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giovedì 22 febbraio 2018

Profili giuridici della responsabilità giuridica dell’amministratore del condominio per il crollo dell’edificio

In tema di omissione di lavori in costruzioni che minacciano rovina negli edifici condominiali, nel caso di mancata formazione della volontà assembleare che consenta all’amministratore di adoperarsi al riguardo, sussiste a carico del singolo condomino l’obbligo giuridico di rimuovere la situazione pericolosa.

In questo caso, nell'eventualità che l'assemblea si rifiuti di deliberare i lavori di messa in sicurezza, la responsabilità e l'obbligo giuridico sono a carico del singolo condomino.


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martedì 12 dicembre 2017

Responsabilità del condominio per furti da ponteggi

"L’amministratore di condominio, in quanto custode dei beni comuni ed esecutore della volontà assembleare del condominio, non è un soggetto direttamente, personalmente e civilmente responsabile delle violazioni e delle sanzioni contenute nel d.lgs. n. 31/2001 qualora abbia tempestivamente informato il condominio"



In tema di furti agevolati dai ponteggi installati in esecuzione di un appalto in un edificio in condominio la S.C. ha iniziato con affermare che in tema di responsabilità civile ex art. 2051 cod. civ., allorquando un ponteggio sia sistemato in aderenza ad un fabbricato per la esecuzione di lavori di riparazione in tale edificio, per ciò stesso questo ponteggio si trova a ricadere nell’ambito della custodia dei proprietari dell’edificio, cui accede, salvo prova contraria , e poi che è astrattamente ipotizzabile una responsabilità ex art.2051 cod. civ. a carico dello stesso, trovandosi il ponteggio nella sua sfera di custodia.
E’ evidente la contraddizione tra le due affermazioni, in quanto in un caso si presume una situazione di custodia, mentre nell’altro viene semplicemente ipotizzata tale situazione; non viene, poi, chiarito quale sarebbe il contenuto della prova contraria per superare la presunzione di custodia, né quale sarebbe il contenuto della prova diretta a dimostrare che la possibilità astratta della custodia si è, in concreto, realizzata.
Ciò premesso, va, poi, ricordato che in dottrina si sostiene che ai fini dell’applicazione dell’art. 2051 cod. civ. occorre che la cosa si trovi nella disponibilità materiale del soggetto e tale rapporto con la cosa fonda l’obbligo di custodia materiale della stessa ed il connesso dovere di vigilare oppure che la relazione tra il soggetto e la cosa che legittima la pronuncia di responsabilità è caratterizzata dalla sussistenza di un potere in capo al soggetto stesso di escludere qualsiasi terzo dall’ingerenza sulla cosa nel momento il cui si è prodotto il danno.
Non si vede come il condominio possa, allora, essere considerato custode dei ponteggi installati dall’appaltatore.
Non si può, poi, non ricordare che la stessa S.C. ha affermato che elemento indispensabile, ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2051 cod. civ., è la relazione diretta tra la cosa in custodia e l’evento dannoso, intesa nel senso che la prima abbia prodotto direttamente il secondo e non abbia, invece, costituito lo strumento mediante il quale l’uomo abbia causato il danno con la sua azione od omissione.
In altri termini, anche volendo ipotizzare che il condominio è custode dei ponteggi, non è configurabile la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. quando la cosa sia uno strumento con cui l’azione od omissione dell’uomo causa il danno, per cui esso sia cagionato non “dalla cosa” ma ”con la cosa”.
Se si estendessero gli obblighi del custode fino a comprendere anche una attività di prevenzione rispetto all’altrui attività illecita,si assimilerebbe in pratica la disciplina prevista da due tipologie diverse,contro la lettera e la ratio delle rispettive disposizioni normative.
Si è anche prospettata la responsabilità del condominio sotto il profilo della culpa in eligendo per essere stata affidata l’opera ad un’impresa assolutamente inidonea ovvero quando l’appaltatore – in base ai patti contrattuali – sia stato un semplice esecutore degli ordini del committente ed abbia agito quale nudus minister attuandone specifiche direttive.
Non viene spiegato, però, come sia configurabile una responsabilità del condominio sotto il profilo della culpa in eligendo per il furto compiuto dal ladro che abbia utilizzato i ponteggi il cui montaggio a regola d’arte non sia contestato o per il fatto che nel montaggio di tali ponteggi l’appaltatore sia stato un c.d. nudus minister, cioè si sia limitato ad eseguire le direttive del committente. 
Si è anche affermato che il condominio dovrebbe rispondere del montaggio della impalcatura senza luci esterne e della mancanza di strutture di sicurezza per l’inviolabilità degli appartamenti ; in tal modo, però, si danno per scontati:
  1. l’obbligo dell’appaltatore di munire le impalcature di luci esterne e di non meglio precisate “strutture di sicurezza per l’inviolabilità degli appartamenti”;
  2. l’esistenza di un obbligo di controllo del committente sull’operato dell’appaltatore che, invece, in linea di principio è da escludere, che la stessa S.C. ha escluso, affermando che il committente non è né obbligato a sorvegliare l’esecuzione del contrato di appalto – che normalmente avviene con piena autonomia dell’imprenditore – né tanto meno a cooperare con questi nella realizzazione di esso; conseguentemente la corresponsabilità del committente non può fondarsi sull’omessa vigilanza, nel suo interesse, sull’appaltatore, nel caso di danni derivati a terzi.
Recentemente la S.C. ha mutato orientamento affermando che è da escludere, in linea di principio, che - in caso di furto reso possibile dall’omessa adozione delle necessarie misure di sicurezza in relazione all’impalcatura di proprietà e/o installata dall’appaltatore per effettuare lavori nello stabile condominiale - possa automaticamente affermarsi sussistere a carico del condominio committente, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., una responsabilità oggettiva o presunta, “da custodia” della struttura, della quale quest’ultimo ha semplicemente consentito l’installazione, laddove si riconosca a carico dello stesso appaltatore (proprietario e/o quanto meno diretto installatore e utilizzatore della predetta struttura) esclusivamente una responsabilità ordinaria per colpa, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.
In una siffatta ipotesi, la responsabilità del condominio committente può essere affermata esclusivamente ai sensi dell’art. 2043 c.c., in concorso con quella dell’appaltatore, per omissione degli obblighi di vigilanza sull’attività di quest’ultimo. Ed in tale ottica costituisce questione di fatto stabilire in quali limiti ed in quali termini lo stesso condominio disponga, nella vicenda concreta, di tali poteri di vigilanza, ed eventualmente anche in che termini ed in che limiti sia comunque esigibile, secondo l’ordinaria diligenza che, nell’affidamento a terzi di lavori in appalto da svolgersi sulle parti comuni dell’edificio, esso si riservi in ogni caso siffatti poteri, a tutela dei condomini e dei terzi ai quali dai lavori stessi possano derivare eventuali pregiudizi.
In definitiva viene ipotizzata una astratta corresponsabilità del condominio, la quale, però, è subordinata a presupposti concreti che ben difficilmente sarà possibile accertare.

di Roberto Triola
già Presidente della Seconda Sezione Civile della Cassazione
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giovedì 18 maggio 2017

