giovedì 18 maggio 2017

Il reato (proprio) di disturbo della quiete domestica

Tra i banchi dell’università, nell’àmbito delle prime lezioni di diritto penale, si insegnava che l’autore, o soggetto attivo del reato, è colui che realizza il fatto tipico: in quest’ottica, la maggior parte dei reati possono essere commessi da chiunque (c.d. reati comuni), mentre altri reati possono essere commessi solo da soggetti che posseggono determinate caratteristiche o solo da soggetti che abbiano una certa qualifica (c.d. reati propri).
Ovviamente scherzando - ma non più di tanto … - sembra che, nella convivenza “forzata” all’interno dell’edificio urbano, il condomino rivesta una posizione specifica per commettere il reato penale di disturbo della quiete domestica (impregiudicata l’integrazione dell’ipotesi civilistica dell’immissione molesta contemplata nell’art. 844 c.c.) Tale opinione risulterebbe avvalorata dalla seguente sintetica carrellata di fattispecie analizzate dalla giurisprudenza di legittimità, che registra la sovente consumazione di tale contravvenzione nel ristretto àmbito del microcosmo condominiale (sull’aspetto “animalesco”, si consenta il rinvio al commento A. CELESTE, Abbaiar di cani tra inibitorie sul versante civilistico e configurazioni di fattispecie penali, in questa Rivista, febbraio 2016, n. 201, p. 11 ss., ed alle pronunce giudiziarie ivi citate).
La panoramica deve prendere le mosse dal disposto dell’art. 659 c.p., che disciplina appunto la contravvenzione di “disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone”, e contempla due distinte ipotesi: in questa sede rileva quella prevista nella prima parte del comma 1, laddove si punisce con l’arresto fino a 3 mesi o con l’ammenda fino a euro 309,00, “chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone”.
In termini generali, si è affermato - anche di recente - per un verso, che la responsabilità per la fattispecie de qua non implica, attesa la natura di “reato di pericolo presunto” e non di danno, la prova dell’effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente “l’idoneità della condotta a disturbarne un numero indeterminato di persone” - v., tra le altre, Cass. pen. 24 gennaio 2012 n. 7748; Cass. pen. 21 ottobre 1996 n. 12984; Cass. pen. 9 dicembre 1999 n. 1394; Cass. pen. 8 ottobre 2004 n. 40393 - e per altro verso, che ’attitudine dei rumori a disturbare il riposo delle persone non va necessariamente accertata mediante consulenza tecnica, sicché il giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità (v., per tutte, Cass. pen. 5 febbraio 2015 n. 11031).
Si è, inoltre, puntualizzato (v. Cass. pen. 24 giugno 2014 n. 8351) che la contravvenzione di cui all’art. 659, comma 1, c.p. è reato “solo eventualmente permanente”, che si può consumare anche con un’unica condotta rumorosa o di schiamazzo recante, in determinate circostanze, un effettivo disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone, in quanto non è necessaria la prova che il rumore abbia concretamente molestato una platea più diffusa di persone, essendo sufficiente l’idoneità del fatto a disturbare un numero indeterminato di individui.
Rimane fermo che i rumori, gli schiamazzi e gli strepiti, per costituire l’elemento materiale della contravvenzione ex art. 659 c.p., devono avere una certa “potenzialità diffusa” per modo che l’evento del disturbo possa essere risentito da un numero indeterminato di persone.
In quest’ordine di concetti - venendo più da vicino alla realtà condominiale - è cronaca di questi giorni la conferma, da parte di Cass. pen. 16 novembre 2016 n. 48315, della sentenza che aveva condannato una condomina al pagamento di euro 100,00 di ammenda, oltre al risarcimento dei danni alle parti civili costituite, per il reato di cui all’art. 659 c.p. correlato all’attività eccessivamente rumorosa messa in atto durante … le pulizie quotidiane dell’appartamento.
La suddetta condomina era insorta contro la decisione del giudice di merito, prospettando, in primo luogo, il vizio di illogicità/contraddittorietà/ mancanza di motivazione sull’affermazione della sua responsabilità penale, argomentando che tale giudice l’aveva ritenuta provata, ponendo a fondamento della statuizione di condanna esclusivamente la denuncia presentata dalle persone offese, e ritenendo integrata la condotta medesima senza valutare il contributo offerto dai testimoni della difesa, ritenuti inconferenti; la motivazione della gravata sentenza sarebbe stata, poi, incompleta/priva di struttura logica, in quanto il giudice a quo si era limitato a fare proprio il racconto delle persone offese, senza argomentare l’attendibilità di costoro.
