
a trovare in ospedale il paziente ivi ricoverato, costituendo
il rapporto uomo-animale “un’attività realizzatrice
della personalità umana”; e in quest’ottica
che si pone la sentenza del Tribunale di Roma,
la quale ha stabilito l’affido “condiviso” di tale bestiola
(v. sent. n. 5322 del 15 marzo 2016).
In effetti, allorché una coppia decida di separarsi,
potrebbe sorgere il problema a chi vanno attribuiti
gli animali domestici, in quanto non si rinviene
alcuna disposizione legislativa che contempla
tale ipotesi, sicché cani e gatti vengono trattati
alla stregua di comuni “cose”.
Nulla vieta a marito e moglie, in caso di separazione
consensuale, di concordare i tempi ed i
modi della gestione dell’amico a quattro zampe,
segnatamente stabilendo con chi vada a vivere
l’animale, quando l’altro abbia diritto a portarlo
a spasso, come regolarsi durante le vacanze, chi
debba sostenere le “manutenzione” ordinaria,
come debbano ripartirsi le spese eccezionali, ecc.
Le cose si complicano, però, qualora non vi sia
l’accordo tra gli ex coniugi e, in tale situazione
di vuoto normativo, si inserisce la decisione di
cui sopra che, in buona sostanza, applica per
analogia la disciplina vigente per i figli minori
(nella specie, in realtà, trattavasi di coppia non
sposata, ma la soluzione si rivela in linea con la progressiva assimilazione della convivenza more
uxorio ai rapporti fondati sul matrimonio, come di
recente sancita dalla legge n. 76/2016).
Nello specifico, il giudice capitolino ha prescritto
che Fido (nome ovviamente di fantasia) trascorrerà
sei mesi con il suo padrone e sei mesi con
la sua padrona, i quali dovranno pagare al 50%
le spese relative a cibo, cure mediche e “quanto
altro eventualmente necessario al benessere” del
cane; nei sei mesi in cui una delle due parti non
starà con quest’ultimo, l’altro potrà comunque
“vederlo e tenerlo due giorni la settimana, anche
continuativi, notte compresa”.
Dunque, a prescindere dalla proprietà del cucciolo,
entrambi i partner manterranno pari diritti e
doveri, laddove le decisioni più importanti saranno
prese di comune accordo, così come le spese di
mantenimento e quelle impreviste andranno salomonicamente
divise a metà: insomma, quello che
rileva, e deve ritenersi preminente, è l’interesse
primario dell’animale, proprio come per i figli!
Analoghe sensibilità mostrate per gli animali domestici
si trovano in una recente decisione del
Tribunale di Cagliari (v. ord. n. 7170 del 22 luglio
2016), che offre lo spunto per interessanti considerazioni
riguardo ai limiti dei regolamenti di
condominio e agli effetti, anche a livello di diritto
transitorio, della riforma della normativa di
settore entrata in vigore il 18 giugno 2013 (in argomento,
si consenta il rinvio a A. CELESTE, Vietato
… vietare cani e gatti negli appartamenti, in
questa Rivista, giugno 2013, n. 175, p. 374 ss.).
La causa prendeva le mosse da un ricorso proposto
- ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c. (disciplinante
il procedimento sommario di cognizione) - da un
condomino il quale, proprietario di un cane di piccola
taglia, aveva chiesto che venisse dichiarato
nullo e/o venisse annullato e/o venisse comunque dichiarato privo di efficacia l’articolo del regolamento
del condominio che vietava di tenere animali
domestici in casa, e che, pertanto, venisse
consentito al proprio cane l’accesso al condominio.
Al riguardo, si evidenziava la nullità sopravvenuta
della predetta disposizione per effetto sia della
modifica dell’art. 1138, ultimo comma, c.c., intervenuta
con l’art. 16 della legge n. 220/2012
(in forza della quale le norme del regolamento
non potevano vietare di possedere e detenere
animali domestici), sia dell’art. 155 disp. att. c.c.
(a mente del quale le disposizioni regolamentari
contrarie a determinate disposizioni codicistiche
cessavano di avere effetto).
Il Condominio si era costituito in giudizio, sottolineando
la legittimità del divieto e della conseguente
disposizione in merito all’obbligo di tenere
il cane all’interno dell’appartamento e, solo
in ulteriore subordine, nel giardino di pertinenza.
