Anche nel processo tributario, le norme che lo disciplinano hanno previsto la possibilità per le Commissioni tributarie di avvalersi della consulenza tecnica d’ufficio.
Come noto, infatti, l’art. 7 del D. Lgs. n. 546/1992,
rubricato “Poteri delle Commissioni tributarie”, al
comma 2, espressamente prevede: “Le commissioni
tributarie, quando occorre acquisire elementi conoscitivi
di particolare complessità, possono richiedere
apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione
dello Stato o di altri enti pubblici compreso il
Corpo della Guardia di finanza, ovvero disporre consulenza
tecnica. I compensi spettanti ai consulenti
tecnici non possono eccedere quelli previsti dalla
legge 8 luglio 1980, n. 319 e successive modificazioni
e integrazioni”.
Con tale norma, pertanto, viene concesso ai giudici
tributari di poter disporre e richiedere:
- sia apposite relazioni ad organi tecnici (dell’Amministrazione dello Stato, altri enti pubblici e Guardia di Finanza);
- sia la consulenza tecnica d’ufficio; con il presupposto fondamentale che tale richiesta è subordinata alla particolare complessità della materia trattata, per la quale risulta necessario acquisire ulteriori elementi.
Orbene, così come strutturata, la consulenza tecnica
d’ufficio, in considerazione anche della specializzazione
che i giudici di merito dovrebbero avere in
materia tributaria, dovrebbe essere utilizzata solo in
rare occasioni; tuttavia così non è, con la conseguenza
che si assiste sempre più spesso al ricorso
al consulente tecnico d’ufficio, giustificato dal fatto
che gli odierni giudici tributari non sono in realtà
giudici specializzati, essendo nominati direttamente
dal MEF, e non accedendo per concorso come tutti
gli altri giudici civili, penali, amministrativi.
Anche e proprio per questo si auspica che quanto
prima venga riformata la giustizia tributaria, con la
previsione di giudici nominati per concorso, a tempo
pieno, specializzati e ben retribuiti.
Ciò detto, per quanto attiene alla disciplina del
C.T.U., in considerazione dell’espresso rinvio che
l’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 546/92 fa al codice
di procedura civile, occorre ad esso rifarsi.
Si applicano, quindi, gli articoli 61-64 e gli articoli
191-197 del codice di procedura civile; viceversa,
non si applicano gli articoli 198 – 200 c.p.c. che
prevedono la possibilità per il C.T.U. di tentare la
conciliazione delle parti, in quanto nel processo tributario
è prevista la possibilità di conciliazione solo
nelle ipotesi previste dagli articoli 48 e 48 bis del D. Lgs. n. 546/92, vale a dire la conciliazione fuori
udienza e in udienza, su accordo delle parti o su
invito della Commissione.
Quanto, poi, alla funzione della C.T.U. nel processo
tributario, occorre sottolineare che essa è da
ritenersi più ampia rispetto a quella prevista nel
processo civile: mentre, infatti, l’art. 61 c.p.c., che
disciplina la competenza tecnica, fa riferimento al
compimento di atti, l’art. 7 del D. Lgs. n. 546/92 fa
riferimento all’acquisizione di elementi conoscitivi.
Da tanto, giurisprudenza e dottrina hanno ritenuto
che l’ausiliario del giudice nel processo tributario
possa non solo “valutare” ma anche “accertare” i
fatti; in tal senso, la sentenza n. 9522 del 04 novembre
1996 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione
con la quale è stato affermato il seguente
principio:
"il giudice può affidare al consulente tecnico non solo l’incarico di valutare i fatti da lui stesso accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente); nel primo caso la consulenza presuppone l’avvenuto espletamento dei mezzi di prova e ha per oggetto la valutazione di fatti i cui elementi sono stati già completamente provati dalle parti; nel secondo caso la consulenza può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, senza che questo significhi che le parti possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente; in questo caso è necessario, infatti, che la parte quanto meno deduca il fatto che pone a fondamento del proprio diritto e che il giudice ritenga che il suo accertamento richieda cognizioni tecniche che egli non possiede o che vi siano altri motivi che impediscano o sconsiglino di procedere direttamente all’accertamento".
In ogni caso, la consulenza tecnica d’ufficio non
può mai sostituirsi all’attività istruttoria che compete
alle parti.
Ed infatti, la consulenza tecnica, essendo finalizzata
alla valutazione di fatti già dimostrati, non può
costituire mezzo di prova o di ricerca di fatti che
le parti debbono provare, fermo il presupposto che
il giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale,
può disporla in ogni momento se necessita di chiarimenti
o di valutazioni tecniche degli elementi già
acquisiti.
La consulenza tecnica d’Ufficio - in altri termini - si
traduce in un esame dei dati specialistici in atti, in
modo da servire a lumeggiare la questione dibattuta
affinché il giudice possa trarne elementi chiarificatori
ai fini della sua decisione.
