martedì 5 settembre 2017

Il parcheggio dell’autovettura in modo da ostruire il passaggio configura il delitto di violenza privata

Di solito, si ritiene che l’uso del parcheggio possa generare liti condominiali afferenti esclusivamente a profili civilistici, quali il corretto utilizzo dell’area comune, la possibilità di ricoverare una o più macchine oppure i motorini, l’incapienza dello spazio rispetto alle necessità degli abitanti dello stabile, e quant’altro.
Difficilmente si pensa che i conflitti tra i partecipanti al condominio sul punto possano sconfinare sul versante penale, eppure ciò è accaduto, e anche di recente, ed una veloce consultazione dei repertori di giurisprudenza - o, meglio, una rapida verifica tramite banche dati e motori di ricerca - ci offre, purtroppo, una desolante conferma.
La decisione emessa, da ultimo, da Cass. pen. 7 dicembre 2015 n. 48346 proveniva all’esito del ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza della Corte d’Appello la quale, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale, aveva condannato una condomina alla pena di giustizia (15 giorni di reclusione), oltre al pagamento di spese processuali ed al risarcimento del danno in favore di un altro condomino, costituitosi parte civile, in relazione al reato di “violenza privata” contemplato dall’art. 610 c.p. (che punisce con la reclusione fino a 4 anni “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”, salvo l’aumento della pena se la violenza o la minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico).
Avverso tale sentenza, ricorreva l’imputata affidando l’impugnativa a due motivi di doglianza.
Nello specifico, la suddetta condomina deduceva, in primo luogo, l’erronea applicazione della legge penale - ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), in relazione agli artt. 51 e 59, comma 4, c.p. - rilevando che la Corte territoriale, dopo aver correttamente escluso la sussistenza del reato di violenza privata in relazione alla contestata condotta di ostruzione del passaggio alla persona offesa tramite parcheggio della propria autovettura, non aveva però riconosciuto la sussistenza dell’esimente, anche nella forma putativa, dell’esercizio del diritto in relazione a quanto previsto dall’art. 383 c.p.p. in ordine alla possibilità dell’arresto eseguito dal privato, e ciò in relazione alla seconda parte della condotta contestata nel capo di imputazione, che descriveva l’imputata come colei che, per non far allontanare l’altro condomino, gli aveva sottratto le chiavi del motociclo in attesa dell’arrivo della polizia che ella stessa aveva allertato.
In proposito, la parte ricorrente rilevava di aver subìto, dalla presunta parte offesa, un’aggressione fisica e, quindi, la condotta impeditiva descritta nel capo di imputazione era semplicemente diretta ad evitare che l’asserito aggressore si allontanasse prima dell’arrivo della polizia.
In secondo luogo, l’imputata si doleva della manifesta contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata - ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. - nella parte in cui aveva qualificato le condotte contestate come violenza privata, anziché come esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Avverso tale sentenza, insorgeva anche la costituita parte civile, evidenziando, agli effetti civili conseguenti alla condanna penale, una violazione di legge da parte del giudice distrettuale in relazione al mancato riconoscimento del delitto di violenza privata riguardo alla prima porzione di condotta contestata all’imputata, ossia a quella che vedeva quest’ultima protagonista del parcheggio della propria autovettura innanzi all’accesso del locale ove era contenuta l’autovettura della parte offesa dal reato.
La parte civile sottolineava che la condotta di violenza prevista dall’art. 610 c.p. fosse rintracciabile anche nelle ipotesi di c.d. violenza impropria, considerato che, ai fini della configurabilità del delitto in esame, il requisito della violenza si dovesse identificare in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione.
I giudici di Piazza Cavour hanno, innanzitutto, ritenuto non meritevole di accoglimento il ricorso presentato dall’imputata.
La parte ricorrente, con il primo motivo, ha lamentato la mancata applicazione dell’esimente putativa dell’esercizio del diritto, in relazione alla potestas coercitiva di cui all’art. 383 c.p.p., giacché - a suo avviso - la sottrazione delle chiavi del motociclo alla persona offesa era diretta ad evitare che quest’ultima si allontanasse dai luoghi teatro dei fatti descritti nel capo di imputazione prima dell’arrivo della polizia.
Sul punto, si è precisato, per un verso, che non ricorre un’ipotesi di “arresto del privato” ai sensi del summenzionato art. 383, perché non si è in presenza di condotte che consentono, anche astrattamente, l’arresto in flagranza consentito dal precedente art. 380, e, per altro verso, che non è possibile applicare l’invocata scriminante neanche nella sua forma putativa, atteso che può rilevare, a tal fine, solo l’errore su una norma extrapenale, e non già quello - come nel caso di specie - che verta sull’interpretazione delle facoltà di arresto esercitabile dal privato.
Ed invero, in tal caso si tratta di un mero errore di diritto, che non vale ad escludere la punibilità perché concettualmente non può, sotto alcun profilo, essere configurato come errore di fatto (v. la remota Cass. pen. 22 gennaio 1973 n. 276). Sul secondo motivo di gravame sollevato dalla stessa imputata, gli ermellini hanno ricordato che il reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” non va confuso con quello di violenza privata.
Il primo delitto è contemplato dall’art. 392 c.p. - come modificato, ai fini che qui non rilevano, dalla legge n. 547/1993 - il quale punisce con la multa fino a euro 516,00, a querela della persona offesa, “chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo, mediante violenza sulle cose”, precisando che, agli effetti della legge penale, “si ha violenza sulle cose allorché la cosa viene danneggiata o trasformata, o ne è mutata la destinazione”.