Il reato (proprio) di disturbo della quiete domestica

Tra i banchi dell’università, nell’àmbito delle prime lezioni di diritto penale, si insegnava che l’autore, o soggetto attivo del reato, è colui che realizza il fatto tipico: in quest’ottica, la maggior parte dei reati possono essere commessi da chiunque (c.d. reati comuni), mentre altri reati possono essere commessi solo da soggetti che posseggono determinate caratteristiche o solo da soggetti che abbiano una certa qualifica (c.d. reati propri).
Ovviamente scherzando - ma non più di tanto … - sembra che, nella convivenza “forzata” all’interno dell’edificio urbano, il condomino rivesta una posizione specifica per commettere il reato penale di disturbo della quiete domestica (impregiudicata l’integrazione dell’ipotesi civilistica dell’immissione molesta contemplata nell’art. 844 c.c.) Tale opinione risulterebbe avvalorata dalla seguente sintetica carrellata di fattispecie analizzate dalla giurisprudenza di legittimità, che registra la sovente consumazione di tale contravvenzione nel ristretto àmbito del microcosmo condominiale (sull’aspetto “animalesco”, si consenta il rinvio al commento A. CELESTE, Abbaiar di cani tra inibitorie sul versante civilistico e configurazioni di fattispecie penali, in questa Rivista, febbraio 2016, n. 201, p. 11 ss., ed alle pronunce giudiziarie ivi citate).
La panoramica deve prendere le mosse dal disposto dell’art. 659 c.p., che disciplina appunto la contravvenzione di “disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone”, e contempla due distinte ipotesi: in questa sede rileva quella prevista nella prima parte del comma 1, laddove si punisce con l’arresto fino a 3 mesi o con l’ammenda fino a euro 309,00, “chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone”.
In termini generali, si è affermato - anche di recente - per un verso, che la responsabilità per la fattispecie de qua non implica, attesa la natura di “reato di pericolo presunto” e non di danno, la prova dell’effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente “l’idoneità della condotta a disturbarne un numero indeterminato di persone” - v., tra le altre, Cass. pen. 24 gennaio 2012 n. 7748; Cass. pen. 21 ottobre 1996 n. 12984; Cass. pen. 9 dicembre 1999 n. 1394; Cass. pen. 8 ottobre 2004 n. 40393 - e per altro verso, che ’attitudine dei rumori a disturbare il riposo delle persone non va necessariamente accertata mediante consulenza tecnica, sicché il giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità (v., per tutte, Cass. pen. 5 febbraio 2015 n. 11031).
Si è, inoltre, puntualizzato (v. Cass. pen. 24 giugno 2014 n. 8351) che la contravvenzione di cui all’art. 659, comma 1, c.p. è reato “solo eventualmente permanente”, che si può consumare anche con un’unica condotta rumorosa o di schiamazzo recante, in determinate circostanze, un effettivo disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone, in quanto non è necessaria la prova che il rumore abbia concretamente molestato una platea più diffusa di persone, essendo sufficiente l’idoneità del fatto a disturbare un numero indeterminato di individui.
Rimane fermo che i rumori, gli schiamazzi e gli strepiti, per costituire l’elemento materiale della contravvenzione ex art. 659 c.p., devono avere una certa “potenzialità diffusa” per modo che l’evento del disturbo possa essere risentito da un numero indeterminato di persone.
In quest’ordine di concetti - venendo più da vicino alla realtà condominiale - è cronaca di questi giorni la conferma, da parte di Cass. pen. 16 novembre 2016 n. 48315, della sentenza che aveva condannato una condomina al pagamento di euro 100,00 di ammenda, oltre al risarcimento dei danni alle parti civili costituite, per il reato di cui all’art. 659 c.p. correlato all’attività eccessivamente rumorosa messa in atto durante … le pulizie quotidiane dell’appartamento.
La suddetta condomina era insorta contro la decisione del giudice di merito, prospettando, in primo luogo, il vizio di illogicità/contraddittorietà/ mancanza di motivazione sull’affermazione della sua responsabilità penale, argomentando che tale giudice l’aveva ritenuta provata, ponendo a fondamento della statuizione di condanna esclusivamente la denuncia presentata dalle persone offese, e ritenendo integrata la condotta medesima senza valutare il contributo offerto dai testimoni della difesa, ritenuti inconferenti; la motivazione della gravata sentenza sarebbe stata, poi, incompleta/priva di struttura logica, in quanto il giudice a quo si era limitato a fare proprio il racconto delle persone offese, senza argomentare l’attendibilità di costoro.
Inoltre, la ricorrente aveva denunciato la violazione dell’art. 659 c.p., sul rilievo che il giudice di merito aveva omesso di valutare se i rumori emessi dalla condomina fossero tali da disturbare la quiete pubblica, limitandosi a ritenere che le urla della signora avevano arrecato disturbo unicamente ai vicini denuncianti; motivazione, quest’ultima, in contrasto con gli arresti della giurisprudenza i quali richiedevano che, per configurare il reato di disturbo al riposo e alla quiete delle persone, era necessario che le emissioni sonore moleste fossero idonee ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone, in presenza di un luogo abitato.
Infine, si era lamentata la mancata applicazione della causa speciale di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., giustificata perché, nella specie, dovevano ravvisarsi elementi per escludere la particolare tenuità del fatto, attesa anche la non abitualità del comportamento e lo stato di incensuratezza dell’imputata.
I giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto tali doglianze non meritevoli di accoglimento, esplicitando concetti esportabili in altre situazioni endo-condominiali.
Innanzitutto, è stata considerata manifestatamente infondata la prima censura, con cui la ricorrente aveva dedotto l’illogicità della motivazione in ordine all’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all’art. 659 c.p.
Invero, la sentenza impugnata poggiava su una motivazione tutt’altro che illogica e/o carente, avendo il giudice del merito fondato il proprio convincimento sul contenuto delle querele delle parti civili, oltre che dall’annotazione di servizio della polizia giudiziaria - acquisite su accordo delle parti ex art. 493 c.p.p. e, dunque, utilizzabili quali prove - di cui aveva dato ampio rilievo. Quanto al contenuto, da questi elementi probatori emergeva che la condomina era solita iniziare le faccende domestiche in prima mattina, “mettendo la radio a volume altissimo e urlando con la figlia”, e, con i suoi inurbani comportamenti, impediva il riposo delle persone in zona altamente popolata, rendendo oltremodo difficile così ai vicini di svolgere qualsiasi attività della vita quotidiana.
Il giudice aveva, altresì, rilevato che la pacifica ed ammessa circostanza che non vi fossero rapporti di buon vicinato tra la suddetta condomina ed i denuncianti, con i quali vi erano liti, scambi di insulti - vicini che, a dire della ricorrente, tentavano in tutti i modi “di farle cambiare casa” - non influiva sulla veridicità del racconto, che non era scalfito dalle deposizioni dei testi della difesa che l’avevano descritta come una persona “calma”; in proposito, si era messo in evidenza, al fine di confutare l’affermazione dei testi della difesa, secondo cui la condomina “non dava fastidio a nessuno”, i precedenti per fatti analoghi. Parimenti manifestamente infondata risultava anche la seconda censura, con cui la ricorrente criticava la sentenza in ordine alla prova del reato di cui all’art. 659 c.p.
Al riguardo, si è ricordato che in tale norma, e precisamente nell’ipotesi prevista dal comma 1 - contestata alla ricorrente - occorre l’accertamento in concreto del disturbo del riposo della quiete di un numero indeterminato di persone, nella specie sussistente perché la condomina, appunto iniziando le faccende domestiche sin dalle sei del mattino, accompagnate da condotte inurbane (accensione della radio ad alto volume e litigi con la figlia) in zona altamente popolata, aveva impedito lo svolgimento delle normali occupazioni da parte dei vicini.
Alla stessa sorte non si sottraeva anche l’ultimo motivo di ricorso, con il quale si era censurata la sentenza per non aver applicato la speciale causa della “particolare tenuità del fatto” ex art. 131-bis c.p., a fronte di una pena esigua di euro 100 di ammenda a cui era stata condannata la ricorrente. Invero, tale speciale causa di non punibilità é applicabile, ai sensi del comma 1, ai soli reati per i quali sia prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, oppure la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta. La rispondenza ai limiti di pena rappresenta, però, solo la prima delle condizioni per l’esclusione della punibilità, poiché la norma richiede, congiuntamente e non alternativamente - come si desume dal tenore letterale dell’articolo - la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento.
Nello specifico, il primo requisito - particolare tenuità dell’offesa - si articola, a sua volta, in due “indici-requisiti”, che sono, da un lato, la modalità della condotta e, dall’altro, l’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p. (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità dell’azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, intensità del dolo o grado della colpa); pertanto, spetta al giudice rilevare se, sulla base dei due suddetti “indici-requisiti”, valutati secondo i criteri direttivi di cui all’art. 133, comma 1, c.p., sussista la particolare tenuità dell’offesa e, poi, che con questo indice, coesista quello della non abitualità del comportamento, in quanto solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità.