In particolare, il resistente sosteneva, innanzitutto,
la natura contrattuale del regolamento, predisposto
dall’originario unico proprietario e costruttore
dello stabile condominiale e richiamato,
in quanto tale, nei singoli atti di trasferimento e,
dunque, approvato dai relativi acquirenti - come
da atto di acquisto del ricorrente, contenente
l’obbligo da quest’ultimo assunto di far osservare
il regolamento di condominio depositato presso il
notaio - mentre l’innovazione introdotta nel 2013
riguardava i soli regolamenti assembleari assunti
a maggioranza; inoltre, si metteva in luce la
finalità perseguita dalla disposizione impugnata,
ravvisabile nella necessità di tutelare le porzioni
condominiali e di proprietà esclusiva dal pericolo
contro eventuali imbrattamenti, stante l’assenza
di delimitazioni materiali nei giardini, e fastidi
derivanti dall’eventuale abbaiare di cani.
Il ricorso è stato ritenuto fondato e meritevole di
accoglimento.
In particolare, si è osservato che la disposizione
del regolamento del condominio impugnato fosse
affetta da “nullità sopravvenuta”, conseguente
all’introduzione, con la legge n. 220/2012, del disposto
di cui all’art. 1138, ultimo comma, c.c., secondo
cui “le norme del regolamento non possono
vietare di possedere o detenere animali domestici”.
Ad avviso del decidente, la suddetta disposizione
deve, infatti, reputarsi applicabile - contrariamente
a quanto sostenuto dal Condominio resistente
- a tutte le disposizioni con essa contrastanti,
indipendentemente dalla natura dell’atto
che le contiene (regolamento contrattuale o assembleare),
ed indipendentemente dal momento
dell’introduzione di quest’ultimo (prima o dopo la
novella del 2012).
Al contempo, si è affermato che l’eventuale norma
regolamentare difforme da tale precetto fosse inficiata da nullità, siccome “contraria ai principi
di ordine pubblico”, ravvisabili, per un verso,
nell’essersi indirettamente consolidata, nel diritto
vivente ed a livello di legislazione nazionale, la
necessità di valorizzare il rapporto uomo-animale
e, per altro verso, nell’affermazione di quest’ultimo
principio anche a livello europeo.
L’introduzione del citato divieto é stata preceduta
dai principi elaborati dalla giurisprudenza di
legittimità che, nel prendere posizione in merito
alla legittimità dei regolamenti che vietavano
l’accesso e il mantenimento di animali domestici
negli appartamenti, aveva più volte sostenuto la
necessità che essi fossero espressione, in caso di
regolamenti assembleari, dell’unanimità dei consensi
dei condomini, siccome “atti ad incidere,
menomandole, sulle facoltà comprese nel diritto
di proprietà”, sia comune che esclusivo, dei singoli,
oppure, in caso di regolamenti contrattuali,
ossia quelli predisposti dall’originario unico proprietario,
che fossero richiamati negli atti di acquisto
delle singole unità immobiliari, costituendosi
con essi servitù reciproche (v., tra le altre,
Cass. 15 febbraio 2011 n. 3705; Cass. 25 ottobre
2001 n. 13164).
Quanto alla legislazione interna, si richiamano:
a) la legge n. 281/1991 (legge-quadro in materia
di animali di affezione e prevenzione del randagismo),
con la quale è stata prevista la condanna
degli atti di crudeltà, maltrattamenti e abbandono
degli animali, al fine di “favorire la corretta convivenza
tra uomo e animale” (art. 1); b) la legge
n. 189/2004, che ha introdotto nel codice penale i
nuovi delitti di “animalicidio” e di maltrattamento
di animali, di cui agli artt. 544-bis ss. c.p.; c) l’art.
31 della legge n. 120/2010 (nuovo Codice della
strada) e il successivo d.m. attuativo n. 217/2012,
che ha disposto l’obbligo di fermarsi a soccorrere
l’animale ferito in caso di incidente.
A livello europeo, poi, vengono citati: a) la Convenzione
europea per la protezione degli animali
da compagnia, firmata a Strasburgo il 13 novembre
1987, ratificata ed eseguita in Italia con la
legge n. 201/2010, nella quale è sancito l’obbligo
morale dell’uomo “di rispettare tutte le creature
viventi” e l’importanza degli animali da compagnia
e il loro valore per la società per il contributo
da essi fornito alla qualità della vita; b) il Trattato
sul funzionamento dell’Unione Europea, ratificato
dalla legge n. 130/2008, il quale, all’art. 13, stabilisce
che l’Unione e gli Stati membri “tengono
pienamente conto delle esigenze in materia di benessere
degli animali in quanto esseri senzienti”.