Inoltre, la ricorrente aveva denunciato la violazione dell’art. 659 c.p., sul rilievo che il giudice di merito aveva omesso di valutare se i rumori emessi dalla condomina fossero tali da disturbare la quiete pubblica, limitandosi a ritenere che le urla della signora avevano arrecato disturbo unicamente ai vicini denuncianti; motivazione, quest’ultima, in contrasto con gli arresti della giurisprudenza i quali richiedevano che, per configurare il reato di disturbo al riposo e alla quiete delle persone, era necessario che le emissioni sonore moleste fossero idonee ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone, in presenza di un luogo abitato.
Infine, si era lamentata la mancata applicazione della causa speciale di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., giustificata perché, nella specie, dovevano ravvisarsi elementi per escludere la particolare tenuità del fatto, attesa anche la non abitualità del comportamento e lo stato di incensuratezza dell’imputata.
I giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto tali doglianze non meritevoli di accoglimento, esplicitando concetti esportabili in altre situazioni endo-condominiali.
Innanzitutto, è stata considerata manifestatamente infondata la prima censura, con cui la ricorrente aveva dedotto l’illogicità della motivazione in ordine all’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all’art. 659 c.p.
Invero, la sentenza impugnata poggiava su una motivazione tutt’altro che illogica e/o carente, avendo il giudice del merito fondato il proprio convincimento sul contenuto delle querele delle parti civili, oltre che dall’annotazione di servizio della polizia giudiziaria - acquisite su accordo delle parti ex art. 493 c.p.p. e, dunque, utilizzabili quali prove - di cui aveva dato ampio rilievo. Quanto al contenuto, da questi elementi probatori emergeva che la condomina era solita iniziare le faccende domestiche in prima mattina, “mettendo la radio a volume altissimo e urlando con la figlia”, e, con i suoi inurbani comportamenti, impediva il riposo delle persone in zona altamente popolata, rendendo oltremodo difficile così ai vicini di svolgere qualsiasi attività della vita quotidiana.
Il giudice aveva, altresì, rilevato che la pacifica ed ammessa circostanza che non vi fossero rapporti di buon vicinato tra la suddetta condomina ed i denuncianti, con i quali vi erano liti, scambi di insulti - vicini che, a dire della ricorrente, tentavano in tutti i modi “di farle cambiare casa” - non influiva sulla veridicità del racconto, che non era scalfito dalle deposizioni dei testi della difesa che l’avevano descritta come una persona “calma”; in proposito, si era messo in evidenza, al fine di confutare l’affermazione dei testi della difesa, secondo cui la condomina “non dava fastidio a nessuno”, i precedenti per fatti analoghi. Parimenti manifestamente infondata risultava anche la seconda censura, con cui la ricorrente criticava la sentenza in ordine alla prova del reato di cui all’art. 659 c.p.
Al riguardo, si è ricordato che in tale norma, e precisamente nell’ipotesi prevista dal comma 1 - contestata alla ricorrente - occorre l’accertamento in concreto del disturbo del riposo della quiete di un numero indeterminato di persone, nella specie sussistente perché la condomina, appunto iniziando le faccende domestiche sin dalle sei del mattino, accompagnate da condotte inurbane (accensione della radio ad alto volume e litigi con la figlia) in zona altamente popolata, aveva impedito lo svolgimento delle normali occupazioni da parte dei vicini.
Alla stessa sorte non si sottraeva anche l’ultimo motivo di ricorso, con il quale si era censurata la sentenza per non aver applicato la speciale causa della “particolare tenuità del fatto” ex art. 131-bis c.p., a fronte di una pena esigua di euro 100 di ammenda a cui era stata condannata la ricorrente. Invero, tale speciale causa di non punibilità é applicabile, ai sensi del comma 1, ai soli reati per i quali sia prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, oppure la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta. La rispondenza ai limiti di pena rappresenta, però, solo la prima delle condizioni per l’esclusione della punibilità, poiché la norma richiede, congiuntamente e non alternativamente - come si desume dal tenore letterale dell’articolo - la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento.
Nello specifico, il primo requisito - particolare tenuità dell’offesa - si articola, a sua volta, in due “indici-requisiti”, che sono, da un lato, la modalità della condotta e, dall’altro, l’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p. (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità dell’azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, intensità del dolo o grado della colpa); pertanto, spetta al giudice rilevare se, sulla base dei due suddetti “indici-requisiti”, valutati secondo i criteri direttivi di cui all’art. 133, comma 1, c.p., sussista la particolare tenuità dell’offesa e, poi, che con questo indice, coesista quello della non abitualità del comportamento, in quanto solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità.