Riguardo alla non abitualità, il comma 3 definisce il comportamento abituale nell’ipotesi in cui l’autore del reato sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, oppure abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché qualora trattasi di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Tanto premesso, gli ermellini hanno osservato che, nel caso in esame, trattandosi del reato di cui all’art. 659 c.p., non risultavano superati i limiti di pena, ma, quanto alla verifica degli ulteriori requisiti, la sentenza impugnata ha evidenziato elementi ostativi ad un giudizio di astratta applicabilità dell’art. 131-bis c.p. individuati nella reiterazione della condotta e, in definitiva, nella sua abitualità (“continui, reiterati e inurbani comportamenti ...”), difettando, dunque, il requisito della non abitualità del comportamento. Ed a proposito di quest’ultima condizione, si è rammentato che il concetto di non abitualità del comportamento, che consente l’applicazione della causa di non punibilità, trova specifico aggancio nella relazione illustrativa del d.lgs. n. 28/2015; atteso che il ricorso all’espressione “non abitualità del comportamento” è il risultato della scrupolosa osservanza della legge-delega da parte del legislatore delegato e si pone su un piano diverso rispetto alla “occasionalità” utilizzata dal d.p.r. n. 448/1988 e dal d.lgs. n. 274/2000, si è poi evidenziato che tale comma, aggiunto su sollecitazione espressa nel parere della Commissione giustizia della Camera, descriverebbe solo alcune ipotesi in cui il comportamento non può essere considerato non abituale, ampliando quindi il concetto di “abitualità”, entro cui potranno collocarsi altre condotte ostative alla declaratoria di non punibilità. Ciò posto, con riguardo al caso in scrutinio, il massimo consesso decidente ha sottolineato che la non abitualità del comportamento della condomina è stata implicitamente esclusa, dal giudice del merito, proprio in ragione della accertata condotta “continuata e reiterata”.
I contorni della fattispecie penale di cui all’art. 659 c.p. nell’àmbito condominiale sono stati perimetrati anche in altre pronunce del Supremo Collegio.
Nel caso concreto deciso da Cass. pen. 13 novembre 2013 n. 45616, era stata impugnata una sentenza che aveva dichiarato un condomino colpevole di tale reato, per avere tollerato che, nel suo locale, venissero prodotti rumori, attraverso l’impianto di amplificazione della musica installato nel cortile esterno, che superavano il normale limite di tollerabilità all’interno dell’abitazione di un altro condomino, anche a finestre chiuse del suo appartamento, con evidenti disagi alla vita quotidiana.
Avverso tale decisione, aveva proposto ricorso il proprietario del locale, sostenendo che il reato de quo non sussisteva, poiché le emissioni sonore non erano superiori alla normale tollerabilità, in quanto non erano state percepite da un numero indeterminato di persone, posto che solo il denunciante se ne era lamentato, laddove, invece, i rumori avrebbero dovuto recare disturbo ad una parte notevole degli occupanti del medesimo edificio, oppure a quelli degli stabili prossimi, per potersi ritenere disturbata o compromessa la quiete pubblica.
Il ricorso è stato considerato fondato e, quindi, accolto dai magistrati del Palazzaccio.
In proposito, si è evidenziato che la condotta illecita dell’imputato era stata circoscritta ad un determinato giorno, in cui il solo condomino denunciante aveva avuto motivo di doglianza, tanto da aver richiesto l’intervento dei carabinieri alle ore 23.30, che avevano accertato la diffusione di musica ad alto volume, che era stata interrotta dopo il loro arrivo.
Stando così le cose, si è ricordato che, per poter configurare la contravvenzione di cui all’art. 659 c.p. - secondo l’ormai costante indirizzo giurisprudenziale (v. Cass. pen. 20 maggio 1994 n. 7753; Cass. pen. 29 novembre 2011 n. 47298; Cass. pen. 5 febbraio 2013 n. 6546) - è necessario che i rumori prodotti, oltre ad essere superiori alla normale tollerabilità, abbiano “attitudine a propagarsi in modo tale da essere idonei a disturbare una pluralità indeterminata di persone”; tale modus opinandi si impone considerando la natura del bene giuridico protetto, che è da individuare nella quiete pubblica e non nella tranquillità di singoli soggetti che abbiano a denunciare la rumorosità.
Ne consegue che, se l’attività di disturbo ha luogo in un edificio condominiale - come nel caso in esame - per ravvisare la responsabilità penale del soggetto agente non è sufficiente che i rumori arrechino disturbo o siano idonei a turbare la quiete e le occupazioni dei soli abitanti gli appartamenti inferiori o superiori rispetto alla fonte di propagazione, ma occorre una situazione fattuale di rumori atti a recare disturbo ad una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio, poiché solo in questo caso può ritenersi integrata la compromissione della quiete pubblica.
Del resto, qualora i rumori assumano una portata più circoscritta - come nel caso di specie in cui un solo vicino si era lamentato del disturbo - le ragioni della persona o delle persone disturbata potevano essere fatte valere in sede civile, azionando i diritti derivanti dai rapporti di vicinato. Tali principi erano stati affermati anche da Cass. pen. 5 febbraio 1998 n. 1406, ad avviso della quale, in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, i rumori e gli schiamazzi vietati, per essere penalmente sanzionabile la condotta che li produce, debbono incidere sulla tranquillità pubblica - essendo l’interesse specificamente tutelato dal legislatore quello della pubblica tranquillità sotto l’aspetto della pubblica quiete, la quale implica, di per sè, l’assenza di cause di disturbo per la generalità dei consociati - di guisa che gli stessi devono avere tale “potenzialità diffusa”, nel senso che l’evento di disturbo abbia la potenzialità di essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se, poi, in concreto soltanto alcune persone se ne possano lamentare.
Ne consegue che la contravvenzione in esame non sussiste allorquando i rumori arrechino disturbo ai soli occupanti di un appartamento, all’interno del quale sono percepiti, e non ad altri soggetti abitanti nel condominio in cui è inserita detta abitazione o nelle zone circostanti: infatti, in tale ipotesi non si produce “il disturbo, effettivo o potenziale, della tranquillità di un numero indeterminato di soggetti”, ma soltanto di quella di definite persone, sicché un fatto del genere può costituire, se del caso, illecito civile, come tale fonte di risarcimento di danno, ma giammai assurgere a violazione penalmente sanzionabile.
Al contempo, però, si è statuito che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 659 c.p., la potenzialità lesiva dei rumori non deve incidere su di un numero rilevante di persone, ma è sufficiente che arrechi “disturbo alla generalità di coloro che sono o si trovano a diretto contatto con il luogo ove i rumori si verificano”, come gli occupanti di tutto un condominio o di parte notevole dello stesso (v. Cass. pen. 23 settembre 1986 n. 9726).
In quest’ottica, si è ritenuta integrata la contravvenzione di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone nell’organizzazione di feste e cerimonie all’interno dello scantinato di un edificio condominiale che si protraevano per ore con schiamazzi, rumori e abuso di strumenti sonori, idonei a diffondersi all’interno ed all’esterno dello stabile con pregiudizio della tranquillità di un numero indeterminato di persone (v. Cass. pen. 17 maggio 2010 n. 18517: nella specie, il frastuono determinato dalle feste, che avevano frequenza bisettimanale, era tale da far vibrare le strutture murarie del fabbricato e da impedire di tenere conversazioni normali o di ascoltare la televisione negli altri appartamenti di esso).
Non sempre il soggetto che subisce le immissioni rumorose moleste mantiene, però, la calma.
In un caso concreto, deciso da Cass. pen. 14 maggio 2002 n. 27625, si è (per fortuna) esclusa la sussistenza del reato nella condotta di un imputato, al quale era stato contestato di aver reiteratamente recato disturbo al gestore ed ai frequentatori di un bar, mediante una “serie ripetute di forti colpi sul pavimento della propria abitazione”, sovrastante il predetto esercizio pubblico, nelle ore di massima frequentazione dello stesso. Invero, perché sussista la contravvenzione di cui all’art. 659, comma 1, c.p., occorre la prova della “diffusività” del rumore, da valutarsi con riferimento all’àmbito spaziale di propagazione delle emissioni sonore, prescindendo dal novero delle persone occasionalmente o potenzialmente presenti nel luogo interessato dalle emissioni stesse; pertanto, ove detto luogo risulti circoscritto ad una singola unità di un complesso condominiale, senza attitudine ad ulteriore propagazione verso altre unità abitative dello stesso condominio o verso ambiti ad esso esterni, deve ritenersi irrilevante il numero dei soggetti contingentemente convenuti in detto luogo e disturbati dalla condotta del soggetto agente.