Alla luce di quanto sopra, non si è condiviso l’orientamento
che vorrebbe limitare l’àmbito applicativo
dell’introdotto divieto ai soli regolamenti successivi
all’entrata in vigore della norma o ai soli regolamenti assembleari, essendo stati con la novella del 2012
sostanzialmente codificati, anche nella realtà condominiale,
i principi già operanti nel diritto vivente
e nella legislazione nazionale e internazionale,
frutto dell’evoluzione, nella coscienza sociale, della
rinnovata considerazione del rapporto uomo-animale,
assurto ad “espressione dei più generali diritti
inviolabili” di cui all’art. 2 Cost.
Ma se così è - ad avviso del magistrato sardo - il
divieto scolpito dall’ultimo comma dell’art. 1138
c.c. deve costituire espressione dei principi di
ordine pubblico, dalla cui violazione discende
necessariamente la nullità insanabile della statuizione
ad esso contraria.
Si aggiunge, in proposito, che, dal “mero inquadramento
geografico” della norma, non possa
nemmeno trarsi alcun elemento idoneo a restringerne
la portata ai soli casi di regolamento c.d.
assembleare.
Se è vero che le disposizioni contenute nei commi
precedenti dell’art. 1138 c.c. dettano regole in ordine
ai casi in cui l’adozione del regolamento diviene
obbligatoria e al quorum necessario per la sua
approvazione, riferendosi evidentemente al c.d. regolamento
assembleare, è altresì vero che nessuna
indicazione in merito alla natura del regolamento
è contenuta nella rubrica della norma, denominata
genericamente “regolamento di condominio”, e
neppure nello stesso ultimo comma, ossia quello
contenente il divieto, nel quale è citato il “regolamento”
senza alcun’altra specificazione.
Se, quindi, nessun indizio può trarsi dall’esame
lessicale dell’art. 1138 c.c. e della norma contenente
il divieto, appare riduttivo far discendere
una qualsiasi conseguenza dal fatto che quest’ultima
sia stata “fisicamente” inserita in una disposizione
che regola anche le ipotesi di regolamento
c.d. assembleare, non soltanto perché la sua
stessa ratio conduce a risultati differenti, come si
è visto sopra, ma anche perché le stesse conseguenze
della sua violazione, specificamente previste
dall’art. 155 disp. att. c.c. - secondo il quale
“cessano di avere effetto le disposizioni del regolamento
di condominio che siano contrarie alle
norme richiamate nell’ultimo comma dell’articolo
1138 del codice” - sanciscono definitivamente la
correttezza della tesi della nullità del regolamento
contrario al divieto, costituendo l’inefficacia
mera conseguenza di un’invalidità e non invalidità
essa stessa.
Pertanto - secondo la sentenza in esame - “può fondatamente
sostenersi come la norma in esame non
sia strettamente connessa alle ipotesi di regolamento
assembleare, ma costituisca precetto generale,
valevole per qualsiasi regolamento, indipendentemente
dalla fonte della sua adozione”, conseguendone
la declaratoria di nullità della disposizione del regolamento sopra delineata laddove vietava la detenzione
tout court di animali domestici.
E’ stata, altresì, rigettata l’ulteriore domanda proposta
dal Condominio, con la quale si era chiesto
che venisse disposto l’obbligo, in capo al ricorrente,
di tenere il cane all’interno dell’appartamento
e, in subordine, nel giardino di pertinenza,
non soltanto perché il riconoscimento del diritto
del condomino di tenere animali domestici nella
propria abitazione non esclude l’obbligo di rispettare
le proprietà comuni e ancor più quelle esclusive
nonché di evitare immissioni, anche sonore,
intollerabili, ma anche perché l’inibitoria può
ipotizzarsi e, prima ancora, l’interesse processualmente
rilevante ad avanzarne richiesta, soltanto
quando si presenti la lesione e non anche “in via
del tutto precauzionale”.
Ad ogni buon conto, si deve dare atto che l’argomento
affrontato dalla sentenza in commento
si rivela di viva attualità, non fosse altro che, in
Italia, circa una famiglia su quattro ne sembra interessata;
ciò ha trovato indiretta conferma, da
un lato, negli ultimi resoconti parlamentari sulla
riforma della normativa condominiale, in cui la
maggiore attenzione dei nostri legislatori si era
incentrata sulla detenzione di animali domestici
all’interno delle unità immobiliari, e, dall’altro,
nella lettura dei giornali e riviste dell’epoca che,
occupandosi di tale riforma, avevano dedicato
ampio spazio a tale tematica.