Invero, il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni - che ugualmente contiene l’elemento della violenza o della minaccia alla persona - si differenzia non nella materialità del fatto, che può essere identica in entrambe le fattispecie, bensì nell’elemento intenzionale, in quanto nel reato di cui all’art. 392 c.p. l’agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli competa giuridicamente, pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata (v., tra le altre, Cass. pen. 6 giugno 2014 n. 23923).
Ne discende che la condotta descritta nel capo di imputazione non risultava in alcun modo diretta, in relazione alla sottrazione delle chiavi, ad esercitare un presunto diritto sulle stesse, quanto piuttosto a coartare la volontà della persona offesa in modo che quest’ultima non si allontanasse. Secondo l’autorevole parere dei magistrati del Palazzaccio, è meritevole invece di accoglimento il motivo di ricorso avanzato, ai sensi dell’art. 576 c.p.p., dalla persona offesa, in ordine alla dedotta violazione di legge per la mancata qualificazione del reato di violenza privata anche in relazione alla condotta tenuta dall’imputata attraverso il parcheggio della propria autovettura in modo da impedire il passaggio dell’autovettura della persona offesa.
In proposito, si è ricordato che l’elemento della violenza nella fattispecie criminosa di violenza privata si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza “impropria”, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (v., ex multis, Cass. pen. 22 gennaio 2010 n. n. 11907).
Più precisamente, è stato affermato che integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che parcheggi la propria autovettura dinanzi ad un fabbricato in modo tale da bloccare il passaggio impedendo l’accesso alla parte lesa, considerato che, ai fini della configurabilità del reato in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione (così Cass. pen. 21 febbraio 2014 n. 8425).
Ne consegue che anche la condotta descritta nel capo di imputazione in relazione al parcheggio dell’autovettura può integrare il reato previsto e punito dall’art. 610 c.p. in ragione della circostanza che il requisito della violenza si può identificare in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione.
Pertanto, la sentenza impugnata è stata annullata agli effetti civili limitatamente alla pronuncia di assoluzione dell’imputata, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, rigettando, invece, il ricorso dell’imputata che è stata condannata, altresì, al pagamento delle spese processuali, nonché al rimborso delle spese sostenute nel grado dalla parte civile.
La sentenza in commento, anche se non la richiama espressamente, dà continuità ad una precedente pronuncia (v. Cass. pen. 17 maggio 2006 n. 21779), secondo la quale integra il delitto di violenza privata di cui all’art. 610 c.p. la condotta di colui che parcheggia la propria autovettura in modo tale da bloccare il passaggio impedendo alla parte lesa di muoversi, considerato che, ai fini della configurabilità del delitto in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione.
In quell’occasione, entrambi i giudici di merito avevano assolto una condomina - anche in questa ipotesi, una donna! - dall’imputazione ascrittale ex art. 610 c.p. per avere impedito ad un altro condomino di spostare la sua autovettura dal parcheggio privato, bloccando il passaggio con un’altra auto e minacciandolo di non farlo uscire fino a sera tarda o sino al giorno successivo.
l suddetti giudici avevano ritenuto che il capo di imputazione non descriveva alcun reato, per cui l’assunzione delle prove richieste dall’accusa sarebbe stata irrilevante, in particolare, segnalando che non risultava contestata alcuna violenza e che la minaccia non era collegata con l’evento voluto.
Il ricorso per cassazione proposto dal Procuratore Generale è stato accolto, rammentando appunto che, ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 610 c.p., il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione (v., altresì, Cass. pen. 7 maggio 1998 n. 1195; Cass. pen. 16 dicembre 1981 n. 11004), e tale era da ritenersi il bloccare il passaggio di un’autovettura con altro mezzo; d’altro canto, il dichiarare in concomitanza di codesta azione al proprietario della vettura ostacolata che si intendeva non consentirgli di ripartire per un congruo periodo di tempo, stava a dimostrare in termini inequivoci la finalità della violenza.Sempre sul presupposto che, nel reato previsto e punito dall’art. 610 c.p., il requisito della violenza, ai fini della relativa configurazione, si identifica con qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione l’offeso, il quale sia, pertanto, costretto a fare, tollerare o omettere qualcosa contro la propria volontà, anche Cass. pen. 18 ottobre 2005 n. 40983 ha ritenuto integrato il reato de quo nella condotta del soggetto che aveva intenzionalmente parcheggiato la propria vettura dietro quella della parte lesa così impedendole di muoversi (v., altresì, Cass. pen. 18 novembre 2011 n. 603, che ha punito colui che, avendo parcheggiato l’auto in maniera da ostruire l’ingresso al garage condominiale, si rifiutava di rimuoverla nonostante la richiesta della persona offesa).
Molto peculiare la fattispecie decisa recentemente da Cass. pen. 24 ottobre 2014 n. 46686, la quale ha ritenuto integrato il reato di cui all’art. 610 c.p. nella condotta di colui che, azionando a distanza il meccanismo di blocco di un cancello automatico, aveva impedito alla persona offesa di uscire con la propria autovettura dalla zona garage del condominio, “costringendola a scendere dal veicolo ed a staccare la corrente elettrica per neutralizzare la chiusura a distanza del cancello al fine di varcare l’accesso carraio dello stabile” (sic!).

di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione

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