di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione
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mercoledì 29 marzo 2017

Piogge e allagamenti in condominio, per la Corte di Cassazione non è mai colpa del caso

Alberi sradicati, tegole divelte, allagamenti nei locali condominiali: anche gli amministratori di condominio fanno la conta dei danni causati dai forti temporali a carattere tropicale che continuano ad abbattersi sulla nostra provincia. Fenomeni atmosferici che fanno sorgere una lecita domanda: «Di chi è la responsabilità?».

A fare chiarezza in merito è la Corte di Cassazione, sez. III Civile, che nella sentenza n. 5877/2016 chiarisce che «la pioggia intensa e persistente, tale da assumere il carattere di eccezionale intensità, non può costituire un evento rientrante nel caso fortuito o nella forza maggiore specie in epoche, come quella attuale, in cui i dissesti idrogeologici richiedono maggior rigore».

La Corte si è dovuta esprimere nei mesi scorsi in merito a un ricorso promosso da una società nei confronti del condominio (i cui locali erano da essa condotti in locazione), insieme al Comune e a due compagnie assicuratrici per chiedere la condanna al risarcimento dei danni subiti in seguito all’allagamento verificatosi nei summenzionati locali in occasione di un forte temporale, sia per esondazione di un vicino sottopasso, sia per precipitazioni raccolte da un tubo pluviale del condominio.