Deriva, da quanto sopra, che la consulenza tecnica
d’ufficio:
- non può essere disposta al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimamente negata dal giudice qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerta di prove ovvero a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (Cass. 16.03.96, n. 2205, ove il rilievo che ai sopraindicati limiti è consentito derogare unicamente quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche, nella quale ipotesi, peraltro, la parte che denunzia la mancata ammissione della consulenza ha l’onere di precisare, sotto il profilo causale, come l’espletamento del detto mezzo avrebbe potuto influire sulla decisione impugnata Cass. 16.03.96, n. 2205);
- non è mezzo istruttorio in senso proprio e spetta al Giudice di merito lo stabilire se essa è necessaria o opportuna, fermo restando l’onere probatorio delle parti, e la relativa valutazione, se adeguatamente motivata in relazione al punto di merito da decidere, non può essere sindacata in sede di legittimità (Cass. 03.04.98, n. 3423);
- legittimamente non è disposta dal giudice se è richiesta per compiere un’indagine esplorativa sull’esistenza di circostanze, il cui onere di allegazione è invece a carico delle parti (Cass. 15.01.97, n. 342).
Tanto rilevato, si osserva altresì che, in ogni caso, le
valutazioni espresse dal consulente tecnico d’ufficio
non vincolano il giudice, il quale resta sempre iudex
peritus peritorum, con la conseguenza che allo
stesso è consentito dissentire dalle conclusioni cui
è giunto il consulente, purché tale dissenso sia adeguatamente
motivato.
Ed infatti, mentre nel caso in cui il giudice decida
di uniformarsi a quanto espresso e rilevato nella perizia
dal C.T.U. non sarà necessaria alcuna motivazione
sul punto, ben potendo il giudice limitarsi ad
aderire alle elaborazioni del consulente, al contrario,
nell’ipotesi in cui o le parti contestino in modo specifico
la C.T.U., o il giudice ritenga di non condividere
la stessa, sarà necessaria un’adeguata motivazione,
esente da vizi logici ed errori di diritto.
Proprio al riguardo, con una recente sentenza, n.
24630 del 03 dicembre 2015 la Corte di Cassazione
ha ribadito il principio secondo cui "il giudice del
merito ha il potere discrezionale di disattendere le
conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio, senza
dover disporre altra perizia, ma detta decisione
può essere censurata in sede di legittimità ove la
soluzione prescelta non risulti sufficientemente
motivata."
Così del pari, con ordinanza n. 20398 del 12 ottobre
2015, richiamando un principio già espresso (sentenza
03 marzo 2011, n. 5148), la Suprema Corte
ha avuto modo di pronunciarsi in tal senso: "in proposito, non può che essere ribadito che le valutazioni
espresse dal consulente tecnico d’ufficio non
hanno efficacia vincolante per il giudice e, tuttavia,
egli può legittimamente disattenderle soltanto
attraverso una valutazione critica, che sia ancorata
alle risultanze processuali e risulti congruamente e
logicamente motivata, dovendo il giudice indicare
gli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei
gli argomenti sui quali il consulente si è basato, ovvero
gli elementi probatori, i criteri di valutazione
e gli argomenti logico-giuridici per addivenire alla
decisione contrastante con il parere del c.t.u.."
Infine, con altra importante recente sentenza, n.
24903 del 06 novembre 2013, la Corte di Cassazione
ha avuto modo di sottolineare anche l’importanza
della C.T.U. nell’ipotesi in cui la stessa si rilevi assolutamente
necessaria ai fini della decisione, con
la conseguenza che deve ritenersi viziata quella
pronuncia a cui i giudici di merito sono pervenuti
senza l’ausilio della c.t.u., laddove si sia in presenza
di argomentazioni di natura squisitamente tecnica.
La Suprema Corte nelle motivazioni ribadisce che "il principio secondo cui il provvedimento che
disponga, o no, la consulenza tecnica, rientrando
nel potere discrezionale del giudice del merito, è
incensurabile in sede di legittimità, deve essere
contemperato con quello secondo il quale il giudice
stesso deve sempre motivare adeguatamente
la decisione adottata in merito ad una questione
tecnica rilevante per la definizione della causa, in
relazione alla quale la consulenza può profilarsi
come lo strumento più funzionale ed efficiente di
indagine. Non va, difatti, tralasciato di considerare
che la consulenza tecnica d’ufficio può costituire
fonte oggettiva di prova, tutte le volte in cui essa
operi - non come strumento di mera valutazione
di fatti già accertati, c.d. consulente deducente -
bensì come mezzo di accertamento di situazioni di
fatto rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso
a determinate cognizioni tecniche (c.d. consulente
percipiente) (cfr. Cass. 3990/06, 6155/09). Sicché’
la consulenza è - in definitiva - un mezzo istruttorio
sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso
al potere discrezionale del giudice, il cui esercizio
incontra il duplice limite del divieto di servirsene
per sollevare le parti dall’onere probatorio e dell’obbligo
di motivare il rigetto della relativa richiesta.
Ne consegue che il giudice che non disponga la
consulenza richiesta dalla parte è tenuto a fornire
adeguata dimostrazione - suscettibile di sindacato
in sede di legittimità - di potere risolvere, sulla
base di corretti criteri, tutti i problemi tecnici
connessi alla valutazione degli elementi rilevanti
ai fini della decisione, senza potere, per converso,
disattendere l’istanza stessa ritenendo non provati
i fatti che questa avrebbe, verosimilmente, accertato
(Cass. 15136/00, 88/04)."
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