Sul versante del “tecnicismo giuridico”, la tesi che
fa leva sul disposto dell’art. 152 disp. att. c.c. - a
ben vedere - potrebbe … provare troppo, perché
tale norma era stata concepita nel momento dell’entrata
in vigore del codice civile del 1942, ma non
risulta che il legislatore del 2012 abbia introdotto
un’analoga disposizione, inducendo a ritenere che le
nuove disposizioni valgano soltanto ex nunc.
Del pari, è opinabile che la preclusione debba
operare anche nei confronti dei regolamenti contrattuali,
e non solo per quelli assembleari (in
disparte l’inquadramento giuridico come norma
imperativa, che appare un argomento tranchant).
Da un lato, milita a favore della tesi positiva la
collocazione della norma posta dopo la previsione
dei limiti inderogabili contemplati nel comma
4 dell’art. 1138: in pratica, gli ultimi due capoversi
di tale disposto normativo dovrebbero leggersi, in
combinato disposto, nel senso che “tutti i regolamenti,
anche quelli non assembleari, non possono
menomare …, non possono derogare …, e comunque
non possono vietare … di detenere animali”.
Non si nasconde, però, che tale soluzione potrebbe
comportare una forte riduzione dell’autonomia
dei condomini, che si vedrebbero inibita la possibilità
di adottare il divieto all’unanimità - ad
esempio, per la presenza, all’interno del condominio, di soggetti allergici o sofferenti di gravi
forme di asma provocate dal contatto o dalla mera
vicinanza con gli animali - e, quindi, di opporre
tale limitazione ai proprietari subentranti.
Peraltro, la commissione giustizia del Senato, in
sede di approvazione della norma, aveva chiarito
che il divieto non riguardava i regolamenti
di natura contrattuale in coerenza con i principi
dell’autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.), consentendo
ai condomini di deliberare limitazioni ai
diritti dominicali loro spettanti.
Inoltre, si potrebbe sostenere che la norma de
qua sia applicabile solo ai regolamenti redatti
successivamente all’entrata in vigore della riforma,
in quanto, stante il principio generale sancito
dall’art. 11 preleggi, la nuova previsione non può
operare retroattivamente, tuttavia, visto il regolamento
de quo come contratto ad esecuzione
continuata e, quindi, applicabile anche a rapporti
successivi alla sua stipula, la previsione potrebbe
comportare la “sopravvenuta inefficacia” - come
disposto nella sentenza del tribunale isolano -
delle eventuali disposizioni, in esso contenute,
che contemplino il divieto di tenere animali domestici.
In conclusione, possiamo con serenità sancire il
“via libera definitivo” agli animali negli appartamenti,
nel senso che “tutti” i regolamenti di
condominio, anche se approvati all’unanimità ed
anche se redatti prima della riforma del 2012,
sono automaticamente nulli nella parte in cui impediscono
tale sacrosanto diritto?
In realtà, è un vero rebus, reso complicato dal
patrio legislatore, maldestro nel non aver aggiornato
l’elenco di cui all’art. 1138 c.c. e sbadato nel
non aver introdotto una disciplina transitoria; comunque,
va riconosciuto il giusto merito del giudice
sardo per aver affermato rilevanti principi, in
materia di relazione uomo-animale di affezione,
evincibili espressamente dalla legislazione vigente
(nazionale e non) nonché desumibili implicitamente
dall’evoluzione (e rinnovata considerazione)
del comune sentire dei cittadini.
D’altronde, anche la norma de qua è destinata ad
un inevitabile aggiornamento, pur consentito dalla
lettera e della ratio, ed è, comunque, soggetta
ad una costante osmosi con riferimento a nozioni
e interessi direttamente derivanti dal corpo sociale
e dalla coscienza civile.
In conclusione, per sorridere un po’: quando una
persona è triste e ci si interroga sul perché, si
suole dire “che c’hai? ti è morto il gatto?”; personalmente,
ho assistito a pianti a dirotto per la
definitiva scomparsa del cane mentre analoghi
sentimenti non li ho riscontrati per la prematura
perdita della suocera, ma queste sono altre considerazioni!
di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione
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