La Corte ha affermato che è certamente vero «che una pioggia di eccezionale intensità può anche costituire caso fortuito in relazione ad eventi di danno come quello in questione; ma non è affatto vero che una siffatta pioggia costituisca sempre e comunque un caso fortuito». Si sarebbe dovuto dimostrare, hanno proseguito i giudici, «che le piogge in questione erano state da sole causa sufficiente dei danni nonostante la più scrupolosa manutenzione e pulizia da parte sua delle opere di smaltimento delle acque piovane; il che equivale in sostanza a dimostrare che le piogge in questione erano state così intense (e quindi così eccezionali) che gli allagamenti si sarebbero verificati nella stessa misura pure essendovi stata detta scrupolosa manutenzione e pulizia».

Per la Cassazione, quindi, si può invocare il caso fortuito solo se il fattore estraneo abbia intensità tale da interrompere il nesso di causalità tra la cosa e l’evento lesivo, così che possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento dannoso. Il comportamento concludente della compagnia assicurativa che corrisponde un indennizzo, sia pur «per spirito conciliativo», può costituire sostanziale riconoscimento dell’operatività della garanzia.

«La Corte nella sentenza prende atto del cambiamento climatico di questi ultimi anni e, sia pure ritenendo possibile in astratto che un evento atmosferico eccezionale possa essere qualificato come il caso fortuito previsto dall’articolo 2051 del codice civile, ritiene che la frequenza sempre maggiore di eventi atmosferici che provocano danni renda più difficile qualificarli come eventi imprevedibili inquadrandoli così nel caso fortuito.

Se gli eventi dannosi si ripetono con maggiore frequenza, tanto da non potersi più considerare come eccezionali, fortuiti e imprevedibili non si può pertanto escludere una responsabilità da parte del custode che, conoscendo la possibilità che l’evento si verifichi deve porre in essere tutte le adeguate precauzioni possibili».
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martedì 7 marzo 2017

RESPONSABILITA' PER INFILTRAZIONI DA LASTRICO SOLARE

La nuova definizione della responsabilità per le infiltrazioni dal lastrico solare in uso esclusivo

CONSEGUENZE ESPLICITE ED IMPLICITE 

I danni da infiltrazioni provenienti dal lastrico solare (o terrazza di copertura) in uso esclusivo di un condomino costituiscono, come noto, frequente occasione di contenzioso in quanto viene in questione il ripristino della funzionalità di una porzione complessa sulla quale concorrono il diritto di godimento del condomino usuario e la funzione di copertura nell'interesse dell'intero edificio (o, comunque, di un'autonoma articolazione del fabbricato).
Nel maggio del 2016 le Sezioni Unite della Cassazione hanno definitivamente sottratto la responsabllità per i danni derivanti da tale porzione all'ambito delle obbligazioni reali o propter rem per ricondurla nell'orbita della responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'art.2051 c.c. o dell'art.2043 c.c., sancendo, al contempo, il concorso di responsabilità tra usuario esclusivo del lastrico solare e condominio (Cass. sez. un. 10 maggio 2016 n. 9449): il principio di diritto è, infatti, che qualora l'uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario o l'usuario esclusivo, ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia il condominio, in forza degli obblighi ex artt. 1130, comma 1, n. 4, e 1135, comma 1, n. 4, c.c., il cui concorso va risolto, in mancanza della prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all'art. 1126 c.c..
Il richiamo a tale articolo, invero, ai fini della ripartizione del risarcimento tra usuario esclusivo e condominio - un terzo all'uno e due terzi all'altro - potrebbe far credere che gli effetti pratici, al di la della qualificazione giuridica della responsabilità, non più contrattuale ma aquiliana, siano rimasti sostanzialmente identici rispetto al pregresso orientamento, laddove si applicava l'art.1126 c.c. per la suddivisione sia delle spese di ripristino della copertura sia del risarcimento dei danni arrecati all'unità immobiliare sottostante. Ma sarebbe un'impressione fuorviante, perchè l'affermata natura extracontrattuale della responsabilità - sia dell'usuario che del condominio - implica notevoli conseguenze non solo nelle architetture dei giuristi ma anche sul piano operativo.
Talune implicazioni sono state rese esplicite nella stessa motivazione della sentenza della Cassazione, ove si è evidenziato, innanzitutto, che si applica il regime di prescrizione proprio della responsabilità aquiliana e, quindi, il diritto al risarcimento si prescrive con il decorso non più dei dieci anni previsti dall'art.2946 c.c. ma dei cinque anni ai sensi dell'art.2947 c.c., una tutela del credito, quindi, al riguardo meno estesa, anche se, in concreto, ancora adeguata in ragione del notevole lasso di tempo comunque consentito per reagire alle patite infiltrazioni.
Più insidiosa è, invece, l'altra conseguenza, pure evidenziata dalla Suprema Corte, inerente alla individuazione del soggetto obbligato al risarcimento nel caso in cui la proprietà del lastrico solare (o della terrazza di copertura) si trasferisca ad altri dopo la verificazione delle infiltrazioni: una volta rinnegata, infatti, la configurazione della responsabilità come derivante da inadempienza ad una obbligazione reale o propter rem, deve riconoscersi il fondamento personale - non reale - dell'obbligazione risarcitoria, la quale, pertanto, non si trasferisce ex lege con la proprietà del lastrico solare ma resta a carico di colui che era condomino all'epoca della maturazione del fatto illecito dannoso.
Tale implicazione completa, in effetti, l'altro principio di diritto, parimenti formulato dalla Cassazione a Sezioni Unite pochi mesi prima (Cass. sez. un. 16 febbraio 2016 n. 2951), ove si è affermato che il diritto al risarcimento dei danni cagionati ad un bene non costituisce un accessorio del diritto di proprietà ma è un diritto di credito, distinto ed autonomo rispetto al diritto reale, sicchè, in caso di alienazione del bene, non si trasferisce insieme al diritto reale, come accadrebbe se fosse un elemento accessorio, anche se è suscettibile di specifica cessione specificamente pattuita. In sostanza, quindi, i soggetti creditori e debitori del risarcimento restano, almeno ex lege e salvo patto contrario, definitivamente individuati al momento della verificazione del danno. Non è, invece, incisa la qualificazione della contribuzione alla gestione dei beni e servizi comuni come obbligazione (questa si) propter rem, commisurata al valore relativo della proprietà esclusiva ovvero alla peculiare utilità ricavata da ciascuna unità immobiliare (art. 1123, I e II c., c.c.): tale obbligazione si trasferisce, del resto, ex lege al nuovo acquirente della porzione immobiliare sia pure nei limiti del biennio previsto dall'art.63, IV c., disp. att. c.c..
Ulteriore implicazione della natura extracontrattuale della responsabilità per danni al locale sottostante il piano di copertura in uso esclusivo è il regime di solidarietà che contrassegna l'obbligo risarcitorio a carico del condominio: a ciascuno dei partecipanti può, quindi, essere richiesto il pagamento dell'intera somma accollata al condominio, entro i limiti, naturalmente, della quota dei due terzi prevista dall'art.1126 c.c., con eventuale diritto di regresso nei confronti degli altri condomini. Mentre, quindi, l'obbligazione contributiva resta parziaria, almeno secondo l'ultima sistemazione nomofilattica operata dalla Cassazione (Cass. sez. un. 8 aprile 2008, n. 9148), nel senso che ogni condomino può essere chiamato ad adempiere alle obbligazioni assunte dall'amministratore nei confronti dei terzi solo nei limiti della rispettiva quota propter rem (art. 1123, I e II c., c.c., in disparte l'impatto della responsabilità sussidiaria ex art. 63, II c., disp. att. c.c.), l'obbligazione risarcitoria è, invece, caratterizzata dal vincolo di solidarietà tra coloro che hanno concorso alla verificazione del fatto illecito dannoso ai sensi dell'art.2055 c.c.. Per giustificare tale regime obiettivamente penalizzante per ogni condomino viene, in particolare, condiviso un passo motivazionale di un'altra recente sentenza (Cass., II, 29 gennaio 2015, n. 1674, ove si evidenzia che la custodia dei beni comuni, ai fini della responsabilità ex art. 2051 c.c., è configurabile come onere a carico di ciascuno dei condomini e non del condominio, quale mero ente di gestione né dell'amministratore, quale mero mandatario dei condomini stessi.
La Cassazione non precisa, invero, l'ambito soggettivo del condominio gravato dall'obbligo risarcitorio per la quota di due terzi ex art. 1126 c.c., se cioè sia esteso a tutti i partecipanti, in quanto comproprietari della "struttura" del lastrico solare oppure sia circoscritto ai condomini ulteriori rispetto al proprietario esclusivo della copertura, già gravato della quota di un terzo del risarcimento. 
E' da ritenere che sia stata implicitamente adottata tale seconda soluzione, in quanto conforme alla consolidata interpretazione del criterio di riparto di cui all'art. 1126 c.c., specificamente richiamato proprio per regolare il concorso tra usuario esclusivo e condominio (si possono, al riguardo, citare Cass., II, 15 Iuglio 2003, n. 11029, Cass., II, 9 novembre 2001, n. 13858): si deve, quindi, a tal riguardo intendere per "condominio" l'insieme dei proprietari delle unità immobiliari nei confronti delle quali il lastrico solare (o la terrazza) svolge funzione di copertura, con l'eventualità della c.d. doppia contribuzione ove tra tali porzioni sia compresa anche una appartenente al condomino già titolare dell'uso esclusivo della copertura (per un caso di unite immobiliare su due livelli, Cess. II, 23 gennaio 2014, n. 1451).
Altro aspetto problematico non espressamente affrontato dalla Cassazione, con la richiamata pronuncia a Sezioni Unite, e quello relativo all'incidenza del natura del vizio della copertura che ha dato origine alle infiltrazioni al piano sottostante, essendo al riguardo la giurisprudenza di legittimità risultata piuttosto oscillante. Secondo un indirizzo, infatti, il condominio risponde dei danni che siano derivati al singolo condomino o a terzi per difetto di manutenzione del lastrico solare anche nell'ipotesi in cui i necessari interventi riparatori o ricostruttivi non consistano in un mero ripristino delle strutture preesistenti, ma esigano una specifica modifica od integrazione in conseguenza di vizi o carenze costruttive originari (Cass., III, 8 novembre 2007, n. 23308, Cass., II, 28 novembre 2001, n. 15131), altro orientamento ritiene, invece, che l'art.1126 c.c. trovi applicazione alle sole riparazioni dovute a vetustà e non a quelle riconducibili a difetti originari di progettazione o di esecuzione dell'opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario, sicchè, in tale ultima ipotesi, ove trattasi di difetti suscettibili di recare danno a terzi, la responsabilità relativa, sia in ordine alla mancata eliminazione delle cause del danno che al risarcimento, fa carico in via esclusiva al proprietario del lastrico solare, ex art. 2051 c.c., e non anche, sia pure in via concorrenziale, al condominio (Cass., II, 30 aprile 2013, n. 10195, Cass., II, 6 febbraio 2013, n. 2840).
E' da ritenere, tuttavia, che la definitiva riconduzione della fattispecie nell'ambito della concorrente responsabilità extracontrattuale, dell'usuario esclusivo e del condominio, implichi il superamento della rilevanza di ogni distinzione soggettiva fondata sulla natura del vizio della copertura - secondo che imputabile a difetto di conservazione o ad un originario vizio costruttivo - venendo, comunque, in questione un bene complesso sul quale sempre concorrono distinte posizioni soggettive attive rispettivamente sulla parte superficiale e su quella strutturale - e dal quale, correlativamente, discendono distinte responsabilità.
Altro indirizzo giurisprudenziale che puòb ritenersi superato è, infine, quello secondo cui la domanda volta alla eliminazione dei danni derivati dal lastrico solare in uso esclusivo era da proporsi nei confronti del solo condominio, in persona dell'amministratore, quale rappresentante di tutti i condomini obbligati, e non già del proprietario o titolare dell'uso esclusivo del lastrico, il quale poteva essere chiamato in giudizio a titolo personale soltanto ove avesse frapposto impedimenti all'esecuzione dei lavori di ripristino, non anche al fine di sentirsi dichiarare tenuto all'esecuzione diretta dei lavori medesimi (Cass., II, 4 gennaio 2010, n. 20, Cass., II, 21 febbraio 2006, n. 3676).
Nella nuova sistemazione della fattispecie, infatti, il titolare dell'uso esclusivo della copertura è responsabile direttamente nei confronti del danneggiato dalle infiltrazioni sia pure nei limiti di un terzo - e, quindi, è senz'altro legittimato passivamente, unitamente al condominio, nel giudizio volto ad ottenere il risarcimento del danno, per equivalente od in forma specifica.
E' da ritenere, invece, che sussista la legittimazione passiva del solo condominio, unitariamente considerato, laddove sia chiesto in giudizio soltanto il ripristino della copertura costituita dal lastrico solare o della terrazza in uso esclusivo, vale a dire la manutenzione della "struttura" quale bene comune in adempimento degli obblighi di cui agli artt. 1130, I c., n. 4 e 1135, I c., n. 4, c.c e non l'eliminazione dei danni patiti dall'unita immobiliare sottostante, resta, poi, integra l'eventuale esclusiva legittimazione passiva dell'autore della specifica condotta colposa o dolosa - un condomino od un terzo - integrante un fatto illecito da sanzionare ai sensi dell'art. 2043 c.c.

