Di solito, si ritiene che l’uso del parcheggio possa generare liti condominiali afferenti esclusivamente a profili civilistici, quali il corretto utilizzo dell’area comune, la possibilità di ricoverare una o più macchine oppure i motorini, l’incapienza dello spazio rispetto alle necessità degli abitanti dello stabile, e quant’altro.
Difficilmente si pensa che i conflitti tra i partecipanti
al condominio sul punto possano sconfinare
sul versante penale, eppure ciò è accaduto, e anche
di recente, ed una veloce consultazione dei
repertori di giurisprudenza - o, meglio, una rapida
verifica tramite banche dati e motori di ricerca -
ci offre, purtroppo, una desolante conferma.
La decisione emessa, da ultimo, da Cass. pen. 7
dicembre 2015 n. 48346 proveniva all’esito del
ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza
della Corte d’Appello la quale, in parziale riforma
della sentenza emessa dal Tribunale, aveva
condannato una condomina alla pena di giustizia
(15 giorni di reclusione), oltre al pagamento di
spese processuali ed al risarcimento del danno in
favore di un altro condomino, costituitosi parte
civile, in relazione al reato di “violenza privata”
contemplato dall’art. 610 c.p. (che punisce con la
reclusione fino a 4 anni “chiunque, con violenza o
minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere
qualche cosa”, salvo l’aumento della pena se
la violenza o la minaccia è commessa con armi, o
da persona travisata, o da più persone riunite, o
con scritto anonimo, o in modo simbolico).
Avverso tale sentenza, ricorreva l’imputata affidando
l’impugnativa a due motivi di doglianza.
Nello specifico, la suddetta condomina deduceva,
in primo luogo, l’erronea applicazione della
legge penale - ai sensi dell’art. 606, comma 1,
lett. b), in relazione agli artt. 51 e 59, comma
4, c.p. - rilevando che la Corte territoriale, dopo
aver correttamente escluso la sussistenza del reato
di violenza privata in relazione alla contestata
condotta di ostruzione del passaggio alla
persona offesa tramite parcheggio della propria
autovettura, non aveva però riconosciuto la sussistenza
dell’esimente, anche nella forma putativa,
dell’esercizio del diritto in relazione a quanto
previsto dall’art. 383 c.p.p. in ordine alla possibilità
dell’arresto eseguito dal privato, e ciò in
relazione alla seconda parte della condotta contestata
nel capo di imputazione, che descriveva l’imputata come colei che, per non far allontanare
l’altro condomino, gli aveva sottratto le chiavi del
motociclo in attesa dell’arrivo della polizia che
ella stessa aveva allertato.
In proposito, la parte ricorrente rilevava di aver
subìto, dalla presunta parte offesa, un’aggressione
fisica e, quindi, la condotta impeditiva descritta
nel capo di imputazione era semplicemente
diretta ad evitare che l’asserito aggressore si
allontanasse prima dell’arrivo della polizia.
In secondo luogo, l’imputata si doleva della manifesta
contraddittorietà della motivazione della
sentenza impugnata - ai sensi dell’art. 606, comma
1, lett. e), c.p.p. - nella parte in cui aveva
qualificato le condotte contestate come violenza
privata, anziché come esercizio arbitrario delle
proprie ragioni.
Avverso tale sentenza, insorgeva anche la costituita
parte civile, evidenziando, agli effetti civili
conseguenti alla condanna penale, una violazione
di legge da parte del giudice distrettuale in relazione
al mancato riconoscimento del delitto di
violenza privata riguardo alla prima porzione di
condotta contestata all’imputata, ossia a quella
che vedeva quest’ultima protagonista del parcheggio
della propria autovettura innanzi all’accesso
del locale ove era contenuta l’autovettura
della parte offesa dal reato.
La parte civile sottolineava che la condotta di
violenza prevista dall’art. 610 c.p. fosse rintracciabile
anche nelle ipotesi di c.d. violenza impropria,
considerato che, ai fini della configurabilità
del delitto in esame, il requisito della violenza
si dovesse identificare in qualsiasi mezzo idoneo
a privare coattivamente l’offeso della libertà di
determinazione e di azione.
I giudici di Piazza Cavour hanno, innanzitutto,
ritenuto non meritevole di accoglimento il ricorso
presentato dall’imputata.
