martedì 10 ottobre 2017

Lecita la pizzeria al primo piano?

... Se il regolamento non dice nulla sul punto




Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit: quante volte le cause sono state decise sulla base di questo famoso brocardo latino!

Tradotto fedelmente in italiano, “dove la legge ha voluto, l’ha detto (mentre) dove non ha voluto, ha taciuto”, vale a dire, nell’interpretazione della legge, occorre attenersi al testo della norma, per cui se, in un disposto normativo, non è stata prevista una fattispecie o non è stato analizzato un determinato aspetto, si deve presupporre che il legislatore, consapevolmente, non lo abbia voluto normare, non autorizzando in tal modo letture estensive o/e analogiche della norma medesima.
Nel caso risolto, di recente, da Cass. 20 ottobre 2016, n. 21307, l’operatività di tale brocardo - unitamente all’applicazione dei principi generali in tema di interpretazione delle disposizioni del regolamento di condominio che prevedono limitazioni alle destinazioni d’uso delle unità immobiliari di proprietà esclusiva - è costata cara ad un condomino.

Quest’ultimo, infatti, era insorto contro il dirimpettaio, proprietario anch’egli di un appartamento posto al primo piano dello stabile, il quale aveva adibito lo stesso a pizzeria, e si era rivolto al giudice - probabilmente stanco di sentire rumori molesti fino a tarda sera e desideroso di riposare al fine di lavorare il giorno successivo - confidando sul fatto che il regolamento di condominio contemplasse la possibilità di adibire ad esercizi commerciali solo i locali posti al piano terra.
La risposta dei giudici di Piazza Cavour è stata nel senso che, se il regolamento nulla diceva circa l’utilizzo dei piani dal primo in su, voleva dire che tutte le destinazioni fossero astrattamente possibili, salvi - ma tali aspetti non sono stati affrontati - limiti di altra natura, specie sul versante urbanistico, oppure il rispetto della normale tollerabilità delle immissioni ai sensi dell’art. 844 c.c.

Strada, quest’ultima, difficile da percorrere, segnatamente sul versante probatorio, correndosi il rischio di dichiarazioni non proprio … disinteressate - superata la questione della capacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c., trattandosi di lite tra vicini, senza alcun coinvolgimento del condominio - potendo essere chiamati a deporre, ad esempio, il cliente affezionato amico del ristoratore, o gli studenti inquilini del terzo piano cui erano stati promessi sconti sul menù oppure il proprietario del piano attico che ce l’aveva a morte con il condomino attore, tutti pronti a giurare che, in realtà, la pizzeria era silenziosa come un convento di suore di clausura.
Come extrema ratio, rimaneva l’espletamento di una perizia fonometrica, ma con il rischio, altrettanto alto, di applicazione dell’altro brocardo: “quando viene il CTU, il rumore non c’è più”.
Ma procediamo con ordine, focalizzando l’esame sulla fattispecie giuridica analizzata dal supremo consesso decidente.



La causa prendeva, appunto, le mosse dalla domanda proposta da un condomino nei confronti del suo confinante, affinché fosse condannato al ripristino dello status quo ante (oltre al risarcimento dei danni), sul presupposto che quest’ultimo, in violazione del regolamento condominiale, aveva adibito l’immobile, destinato esclusivamente ad uso abitativo, a pizzeria, mediante la creazione di una scala di collegamento interna con il sottostante terraneo, adibito a sua volta anch’esso pizzeria, creando in tal modo intollerabili immissioni di rumori.
La domanda veniva rigettata in primo grado ma, in riforma della sentenza del Tribunale, trovava accoglimento in sede di gravame, per cui la Corte d’Appello condannava il convenuto al rispristino della destinazione abitativa per l’immobile di sua proprietà ubicato al primo piano.

Per quel che rileva in questa sede, il giudice distrettuale - attesa la pacifica vincolatività del regolamento condominiale, in quanto trascritto anche nei registri immobiliari e richiamato anche nel titolo di provenienza del convenuto - aveva ritenuto che non poteva condividersi l’interpretazione della disposizione del regolamento offerta da parte del primo giudice, il quale aveva opinato che le limitazioni ivi contemplate valessero solo per i locali cantinati e terranei, non sussistendo quindi analoghi vincoli per l’utilizzo degli immobili posti ai piani superiori. Invece, la previsione di una specifica possibilità di utilizzo solo per i suddetti locali, imponeva di ritenere che ab implicito per gli altri locali, quale appunto l’appartamento del condomino confinante, fosse vietata una diversa destinazione.
Invero, il regolamento era costruito sul principio dell’espressa elencazione delle destinazioni consentite, sicché, in mancanza di un’analoga previsione anche per gli altri locali diversi dai cantinati e dai terranei, doveva concludersi per il divieto di adibire l’appartamento de quo allo svolgimento di attività commerciale.