di Franco Petrolati
Consigliere Corte di Appello di Roma
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lunedì 27 febbraio 2017

LASTRICO SOLARE: danni da omessa manutenzione - CASSAZIONE 23 SETTEMBRE 2016, N. 18759

In tema di condominio negli edifici, dei danni derivanti dall'omessa manutenzione del lastrico solare (o della terrazza a livello), che non sia comune a tutti i condomini, rispondono sia il proprietario o l'usuario esclusivo, quale custode del bene, ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia il condominio, in forza degli obblighi inerenti l'adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni, ex artt. 1130, comma 1, n. 4 e 1135, comma 1, n. 4, c.c., ed il concorso di tali responsabilità va risolto, di regola, secondo i criteri di cui all'art. 1126 c.c., salva la rigorosa prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione che, a seguito del crollo di una terrazza di uso esclusivo, aveva ripartito le conseguenti spese di riparazione senza valutare l'ascrivibilità, o meno, delle cause dell'evento, determinato dalla corrosione delle strutture portanti in ferro per assenza di manutenzione del pavimento, alla responsabilità esclusiva dell'usuario).


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CASSAZIONE 23 SETTEMBRE 2016, N. 18759




Presidente Bianchini – Relatore Cosentino

Svolgimento del processo

La società M.G. s.r.l. otteneva un decreto ingiuntivo nei confronti della sig.ra S.E. per il pagamento della somma di lire 3.522.794, portata dalla fattura n. (omissis) e relativa al pagamento, pro quota, di spese che l’opposta assumeva di avere sostenuto per la manutenzione ordinaria e straordinaria di parti ed impianti comuni compresi nel cosiddetto “Condominio (omissis) “, un complesso immobiliare sito in località (omissis) , al cui interno la stessa M.G. s.r.l. esercitava un’attività alberghiera. La sig.ra S. proponeva opposizione, che il Giudice di pace di Alghero rigettava con sentenza confermata dal Tribunale di Sassari. Quanto al primo motivo di gravame, con cui l’appellante contestava l’applicabilità, nella specie, della disciplina di cui all’art. 1110 c.c. in tema di comunione, anziché la diversa e più rigorosa normativa in materia di condominio, ai sensi dell’art. 1134 cod. civ., il Tribunale ha rilevato: – che il rimborso delle spese per la conservazione o manutenzione delle parti comuni, anticipate dalla società appellata, va in effetti regolato ai sensi dell’art. 1134 cod. civ.; – che il richiamo all’art. 1134 cod. civ. (anziché all’art. 1110 cod. civ., come ritenuto dal primo giudice) non è tuttavia dirimente, giacché nella specie, e con riferimento all’epoca (anno 2000) in cui erano state sostenute le spese in questione da parte di M.G., di fatto non era mai stata riunita un’assemblea condominiale né mai si era provveduto alla nomina di un amministratore delle parti comuni e, comunque, nessuna decisione era stata, di fatto, presa o attuata sul punto; – che in considerazione della situazione di fatto in cui si trovava, nel periodo in oggetto, il complesso ricettivo in questione, era configurabile l’urgenza richiesta dall’art. 1134 cod. civ., intesa quale necessità di eseguire senza alcun ritardo le opere necessarie alla manutenzione e conservazione delle parti comuni; – che gli interventi posti in essere dalla M.G. si inserivano in una situazione non solo di diffusa inerzia da parte di tutti gli altri titolari di immobili compresi nel complesso ma anche di evidente estrema difficoltà, in difetto di alcuna iniziativa da parte di un’amministrazione condominiale a ciò deputata, di procurarsi tempestivamente il consenso e la necessaria cooperazione degli altri condomini, assai numerosi e per lo più residenti fuori della Sardegna; – che l’inerzia dei condomini era risultava confermata dalle allegazioni della stessa appellante, che più volte aveva rimarcato che le unità immobiliari (sottoposte a sequestro dall’autorità giudiziaria per l’illecito mutamento della loro destinazione da turistica a residenziale) non venivano utilizzate dai rispettivi proprietari. Il Tribunale ha inoltre dichiarato inammissibili ex art. 345 c.p.c. – perché non sollevate nel corso del giudizio di primo grado – le contestazioni mosse dalla S. sia con riguardo alla ripartizione della spesa fra i condomini, con particolare riferimento alla corretta individuazione della quota millesimale a lei attribuita), sia con riguardo alla debenza della somma addebitata a titolo di IVA. Il giudice di secondo grado ha poi giudicato generico il motivo di appello attinente alla dimostrazione dell’entità delle spese anticipate (tanto più che l’appellata M.G. aveva dato la prova dell’entità delle spese anticipate e della loro attinenza alle parti comuni attraverso la produzione di fatture e ricevute di pagamento, oltre che con prove testimoniali), ed ha ritenuto infondate le doglianze con cui l’appellante lamentava che la M.G. srl aveva ceduto ad un tour operator, la società “(OMISSIS) “, i diritti inerenti alle parti comuni e aveva limitato il godimento delle parti comuni da parte degli altri condomini per avere, essa sola, ottenuto la licenza amministrativa necessaria all’esercizio di attività alberghiera. Infine, il Tribunale ha dichiarato inammissibili le istanze istruttorie proposte dall’appellante. Per la cassazione della sentenza del Tribunale la sig.ra B.R.J. (erede della sig.ra S. , deceduta in pendenza del giudizio di appello) ha proposto ricorso sulla base di sei motivi; poiché, nella pendenza del termine per l’impugnazione, la M.G. srl è stata dichiarata fallita con la sentenza del Tribunale di Sassari il 27.9.11, il ricorso per cassazione è stato notificato al Curatore fallimentare, il quale non si è costituto in questa sede. Con relazione ex art. 380 bis c.p.c. del 22.3.2013 la causa veniva rimessa alla trattazione in camera di consiglio, con la proposta di declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione perché tardivamente proposto. Nella relazione si evidenziava che il ricorso per cassazione era stato notificato dopo il decorso del termine di cui all’articolo 327 c.p.c.. Né, secondo tale relazione, poteva condividersi l’assunto della ricorrente secondo cui nella specie, ai sensi dell’articolo 328 c.p.c, il termine “lungo” per l’impugnazione sarebbe stato prorogato di sei mesi dal giorno del fallimento dell’intimata, intervenuto dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza gravata. Ciò in quanto l’articolo 299 c.p.c, a cui fa richiamo l’articolo 328 c.p.c., non sarebbe applicabile nel giudizio di legittimità, dominato dall’impulso ufficioso, cosicché gli eventi S. interruttivi non potrebbero spiegare effetto nemmeno ai fini della interruzione del termine per il ricorso per cassazione. Il ricorso veniva discussa nell’adunanza di camera di consiglio del 23.10.13, per la quale la ricorrente depositava memoria illustrativa e, all’esito, il Collegio, non ravvisando la sussistenza dei presupposti per la definizione camerale, rinviava alla pubblica udienza. Il ricorso è quindi stato discusso nuovamente alla pubblica udienza del 14.6.16, per la quale la ricorrente ha depositato una ulteriore memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c. e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.
Motivi della decisione

Preliminarmente va dichiarata la tempestività del ricorso. Al riguardo il Collegio rileva, in linea di fatto, che: la sentenza del tribunale di Sassari è stata depositata il 7.12.10; il ricorso è stato notificato, nelle forme di cui alla legge n. 53/94, con raccomandata spedita il 27.3.12, oltre il termine di cui all’articolo 327 c.p.c. ma entro il termine di sei mesi dall’apertura del fallimento (dichiarato con sentenza del Tribunale di Sassari del 27.9.11, successiva al decorso di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza gravata). In linea di diritto, il Collegio osserva che il rilievo che l’articolo 299 c.p.c. non operi dopo l’instaurazione del giudizio di cassazione non implica l’inoperatività dell’articolo 328 c.p.c., il quale riguarda l’instaurazione, non lo svolgimento, del giudizio di cassazione. D’altra parte, un risalente, ma mai smentito, precedente di questa Corte (sent. n. 717/66) ha stabilito che è ammissibile il ricorso per Cassazione che sia stato proposto dopo il sessantesimo giorno dalla notificazione della sentenza di secondo grado, se, durante la decorrenza del termine per proporre ricorso, sia intervenuto il fallimento della controparte; ciò in quanto, ai sensi dell’art. 328 c.p.c., la dichiarazione di fallimento interrompe il termine predetto ed il nuovo termine decorre dal giorno in cui la notificazione della sentenza è stata rinnovata. Poiché non vi sono ragioni per ritenere che, nel caso di fallimento della parte destinataria dell’impugnazione, l’articolo 328 c.p.c. trovi applicazione solo per il primo comma, e non anche per il terzo, deve concludersi per l’ammissibilità del ricorso. Passando all’esame dei motivi di ricorso, si osserva che la sig.ra B. svolge le seguenti doglianze. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1134 c.c. e il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Premesso che, pur essendo il complesso immobiliare (OMISSIS) un ente condominiale, le parti comuni di tale complesso, nella comproprietà pro quota millesimale di tutti i condomini, venivano di fatto utilizzate in via esclusiva da M.G., come bene aziendale nell’esercizio dell’impresa alberghiera (giacché ai condomini era inibito l’utilizzo residenziale delle proprie unità abitative), la ricorrente censura che il giudice d’appello abbia ritenuto richiedibili ai condomini le spese sostenute dalla società per il suo esclusivo godimento delle parti comuni, quali le spese di pulizia, sorveglianza, piccola manutenzione, acqua, energia elettrica. Avrebbe inoltre errato il Tribunale a ritenere sussistente il requisito dell’urgenza: siccome la spesa non era dovuta sulla base di un evento improvviso, imprevedibile e gravemente dannoso per la cosa comune, il singolo condomino (la società M.G.) non aveva facoltà di intervento diretto, bensì unicamente quella di sollecitare la convocazione dell’assemblea condominiale per l’adozione delle provvidenze e, nell’evenienza di paralisi dell’assemblea o di mancato raggiungimento dell’accordo, quella di rivolgersi all’autorità giudiziaria competente ai sensi dell’art. 1105 cod. civ.. Il giudice d’appello avrebbe, inoltre, omesso di considerare che vi era un amministratore del Condominio (OMISSIS) e che le assemblee sono sempre state indette annualmente. Infine, le pretese spese costituivano non utile gestione della cosa comune, quanto piuttosto obbligazione derivante da un contratto stipulato con un soggetto terzo verso corrispettivo, e, essendo finalizzate al mero miglioramento dell’immagine del complesso e, quindi, dell’accrescimento delle possibilità di vendita dei soggiorni nel complesso da parte de (OMISSIS) , non costituivano in ogni caso utile gestione della cosa comune, ma mera operazione privata avente natura commerciale. Con il secondo motivo (violazione degli artt. 167 e 345 c.p.c. e art. 1123 c.c.; nullità della sentenza per omesso esame di un motivo d’appello; motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio) la ricorrente lamenta che il Tribunale non abbia considerato che la contestazione in ordine alla corretta individuazione della quota millesimale a lei attribuita era già stata sollevata in primo grado. Con il terzo motivo (violazione degli artt. 167 e 345 c.p.c. e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633; motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio) si sostiene che il giudice d’appello avrebbe errato a considerare questione nuova la deduzione della non debenza della somma addebitata a titolo di IVA. Con il quarto motivo (violazione dell’art. 167 c.p.c., nonché motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio), la ricorrente censura la conclusione cui è giunto il giudice di appello là dove ha ritenuto raggiunta la dimostrazione dell’entità delle spese anticipate e della loro attinenza alle parti comuni. Con il quinto la ricorrente lamenta, sotto il profilo del vizio di motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, che non sia stato considerato che, proprio in ragione del provvedimento di concessione della licenza di esercizio esclusivamente in favore della società M.G., l’utilizzo dei beni comuni da parte di quest’ultima risultava esclusivo ed impeditivo dell’altrui pari utilizzo. Con il sesto motivo (violazione dell’art. 345 c.p.c. e vizio di motivazione) si censura la declaratoria di inammissibilità delle istanze istruttorie proposte dall’appellante. Il primo motivo va giudicato fondato, in conformità a quanto questa Corte ha già statuito, in causa perfettamente sovrapponibile alla presente, con la sentenza n. 20151/13. In ordine alla rilevanza delle spese anticipate dal singolo condomino, l’art. 1134 c.c. fissa criteri particolari, in deroga al disposto dell’art. 1110 c.c., dettato in tema di comunione, che riconosce il diritto al rimborso in favore del comunista il quale ha anticipato le spese necessarie per la cosa comune nel caso di “trascuranza degli altri partecipanti e dell’amministratore”. Nel condominio la “trascuranza” degli altri partecipanti e dell’amministratore non è sufficiente. Il condomino non può, senza interpellare gli altri condomini e l’amministratore e, quindi, senza il loro consenso, provvedere alle spese per le cose comuni, salvo che si tratti di “spese urgenti” (Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2006, n. 2046; Cass., Sez. 2, 12 ottobre 2011, n. 21015). Il divieto per i singoli condomini di eseguire di propria iniziativa opere relative alle cose comuni cessa quando si tratta di opere urgenti, per tali intendendosi quelle che, secondo il criterio del buon padre di famiglia, appaiano indifferibili allo scopo di evitare un possibile, anche se non certo, nocumento alla cosa comune (Cass., Sez. 2, 6 dicembre 1984, n. 6400; Cass., Sez. 2, 26 marzo 2001, n. 4364), l’urgenza dovendo essere commisurata alla necessità di evitare che la cosa comune arrechi a sé o a terzi o alla stabilità dell’edificio un danno ragionevolmente imminente, ovvero alla necessità di restituire alla cosa comune la sua piena ed effettiva funzionalità (Cass., Sez. 2, 19 dicembre 2011, n. 27519; Cass., Sez. 6-2, 19 marzo 2012, n. 4330). La disposizione dell’art. 1134 c.c., invero, è diretta ad impedire indebite e non strettamente indispensabili interferenze dei singoli partecipanti alla gestione del fabbricato riservata agli organi del condominio, essendo previsti dalle norme processuali strumenti alternativi (art. 1105 c.c., comma 4) al fine di ovviare alla inerzia nella adozione o nella esecuzione di provvedimenti non urgenti, ma tuttavia necessari per la conservazione ed il godimento dell’edificio (Cass., Sez. 2, 26 maggio 1993, n. 5914). Il diritto al rimborso in seguito all’attività gestoria, svolta dal singolo condomino in deroga alla competenza dell’assemblea e dell’amministratore, si giustifica, quindi, soltanto in ragione dell’urgenza delle spese (Cass., Sez. 2, 27 ottobre 1995, n. 11197; Cass., Sez. 6-2, 19 marzo 2012, n. 4330, cit.). In questo contesto, il giudizio sull’urgenza della spesa compiuto dal giudice del merito non appare congruamente motivato. Il Tribunale, innanzitutto, nel considerare che le spese effettuate muovevano dall’esigenza “di provvedere senza indugio all’adeguamento di tutti gli impianti e servizi comuni alle normative di igiene e sicurezza pubblica disciplinanti l’attività alberghiera” esercitata nel complesso condominiale in questione (cfr. pag. 7, rigo 10, della sentenza), non ha tenuto adeguatamente conto che molte delle spese sostenute dal condomino M.G. appaiono piuttosto finalizzate (si pensi alla tinteggiatura dei muri esterni e agli interventi sugli impianti tecnologici) al mero miglioramento dell’immagine del condominio (OMISSIS) e, quindi, all’accrescimento delle possibilità di vendita dei soggiorni nel complesso da parte de (OMISSIS) (come emerge dal contratto intercorso tra la s.r.l. M.G. e la società (OMISSIS) ). Inoltre, la premessa del ragionamento del giudice dell’appello (il non essersi mai provveduto, nel periodo cui si riferiscono le spese in questione, alla nomina di un amministratore delle parti comuni ed il non essere mai stata presa o attuata alcuna decisione sul punto, cfr. pag. 6, penultimo cpv, della sentenza) appare contraddetta, per un verso, dalla sentenza di questa Corte 5 febbraio 2007, n. 2478, che ha definito il giudizio in cui la società M.G. s.r.l. aveva impugnato la deliberazione dell’assemblea condominiale del condominio (OMISSIS) del 24 aprile 1999, nel cui giudizio si era costituito l’amministratore del condominio, proponendo appello e poi ricorso per cassazione in via incidentale; per l’altro verso, dalle fatture in atti, relative proprio all’anno 2000, concernenti l’esecuzione di opere (abbattimento di alberi; rifacimento di una veranda) relative al condominio. La sentenza del Tribunale, pertanto, non reca una motivazione adeguata sul fatto che la spesa sia stata affrontata dalla condomina società M.G. per conservare la cosa comune e in una situazione di necessità di eseguire i relativi lavori senza ritardo, e quindi nell’impossibilità di avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini. Per effetto dell’accoglimento del primo motivo resta assorbito l’esame degli altri motivi. La causa deve essere rinviata al Tribunale di Sassari, che la deciderà in persona di diverso magistrato. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Tribunale di Sassari, in persona di diverso giudicante.
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martedì 14 febbraio 2017