La parte ricorrente, con il primo motivo, ha lamentato
la mancata applicazione dell’esimente
putativa dell’esercizio del diritto, in relazione alla
potestas coercitiva di cui all’art. 383 c.p.p., giacché
- a suo avviso - la sottrazione delle chiavi
del motociclo alla persona offesa era diretta ad
evitare che quest’ultima si allontanasse dai luoghi
teatro dei fatti descritti nel capo di imputazione
prima dell’arrivo della polizia.
Sul punto, si è precisato, per un verso, che non ricorre un’ipotesi di “arresto del privato” ai sensi
del summenzionato art. 383, perché non si è
in presenza di condotte che consentono, anche
astrattamente, l’arresto in flagranza consentito
dal precedente art. 380, e, per altro verso, che
non è possibile applicare l’invocata scriminante
neanche nella sua forma putativa, atteso che può
rilevare, a tal fine, solo l’errore su una norma extrapenale,
e non già quello - come nel caso di
specie - che verta sull’interpretazione delle facoltà
di arresto esercitabile dal privato.
Ed invero, in tal caso si tratta di un mero errore
di diritto, che non vale ad escludere la punibilità
perché concettualmente non può, sotto alcun
profilo, essere configurato come errore di fatto
(v. la remota Cass. pen. 22 gennaio 1973 n. 276).
Sul secondo motivo di gravame sollevato dalla
stessa imputata, gli ermellini hanno ricordato che
il reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”
non va confuso con quello di violenza privata.
Il primo delitto è contemplato dall’art. 392 c.p.
- come modificato, ai fini che qui non rilevano,
dalla legge n. 547/1993 - il quale punisce con la
multa fino a euro 516,00, a querela della persona
offesa, “chiunque, al fine di esercitare un preteso
diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo, mediante
violenza sulle cose”, precisando che, agli effetti
della legge penale, “si ha violenza sulle cose allorché
la cosa viene danneggiata o trasformata, o
ne è mutata la destinazione”.
Invero, il reato di esercizio arbitrario delle proprie
ragioni - che ugualmente contiene l’elemento della
violenza o della minaccia alla persona - si differenzia
non nella materialità del fatto, che può
essere identica in entrambe le fattispecie, bensì
nell’elemento intenzionale, in quanto nel reato di
cui all’art. 392 c.p. l’agente deve essere animato
dal fine di esercitare un diritto con la coscienza
che l’oggetto della pretesa gli competa giuridicamente,
pur non richiedendosi che si tratti di pretesa
fondata (v., tra le altre, Cass. pen. 6 giugno
2014 n. 23923).
Ne discende che la condotta descritta nel capo di
imputazione non risultava in alcun modo diretta,
in relazione alla sottrazione delle chiavi, ad
esercitare un presunto diritto sulle stesse, quanto
piuttosto a coartare la volontà della persona offesa
in modo che quest’ultima non si allontanasse.
Secondo l’autorevole parere dei magistrati del Palazzaccio,
è meritevole invece di accoglimento il
motivo di ricorso avanzato, ai sensi dell’art. 576 c.p.p., dalla persona offesa, in ordine alla dedotta
violazione di legge per la mancata qualificazione
del reato di violenza privata anche in relazione
alla condotta tenuta dall’imputata attraverso il
parcheggio della propria autovettura in modo da
impedire il passaggio dell’autovettura della persona
offesa.
In proposito, si è ricordato che l’elemento della
violenza nella fattispecie criminosa di violenza
privata si identifica in qualsiasi mezzo idoneo
a privare coattivamente l’offeso della libertà di
determinazione e di azione, potendo consistere
anche in una violenza “impropria”, che si attua
attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare
pressioni sulla volontà altrui, impedendone
la libera determinazione (v., ex multis, Cass. pen.
22 gennaio 2010 n. n. 11907).
Più precisamente, è stato affermato che integra il
delitto di violenza privata la condotta di colui che
parcheggi la propria autovettura dinanzi ad un
fabbricato in modo tale da bloccare il passaggio
impedendo l’accesso alla parte lesa, considerato
che, ai fini della configurabilità del reato in questione,
il requisito della violenza si identifica in
qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente
l’offeso della libertà di determinazione e di azione
(così Cass. pen. 21 febbraio 2014 n. 8425).