Riguardo alla non abitualità, il comma 3 definisce il comportamento abituale nell’ipotesi in cui l’autore del reato sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, oppure abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché qualora trattasi di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Tanto premesso, gli ermellini hanno osservato che, nel caso in esame, trattandosi del reato di cui all’art. 659 c.p., non risultavano superati i limiti di pena, ma, quanto alla verifica degli ulteriori requisiti, la sentenza impugnata ha evidenziato elementi ostativi ad un giudizio di astratta applicabilità dell’art. 131-bis c.p. individuati nella reiterazione della condotta e, in definitiva, nella sua abitualità (“continui, reiterati e inurbani comportamenti ...”), difettando, dunque, il requisito della non abitualità del comportamento. Ed a proposito di quest’ultima condizione, si è rammentato che il concetto di non abitualità del comportamento, che consente l’applicazione della causa di non punibilità, trova specifico aggancio nella relazione illustrativa del d.lgs. n. 28/2015; atteso che il ricorso all’espressione “non abitualità del comportamento” è il risultato della scrupolosa osservanza della legge-delega da parte del legislatore delegato e si pone su un piano diverso rispetto alla “occasionalità” utilizzata dal d.p.r. n. 448/1988 e dal d.lgs. n. 274/2000, si è poi evidenziato che tale comma, aggiunto su sollecitazione espressa nel parere della Commissione giustizia della Camera, descriverebbe solo alcune ipotesi in cui il comportamento non può essere considerato non abituale, ampliando quindi il concetto di “abitualità”, entro cui potranno collocarsi altre condotte ostative alla declaratoria di non punibilità. Ciò posto, con riguardo al caso in scrutinio, il massimo consesso decidente ha sottolineato che la non abitualità del comportamento della condomina è stata implicitamente esclusa, dal giudice del merito, proprio in ragione della accertata condotta “continuata e reiterata”.
I contorni della fattispecie penale di cui all’art. 659 c.p. nell’àmbito condominiale sono stati perimetrati anche in altre pronunce del Supremo Collegio.
Nel caso concreto deciso da Cass. pen. 13 novembre 2013 n. 45616, era stata impugnata una sentenza che aveva dichiarato un condomino colpevole di tale reato, per avere tollerato che, nel suo locale, venissero prodotti rumori, attraverso l’impianto di amplificazione della musica installato nel cortile esterno, che superavano il normale limite di tollerabilità all’interno dell’abitazione di un altro condomino, anche a finestre chiuse del suo appartamento, con evidenti disagi alla vita quotidiana.
Avverso tale decisione, aveva proposto ricorso il proprietario del locale, sostenendo che il reato de quo non sussisteva, poiché le emissioni sonore non erano superiori alla normale tollerabilità, in quanto non erano state percepite da un numero indeterminato di persone, posto che solo il denunciante se ne era lamentato, laddove, invece, i rumori avrebbero dovuto recare disturbo ad una parte notevole degli occupanti del medesimo edificio, oppure a quelli degli stabili prossimi, per potersi ritenere disturbata o compromessa la quiete pubblica.
Il ricorso è stato considerato fondato e, quindi, accolto dai magistrati del Palazzaccio.
In proposito, si è evidenziato che la condotta illecita dell’imputato era stata circoscritta ad un determinato giorno, in cui il solo condomino denunciante aveva avuto motivo di doglianza, tanto da aver richiesto l’intervento dei carabinieri alle ore 23.30, che avevano accertato la diffusione di musica ad alto volume, che era stata interrotta dopo il loro arrivo.
Stando così le cose, si è ricordato che, per poter configurare la contravvenzione di cui all’art. 659 c.p. - secondo l’ormai costante indirizzo giurisprudenziale (v. Cass. pen. 20 maggio 1994 n. 7753; Cass. pen. 29 novembre 2011 n. 47298; Cass. pen. 5 febbraio 2013 n. 6546) - è necessario che i rumori prodotti, oltre ad essere superiori alla normale tollerabilità, abbiano “attitudine a propagarsi in modo tale da essere idonei a disturbare una pluralità indeterminata di persone”; tale modus opinandi si impone considerando la natura del bene giuridico protetto, che è da individuare nella quiete pubblica e non nella tranquillità di singoli soggetti che abbiano a denunciare la rumorosità.