LASTRICO ESCLUSIVO E DANNI. SENZA LA VERIFICA DELL’IMPUTABILITA' SOGGETTIVA SENTENZA CASSATA E RINVIATA

Una terrazza a livello veniva ricostruita a seguito di un crollo e secondo la Corte d’appello la suddivisione segue il principio stabilito dal 1126 c.c. Ricorrono per Cassazione i proprietari dell’appartamento sottostante che lamentano il mancato accertamento dei motivi del crollo imputabili dall’assenza di manutenzione del pavimento che aveva comportato la corrosione dei ferri d’armatura e quindi il crollo. I Giudici di Piazza Cavour ribadiscono il principio che delle SS.UU. 9449/2016, che in materia di ripartizione delle spese di manutenzione di lastrici solari e terrazze a livello che provocano danni da infiltrazioni agli immobili sottostanti, le sezioni unite hanno di recente affermato che in tema di condominio negli edifici, qualora l'uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l'usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti l'adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull'amministratore ex art. 1130 c.c., comma 1, n. 4, nonchè sull'assemblea dei condomini ex art. 1135 c.c., comma 1, n. 4, tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria; il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all'art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell'usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio. Ebbene, la Corte territoriale non ha preliminarmente verificato l’imputabilità soggettiva del danno ragion per cui la sentenza viene cassata con rinvio.

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CASSAZIONE 7 FEBBRAIO 2017, N. 3239: in tema di lastrico solare




CASSAZIONE 7 FEBBRAIO 2017, N. 3239

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:   
Dott. MIGLIUCCI Emilio -  Presidente   
Dott. BIANCHINI Bruno  -  Consigliere  
Dott. MANNA Felice -  Consigliere  
Dott. ORILIA Lorenzo -  rel. Consigliere  
Dott. ABETE Luigi -  Consigliere  

ha pronunciato la seguente:
                                          
SENTENZA
                                 
sul ricorso 21098/2012 proposto da: 
M.M.T.,    M.S.,   M.A.,  M.D.R.,    MU.SA., M.F.G., elettivamente domiciliati in ROMA,presso lo studio dell'avvocato A. P., rappresentati e difesi dall'avvocato L. S. S.; 
- ricorrenti - 

CONTRO
C.C., elettivamente domiciliata in ROMA, presso lo studio dell'avvocato S. C., rappresentata e difesa dall'avvocato M. L.; C.M.G., elettivamente domiciliati in ROMA, presso lo studio dell'avvocato S. C., rappresentati e difesi dall'avvocato M. D. C.; 
- controricorrenti - 

e contro 
C.B.M.; 
- intimata - 

avverso la sentenza n. 1262/2011 della CORTE D'APPELLO di CATANZARO, depositata il 02/12/2011; 
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/12/2016 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA; 
uditi gli Avvocati L. C. difensore di C.C. che ha chiesto il rigetto del ricorso, C. M. D. difensore dei resistenti che ha chiesto il rigetto del ricorso; 
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso e per la condanna alle spese.
                        