Ne consegue che anche la condotta descritta nel
capo di imputazione in relazione al parcheggio
dell’autovettura può integrare il reato previsto e
punito dall’art. 610 c.p. in ragione della circostanza
che il requisito della violenza si può identificare
in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente
l’offeso della libertà di determinazione
e di azione.
Pertanto, la sentenza impugnata è stata annullata
agli effetti civili limitatamente alla pronuncia
di assoluzione dell’imputata, con rinvio al giudice
civile competente per valore in grado di appello,
rigettando, invece, il ricorso dell’imputata che
è stata condannata, altresì, al pagamento delle
spese processuali, nonché al rimborso delle spese
sostenute nel grado dalla parte civile.
La sentenza in commento, anche se non la richiama
espressamente, dà continuità ad una precedente
pronuncia (v. Cass. pen. 17 maggio 2006
n. 21779), secondo la quale integra il delitto di
violenza privata di cui all’art. 610 c.p. la condotta
di colui che parcheggia la propria autovettura
in modo tale da bloccare il passaggio impedendo
alla parte lesa di muoversi, considerato che, ai
fini della configurabilità del delitto in questione,
il requisito della violenza si identifica in qualsiasi
mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso
della libertà di determinazione e di azione.
In quell’occasione, entrambi i giudici di merito
avevano assolto una condomina - anche in questa ipotesi, una donna! - dall’imputazione ascrittale
ex art. 610 c.p. per avere impedito ad un altro
condomino di spostare la sua autovettura dal
parcheggio privato, bloccando il passaggio con
un’altra auto e minacciandolo di non farlo uscire
fino a sera tarda o sino al giorno successivo.
l suddetti giudici avevano ritenuto che il capo di
imputazione non descriveva alcun reato, per cui
l’assunzione delle prove richieste dall’accusa sarebbe
stata irrilevante, in particolare, segnalando
che non risultava contestata alcuna violenza
e che la minaccia non era collegata con l’evento
voluto.
Il ricorso per cassazione proposto dal Procuratore
Generale è stato accolto, rammentando appunto
che, ai fini della configurabilità del delitto di cui
all’art. 610 c.p., il requisito della violenza si identifica
in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente
l’offeso della libertà di determinazione
e di azione (v., altresì, Cass. pen. 7 maggio 1998
n. 1195; Cass. pen. 16 dicembre 1981 n. 11004),
e tale era da ritenersi il bloccare il passaggio di
un’autovettura con altro mezzo; d’altro canto, il
dichiarare in concomitanza di codesta azione al
proprietario della vettura ostacolata che si intendeva
non consentirgli di ripartire per un congruo
periodo di tempo, stava a dimostrare in termini
inequivoci la finalità della violenza.Sempre sul presupposto che, nel reato previsto e
punito dall’art. 610 c.p., il requisito della violenza,
ai fini della relativa configurazione, si identifica
con qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente
della libertà di determinazione e di
azione l’offeso, il quale sia, pertanto, costretto a
fare, tollerare o omettere qualcosa contro la propria
volontà, anche Cass. pen. 18 ottobre 2005 n.
40983 ha ritenuto integrato il reato de quo nella
condotta del soggetto che aveva intenzionalmente
parcheggiato la propria vettura dietro quella
della parte lesa così impedendole di muoversi (v.,
altresì, Cass. pen. 18 novembre 2011 n. 603, che
ha punito colui che, avendo parcheggiato l’auto
in maniera da ostruire l’ingresso al garage condominiale,
si rifiutava di rimuoverla nonostante la
richiesta della persona offesa).
Molto peculiare la fattispecie decisa recentemente
da Cass. pen. 24 ottobre 2014 n. 46686, la
quale ha ritenuto integrato il reato di cui all’art.
610 c.p. nella condotta di colui che, azionando a
distanza il meccanismo di blocco di un cancello
automatico, aveva impedito alla persona offesa
di uscire con la propria autovettura dalla zona garage
del condominio, “costringendola a scendere
dal veicolo ed a staccare la corrente elettrica per
neutralizzare la chiusura a distanza del cancello
al fine di varcare l’accesso carraio dello stabile”
(sic!).
di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione
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