Avverso tale decisione, ricorreva per cassazione il condomino-ristoratore.
In particolare, il ricorrente denunciava la violazione/falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367, 1369 e 1370 c.c. nonché dell’art. 832 c.c. in merito alla corretta interpretazione fornita dalla Corte territoriale della disposizione del regolamento di condominio di cui sopra.
Infatti, l’interpretazione dei regolamenti condominiali di origine contrattuale - come quello in esame - richiedeva, al fine dell’individuazione di limiti all’utilizzo dei beni di proprietà esclusiva, che fossero adoperate espressioni non equivoche, occorrendo che una limitazione al diritto di proprietà derivasse da una precisa volontà del predisponente il regolamento. Nel caso in esame, la clausola oggetto di interpretazione disponeva che: “i locali cantinati e i terranei potranno essere destinati … all’esercizio di qualsiasi attività commerciale, industriale, artistica e professionale, nonché ad uffici, senza alcuna limitazione”. Rilevava il ricorrente che mancava una previsione specificamente rivolta a disciplinare l’uso delle unità immobiliari collocate dal primo piano in su, e che l’interpretazione offerta dalla Corte di merito violasse: a) l’art. 1363 c.c., laddove aveva omesso di valutare il complesso delle previsioni contrattuali, b) l’art. 1367 c.c., in quanto, in violazione del principio della conservazione del contratto, gli immobili dal primo piano a salire non avrebbero avuto alcuna destinazione, e c) l’art. 1369 c.c., poiché doveva privilegiarsi l’interpretazione più coerente con la natura del contratto, essendo viceversa priva di coerenza la soluzione per cui sarebbe impedito l’utilizzo di gran parte delle unità immobiliari presenti nell’edificio.

Assumeva, poi, lo stesso ricorrente che il canone ermeneutico richiamato in motivazione, ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit, sarebbe stato erroneamente applicato, perché il discorso della volontà implicita poteva avere ad oggetto solo le unità immobiliari espressamente richiamate nella disposizione de qua, non potendo estendersi ai locali posti ai piani superiori, di cui non vi era menzione alcuna. Infine, si richiamava il principio costantemente affermato in giurisprudenza, per il quale le limitazioni alle facoltà di uso della proprietà individuale previste nel regolamento condominiale dovevano connotarsi per chiarezza ed inequivocità, sicché la soluzione raggiunta nella sentenza gravata contravveniva evidentemente allo stesso, in quanto mancava una disposizione regolamentare che si occupasse delle unità immobiliari poste ai piani superiori, essendo peraltro presenti altre disposizioni che avevano invece espressamente disposto anche in ordine alle restanti unità immobiliari dello stabile.

Gli ermellini hanno accolto il ricorso del condomino-ristoratore.
Al riguardo, si è premesso che costituisce orientamento consolidato in giurisprudenza quello secondo cui non è censurabile in Cassazione l’interpretazione del regolamento di condominio compiuta dai giudici di merito, salvo che per violazione dei canoni ermeneutici o per vizi di motivazione (v., da ultimo, Cass. 8 gennaio 2016, n. 138).
E proprio riguardo all’interpretazione del regolamento di origine contrattuale, si è ribadito che, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c. e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v., ex plurimis, Cass. 19 ottobre 2012, n. 18052, in Riv. giur. edil., 2012, I, 1389).

Quindi, una volta ribadita la necessità di fare applicazione delle regole legali di interpretazione in materia di contratti anche al caso in esame, si è, altresì, ricordato che costituisce principio di diritto del tutto consolidato quello secondo il quale, riguardo all’interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice di merito, l’invocato sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’àmbito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore agli artt. 1362 ss. c.c., e sulla (in)coerenza e (il) logicità della motivazione addotta (v., tra le tante, Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465, in Foro it., Rep. 2015, voce Contratto in genere, n. 310).

D’altronde, l’indagine ermeneutica è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione, con la conseguenza che non può trovare ingresso la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto esaminati dal giudice a quo. 
Orbene, pur a fronte di tali doverose premesse, i magistrati del Palazzaccio hanno reputato che l’interpretazione, che della clausola regolamentare di cui sopra era stata offerta dalla Corte territoriale, non possa essere condivisa, ponendosi la stessa in contrasto con i principi che debbono presiedere l’interpretazione, tenuto conto in particolare dei consolidati principi espressi in tema di limitazioni convenzionali al diritto di proprietà, scaturenti da un regolamento condominiale di natura contrattuale, come appunto quello di specie.