RITENUTO IN FATTO

1 Per quanto ancora interessa in questa sede, la Corte d'Appello di Catanzaro, con sentenza 2.12.2011, accogliendo l'impugnazione proposta da C.C. (erede di C.G.) contro Cr.Co. (ed in contraddittorio degli altri eredi), in riforma della sentenza di primo grado ha ridotto a 1/3 la misura della contribuzione degli eredi C. alle spese di rifacimento della terrazza a livello di loro proprietà sovrastante l'appartamento della Cr. sito nel fabbricato in (OMISSIS). La Corte territoriale ha motivato la sua decisione richiamando il principio dell'art. 1126 c.c., e dunque ha ritenuto che la Cr. debba contribuire per i rimanenti 2/3 quale proprietaria dell'immobile sottostante alla terrazza.
2 Contro tale decisione propongono ricorso per cassazione gli eredi di Cr.Co. in epigrafe indicati con due censure a cui resistono con separati, ma identici controricorsi, C.C. nonchè C.F. e C.M.G.. C.B.M. non ha svolto attività difensiva.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1 Con il primo motivo i ricorrenti lamentano falsa applicazione dell'art. 1126 c.c., rilevando che la terrazza non è di proprietà comune, ma di proprietà esclusiva degli eredi C. perchè, a differenza del solaio intermedio, non solo funge da copertura all'immobile sottostante, ma serve anche da affaccio all'appartamento dei predetti: da ciò consegue che le spese delle parti di terrazzo avulse dalla funzione di copertura (parapetti, ringhiere, ecc.) restano a carico di chi proprietario esclusivo. Secondo i ricorrenti, quindi, il principio dell'art. 1126 c.c., si applica solo per le spese relative al solaio e quindi la Corte d'Appello ha errato nel porre le spese della terrazza in proporzione tra le parti.
Il motivo è inammissibile per difetto di specificità perchè dà per scontato che siano state addebitate alla Cr. anche le spese per ringhiere e parapetti senza però assolutamente dimostrarlo: nel ricorso infatti non si fornisce alcun elemento che possa sorreggere l'affermazione dei ricorrenti.
2 Col secondo motivo denunziano omesso esame e omessa motivazione circa un fatto decisivo (crollo della terrazza determinato - secondo la ricostruzione del CTU - dall'assenza di manutenzione del pavimento e, quindi, dalla corrosione delle strutture portanti in ferro). Tale fatto decisivo avrebbe dovuto indurre i giudici di appello a ritenere i proprietari del terrazzo responsabili esclusivi del crollo e, come tali, quindi unici obbligati ad accollarsi il rifacimento, in mancanza di prova liberatoria.
Il motivo è fondato.
La Corte d'Appello, nel regolare la misura della contribuzione al rifacimento della terrazza crollata, ha applicato il principio di cui all'art. 1126 cc e dunque ha posto a base della propria decisione il fatto che le unità delle parti in lite facciano parte di un edificio condominiale: una tale ricostruzione in fatto non è oggetto di censura e pertanto la natura condominiale del fabbricato non è più in discussione.
Ciò posto, in materia di ripartizione delle spese di manutenzione di lastrici solari e terrazze a livello che provocano danni da infiltrazioni agli immobili sottostanti, le sezioni unite hanno di recente affermato che in tema di condominio negli edifici, qualora l'uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l'usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti l'adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull'amministratore ex art. 1130 c.c., comma 1, n. 4, nonchè sull'assemblea dei condomini ex art. 1135 c.c., comma 1, n. 4, tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria; il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all'art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell'usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio (v. Sez. U, Sentenza n. 9449 del 10/05/2016 Rv. 639821).
Il principio citato, affermato - come si è detto - in materia di riparto delle spese di riparazione per evitare danni da infiltrazioni negli appartamenti, vale logicamente anche nel caso di specie, in cui si discute pur sempre di danni da omessa manutenzione (ma anzi, forieri di ben più gravi conseguenze, rappresentate addirittura dal crollo della terrazza a livello).
Ebbene, nel caso in esame, la Corte d'Appello di Catanzaro ha applicato seccamente la regola dell'art. 1126 c.c., ma non si è posta il preliminare problema di verificare, sulla scorta degli accertamenti peritali e delle altre risultanze processuali, l'imputabilità soggettiva del danno, e cioè di stabilire se le cause del crollo fossero ascrivibili ad un concorso di responsabilità dei due proprietari interessati oppure a fatto esclusivo del titolare del diritto di uso esclusivo della terrazza stessa che, come pure precisato dalle sezioni unite, ne è anche il custode, con tutti i doveri di cui all'art. 2051 c.c..
L'indagine era assolutamente decisiva perchè solo in caso di risposta positiva al primo quesito si sarebbe rivelata giuridicamente corretta la conclusione di applicare la regola del riparto di cui all'art. 1126 c.c..
La sentenza deve pertanto essere cassata per nuovo esame, sulla scorta del citato principio, da parte del giudice di rinvio (altra sezione della medesima Corte territoriale) che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte rigetta il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo e cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d'Appello di Catanzaro.

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2016

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2017
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giovedì 2 febbraio 2017

La responsabilità dell’amministratore per il crollo dell’edificio condominiale a seguito di evento sismico

In tema di responsabilità penale dell’amministratore in ordine alla deliberazioni assembleari in materia di sicurezza la giurisprudenza (C.Cass. pen. sent. n. 15759/2001 e sent.n. 6596/2008) ) afferma che: "In tema di omissione di lavori in costruzioni che minacciano rovina negli edifici condominiali, nel caso di mancata formazione della volontà assembleare che consenta all’amministratore di adoperarsi al riguardo, sussiste a carico del singolo condomino l’obbligo giuridico di rimuovere la situazione pericolosa, indipendentemente dall’attribuibilità al medesimo dell’origine della stessa".
La sentenza è assai importante per tutti i lavori necessari per assicurare l’incolumità sia pubblica che condominiale. Invero è noto che la sicurezza costa e pertanto assai sovente i condomini, al fine di evitare che l’assemblea deliberi le somme di denaro necessarie per eseguire le opere opportune, fanno mancare il loro numero (le cosiddette teste) o le maggioranze previste dal codice civile. A volte tale comportamento trova il suo fondamento su un concetto errato di impunità giuridica dei soggetti assenti all’assemblea condominiale e sull’affidamento, parimenti erroneo, che i provvedimenti e le diffide di sicurezza dell’autorità competente saranno notificate soltanto all’amministratore e che pertanto nessuna responsabilità giuridica incomba al callido condomino “disertore” dell’assemblea.
La sentenza, invece, afferma l’esistenza di una responsabilità solidale dei condomini di fronte ai loro comportamenti omissivi che pregiudichino il principio fondante del nostro ordinamento giuridico ovvero quello del “neminem laedere”. In particolare laddove i condomini non si presentino all’assemblea deputata alla decisione degli interventi urgenti ed indifferibili, ovvero votino contro l’adozione degli stessi, l’amministratore, per tutelarsi, potrà comunicare all’autorità competente il verbale assembleare contenente il nome degli assenti o dei contrari per l’adozione nei loro confronti, in ossequio ai principi esposti nella predetta sentenza, delle ordinanze contingibili ed urgenti la cui inosservanza è sanzionata penalmente dall’art. 650 c.p. con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino ad euro 206.
Altra sentenza ( C.Cass. Sent. 214101/2009) ha ribadito tali principi sostenendo quanto segue:
“In tema di omissione di lavori che minacciano rovina negli edifici condominiali ( nella specie, i solai dei locali garage), nel caso di mancata formazione della volontà assembleare e di omesso stanziamento dei fondi necessari per porre rimedio al degrado che dà luogo al pericolo non può ipotizzarsi la responsabilità per il reato di cui all’art. 677 c.p. a carico dell’amministratore del condominio per non avere attuato interventi che erano in suo materiale potere, ricadendo in siffatta situazione su ogni proprietario l’obbligo giuridico di rimuovere la situazione pericolosa, indipendentemente dall’attribuibilità al medesimo dell’origine della stessa. (Nell’affermare tale principio, la Corte ha anche chiarito che, nel caso previsto dal terzo comma della citata norma, al fine di andare esente da responsabilità, è sufficiente per l’amministratore intervenire sugli effetti della rovina, interdicendo, ove ciò sia possibile, l’accesso o il transito delle persone).” 
La Corte di Cassazione (sent n. 28751/2016) ha annullato senza rinvio, perchè il fatto non sussiste, la sentenza che aveva condannato per omicidio colposo plurimo e di lesioni personali un amministratore condominiale il quale, anche in qualità di ingegnere di progettista e di direttore dei lavori, aveva progettato il tetto di copertura dell’edificio omettendo di effettuare ogni valutazione di adeguatezza sismica dell’edificio che collassava interamente a seguito di un terremoto. La sentenza premette che deve essere esclusa la natura eccezionale ed imprevedibile dell’evento simico nel contesto storico in cui è accaduto, nella città dell’Aquila, tuttavia assolve l’amministratore poiché la sentenza di condanna non ha adeguatamente motivato sulla delibera assembleare di approvazione dei lavori di consolidamento dell’edificio. Invero la Corte di Cassazione sostiene che la sentenza di condanna non motiva adeguatamente in ordine alla probabilità che l’assemblea condominiale avrebbe effettivamente deliberato, a fronte delle informazioni fornite dall’amministratore, ed all’esito delle doverose verifiche sullo stato del palazzo, “l’effettuazione di non meglio specificate opere di consolidamento dell’intero.

di Giulio Benedetti
Sostituto Procuratore Generale Corte d’Appello di Milano
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