Ne consegue che, se l’attività di disturbo ha luogo in un edificio condominiale - come nel caso in esame - per ravvisare la responsabilità penale del soggetto agente non è sufficiente che i rumori arrechino disturbo o siano idonei a turbare la quiete e le occupazioni dei soli abitanti gli appartamenti inferiori o superiori rispetto alla fonte di propagazione, ma occorre una situazione fattuale di rumori atti a recare disturbo ad una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio, poiché solo in questo caso può ritenersi integrata la compromissione della quiete pubblica.
Del resto, qualora i rumori assumano una portata più circoscritta - come nel caso di specie in cui un solo vicino si era lamentato del disturbo - le ragioni della persona o delle persone disturbata potevano essere fatte valere in sede civile, azionando i diritti derivanti dai rapporti di vicinato. Tali principi erano stati affermati anche da Cass. pen. 5 febbraio 1998 n. 1406, ad avviso della quale, in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, i rumori e gli schiamazzi vietati, per essere penalmente sanzionabile la condotta che li produce, debbono incidere sulla tranquillità pubblica - essendo l’interesse specificamente tutelato dal legislatore quello della pubblica tranquillità sotto l’aspetto della pubblica quiete, la quale implica, di per sè, l’assenza di cause di disturbo per la generalità dei consociati - di guisa che gli stessi devono avere tale “potenzialità diffusa”, nel senso che l’evento di disturbo abbia la potenzialità di essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se, poi, in concreto soltanto alcune persone se ne possano lamentare.
Ne consegue che la contravvenzione in esame non sussiste allorquando i rumori arrechino disturbo ai soli occupanti di un appartamento, all’interno del quale sono percepiti, e non ad altri soggetti abitanti nel condominio in cui è inserita detta abitazione o nelle zone circostanti: infatti, in tale ipotesi non si produce “il disturbo, effettivo o potenziale, della tranquillità di un numero indeterminato di soggetti”, ma soltanto di quella di definite persone, sicché un fatto del genere può costituire, se del caso, illecito civile, come tale fonte di risarcimento di danno, ma giammai assurgere a violazione penalmente sanzionabile.
Al contempo, però, si è statuito che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 659 c.p., la potenzialità lesiva dei rumori non deve incidere su di un numero rilevante di persone, ma è sufficiente che arrechi “disturbo alla generalità di coloro che sono o si trovano a diretto contatto con il luogo ove i rumori si verificano”, come gli occupanti di tutto un condominio o di parte notevole dello stesso (v. Cass. pen. 23 settembre 1986 n. 9726).
In quest’ottica, si è ritenuta integrata la contravvenzione di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone nell’organizzazione di feste e cerimonie all’interno dello scantinato di un edificio condominiale che si protraevano per ore con schiamazzi, rumori e abuso di strumenti sonori, idonei a diffondersi all’interno ed all’esterno dello stabile con pregiudizio della tranquillità di un numero indeterminato di persone (v. Cass. pen. 17 maggio 2010 n. 18517: nella specie, il frastuono determinato dalle feste, che avevano frequenza bisettimanale, era tale da far vibrare le strutture murarie del fabbricato e da impedire di tenere conversazioni normali o di ascoltare la televisione negli altri appartamenti di esso).
Non sempre il soggetto che subisce le immissioni rumorose moleste mantiene, però, la calma.
In un caso concreto, deciso da Cass. pen. 14 maggio 2002 n. 27625, si è (per fortuna) esclusa la sussistenza del reato nella condotta di un imputato, al quale era stato contestato di aver reiteratamente recato disturbo al gestore ed ai frequentatori di un bar, mediante una “serie ripetute di forti colpi sul pavimento della propria abitazione”, sovrastante il predetto esercizio pubblico, nelle ore di massima frequentazione dello stesso. Invero, perché sussista la contravvenzione di cui all’art. 659, comma 1, c.p., occorre la prova della “diffusività” del rumore, da valutarsi con riferimento all’àmbito spaziale di propagazione delle emissioni sonore, prescindendo dal novero delle persone occasionalmente o potenzialmente presenti nel luogo interessato dalle emissioni stesse; pertanto, ove detto luogo risulti circoscritto ad una singola unità di un complesso condominiale, senza attitudine ad ulteriore propagazione verso altre unità abitative dello stesso condominio o verso ambiti ad esso esterni, deve ritenersi irrilevante il numero dei soggetti contingentemente convenuti in detto luogo e disturbati dalla condotta del soggetto agente.

di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione

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