Anche di recente, si è ribadito (v. Cass. 11 settembre 2014, n. 19229, in Vita notar., 2014, 1349) che il regolamento condominiale di origine contrattuale può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà, sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare.
In quest’ultimo caso, peraltro, per evitare ogni equivoco in una materia atta a incidere sulla proprietà dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni chiare, avuto riguardo, più che alla clausola in sé, alle attività ed ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentare intende impedire, così consentendo di apprezzare se la compromissione delle facoltà inerenti allo statuto proprietario corrisponda ad un interesse meritevole di tutela. Sul punto, si è affermato che la compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini deve risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze (v., ex multis, Cass. 7 gennaio 2004, n. 23, in Arch. loc. e cond., 2004, 698, con nota di M. DE TILLA; Cass. 3 luglio 2003, n. 10523, in Contratti, 2004, 31, commentata da A. NATALI e C. NATALI; Cass. 1 ottobre 1997, n. 9564, in Corr. giur., 1997, 1304, con nota di V. CARBONE).

Ciò implica che, nella ricerca della comune intenzione o - come nella fattispecie in esame - nell’individuazione della regola dettata dal regolamento contrattuale, non possa prescindersi dall’univocità delle espressioni letterali utilizzate, dovendosi in linea di principio rifuggire da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto attiene all’àmbito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, ma ancor più per quanto concerne “la corretta individuazione dei beni effettivamente assoggettati alla limitazione circa le facoltà di destinazione” di norma spettanti al proprietario.
In quest’ordine di principi, il Supremo Collegio ha osservato che, dal tenore della motivazione dell’impugnata sentenza, la previsione del divieto di utilizzo delle unità immobiliari poste a partire dal primo piano del fabbricato, ad un uso diverso da quello abitativo, è stata tratta da una previsione che, in realtà, si occupava specificamente solo dei limiti alla facoltà di utilizzo dei locali terranei e dei cantinati, ricavandosi quindi da una previsione, che pur lasciava ampie facoltà di utilizzo dei suddetti locali, ed “in assenza di una chiara ed univoca volontà esplicitata”, l’esistenza di un limite estremamente rigoroso quanto alle possibilità di utilizzo degli immobili aventi diversa natura, tra cui anche l’appartamento del ricorrente.

D’altronde, lo stesso regolamento, laddove ha inteso disporre dei limiti alle facoltà di utilizzo di tutti  i locali, ivi inclusi anche gli appartamenti posti a partire dal primo piano, lo ha chiaramente esplicitato, come appunto in altre previsioni dello stesso regolamento, quanto alla possibilità per la società costruttrice di apporre cartelli o bandiere luminose anche in corrispondenza della facciata dell’edificio, oppure quanto alla possibilità di ospitare solo animali quali cani, gatti ed uccelli.
La necessità, in ragione dell’esigenza di limitare al massimo la compressione delle proprietà individuali, in considerazione della storica configurazione del diritto di proprietà, imponeva quindi un’interpretazione del regolamento fondata sulla chiarezza ed univocità del tenore e delle espressioni letterali, dovendosi rifuggire, pertanto, da un’esegesi invece ancorata alla ricostruzione di una “volontà implicita” - come invece era accaduto nella fattispecie - trascurandosi altresì l’adeguamento al canone interpretativo di cui all’art. 1363 c.c. che, tenuto conto dell’esistenza di altre previsioni in materia di limitazioni della proprietà individuale, avrebbe dovuto imporre di valutare le limitazioni alla proprietà individuale dal coacervo delle previsioni regolamentari, secondo un principio di tendenziale e rigida tassatività.

Ad avviso del Supremo Collegio, tradisce l’elaborazione giurisprudenziale circa la portata ed i limiti suscettibili di essere dettati dal regolamento condominiale, la premessa alla quale dichiara volersi rifare nell’interpretazione della disposizione regolamentare il giudice di appello, laddove afferma che il regolamento condominiale sarebbe costruito sul principio - non già dell’espressa individuazione delle limitazioni imposte, come suggerito dai precedenti sopra citati, bensì - dell’espressa elencazione delle destinazioni consentite.

Alla luce dei suesposti principi, proprio il brocardo ubi voluit dixit, ubi noiluit tacuit - richiamato nella motivazione del giudice adìto - avrebbe dovuto condurre ad una conclusione affatto diversa da quella raggiunta, dovendosi appunto reputare che solo le limitazioni espressamente previste possono reputarsi operative, essendo il silenzio sintomatico, più che di una volontà di porre dei limiti, piuttosto della “necessità di preservare integre le facoltà tipiche del diritto di proprietà”.
Come dire, la pizzeria è lecita se è realizzata al primo piano, solo perché il regolamento nulla dica sul punto, e segnatamente non contempli il divieto di tale destinazione, e ciò anche se il fabbricato, nel suo complesso, è da sempre adibito ad uso abitativo, dovendo … ringraziare l’attore - poi soccombente - che gli utenti, per accedervi, utilizzino solo la scala di collegamento interna ad un vano ubicato al piano terra (parimenti destinato a pizzeria), posto che, trattandosi di beni comuni, avrebbero potuto servirsi pure delle scale e dei pianerottoli condominiali.

di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione

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