... Se il regolamento non dice nulla sul punto
Gli ermellini hanno accolto il ricorso del condomino-ristoratore.
Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit: quante volte le cause sono state decise sulla base di questo famoso brocardo latino!
Tradotto fedelmente in italiano, “dove la legge ha
voluto, l’ha detto (mentre) dove non ha voluto,
ha taciuto”, vale a dire, nell’interpretazione della
legge, occorre attenersi al testo della norma, per
cui se, in un disposto normativo, non è stata prevista
una fattispecie o non è stato analizzato un
determinato aspetto, si deve presupporre che il
legislatore, consapevolmente, non lo abbia voluto
normare, non autorizzando in tal modo letture
estensive o/e analogiche della norma medesima.
Nel caso risolto, di recente, da Cass. 20 ottobre 2016,
n. 21307, l’operatività di tale brocardo - unitamente
all’applicazione dei principi generali in tema di
interpretazione delle disposizioni del regolamento
di condominio che prevedono limitazioni alle destinazioni
d’uso delle unità immobiliari di proprietà
esclusiva - è costata cara ad un condomino.
Quest’ultimo, infatti, era insorto contro il dirimpettaio,
proprietario anch’egli di un appartamento
posto al primo piano dello stabile, il quale aveva
adibito lo stesso a pizzeria, e si era rivolto al giudice
- probabilmente stanco di sentire rumori molesti
fino a tarda sera e desideroso di riposare al fine di
lavorare il giorno successivo - confidando sul fatto
che il regolamento di condominio contemplasse la
possibilità di adibire ad esercizi commerciali solo i
locali posti al piano terra.
La risposta dei giudici di Piazza Cavour è stata nel
senso che, se il regolamento nulla diceva circa l’utilizzo
dei piani dal primo in su, voleva dire che
tutte le destinazioni fossero astrattamente possibili,
salvi - ma tali aspetti non sono stati affrontati
- limiti di altra natura, specie sul versante urbanistico,
oppure il rispetto della normale tollerabilità
delle immissioni ai sensi dell’art. 844 c.c.
Strada, quest’ultima, difficile da percorrere, segnatamente
sul versante probatorio, correndosi il rischio
di dichiarazioni non proprio … disinteressate
- superata la questione della capacità a testimoniare
ex art. 246 c.p.c., trattandosi di lite tra vicini, senza
alcun coinvolgimento del condominio - potendo essere
chiamati a deporre, ad esempio, il cliente affezionato
amico del ristoratore, o gli studenti inquilini
del terzo piano cui erano stati promessi sconti sul
menù oppure il proprietario del piano attico che ce
l’aveva a morte con il condomino attore, tutti pronti
a giurare che, in realtà, la pizzeria era silenziosa
come un convento di suore di clausura.
Come extrema ratio, rimaneva l’espletamento di una perizia fonometrica, ma con il rischio, altrettanto
alto, di applicazione dell’altro brocardo:
“quando viene il CTU, il rumore non c’è più”.
Ma procediamo con ordine, focalizzando l’esame
sulla fattispecie giuridica analizzata dal supremo
consesso decidente.
La causa prendeva, appunto, le mosse dalla domanda
proposta da un condomino nei confronti del suo
confinante, affinché fosse condannato al ripristino
dello status quo ante (oltre al risarcimento dei danni),
sul presupposto che quest’ultimo, in violazione
del regolamento condominiale, aveva adibito l’immobile,
destinato esclusivamente ad uso abitativo,
a pizzeria, mediante la creazione di una scala di
collegamento interna con il sottostante terraneo,
adibito a sua volta anch’esso pizzeria, creando in
tal modo intollerabili immissioni di rumori.
La domanda veniva rigettata in primo grado ma,
in riforma della sentenza del Tribunale, trovava accoglimento
in sede di gravame, per cui la Corte
d’Appello condannava il convenuto al rispristino
della destinazione abitativa per l’immobile di sua
proprietà ubicato al primo piano.
Per quel che rileva in questa sede, il giudice distrettuale
- attesa la pacifica vincolatività del regolamento
condominiale, in quanto trascritto anche nei
registri immobiliari e richiamato anche nel titolo di
provenienza del convenuto - aveva ritenuto che non
poteva condividersi l’interpretazione della disposizione
del regolamento offerta da parte del primo
giudice, il quale aveva opinato che le limitazioni
ivi contemplate valessero solo per i locali cantinati
e terranei, non sussistendo quindi analoghi vincoli
per l’utilizzo degli immobili posti ai piani superiori.
Invece, la previsione di una specifica possibilità
di utilizzo solo per i suddetti locali, imponeva di
ritenere che ab implicito per gli altri locali, quale
appunto l’appartamento del condomino confinante,
fosse vietata una diversa destinazione.
Invero, il regolamento era costruito sul principio
dell’espressa elencazione delle destinazioni consentite,
sicché, in mancanza di un’analoga previsione
anche per gli altri locali diversi dai cantinati
e dai terranei, doveva concludersi per il divieto di
adibire l’appartamento de quo allo svolgimento di
attività commerciale.
Avverso tale decisione, ricorreva per cassazione il
condomino-ristoratore.
In particolare, il ricorrente denunciava la violazione/falsa
applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366,
1367, 1369 e 1370 c.c. nonché dell’art. 832 c.c.
in merito alla corretta interpretazione fornita dalla Corte territoriale della disposizione del regolamento
di condominio di cui sopra.
Infatti, l’interpretazione dei regolamenti condominiali
di origine contrattuale - come quello in esame
- richiedeva, al fine dell’individuazione di limiti all’utilizzo
dei beni di proprietà esclusiva, che fossero
adoperate espressioni non equivoche, occorrendo
che una limitazione al diritto di proprietà derivasse
da una precisa volontà del predisponente il regolamento.
Nel caso in esame, la clausola oggetto di
interpretazione disponeva che: “i locali cantinati e i
terranei potranno essere destinati … all’esercizio di
qualsiasi attività commerciale, industriale, artistica
e professionale, nonché ad uffici, senza alcuna limitazione”.
Rilevava il ricorrente che mancava una
previsione specificamente rivolta a disciplinare l’uso
delle unità immobiliari collocate dal primo piano in
su, e che l’interpretazione offerta dalla Corte di merito
violasse: a) l’art. 1363 c.c., laddove aveva omesso
di valutare il complesso delle previsioni contrattuali,
b) l’art. 1367 c.c., in quanto, in violazione del principio
della conservazione del contratto, gli immobili
dal primo piano a salire non avrebbero avuto alcuna
destinazione, e c) l’art. 1369 c.c., poiché doveva privilegiarsi
l’interpretazione più coerente con la natura
del contratto, essendo viceversa priva di coerenza la
soluzione per cui sarebbe impedito l’utilizzo di gran
parte delle unità immobiliari presenti nell’edificio.
Assumeva, poi, lo stesso ricorrente che il canone
ermeneutico richiamato in motivazione, ubi voluit
dixit, ubi noluit tacuit, sarebbe stato erroneamente
applicato, perché il discorso della volontà implicita
poteva avere ad oggetto solo le unità immobiliari
espressamente richiamate nella disposizione
de qua, non potendo estendersi ai locali posti ai
piani superiori, di cui non vi era menzione alcuna.
Infine, si richiamava il principio costantemente
affermato in giurisprudenza, per il quale le limitazioni
alle facoltà di uso della proprietà individuale
previste nel regolamento condominiale dovevano
connotarsi per chiarezza ed inequivocità, sicché la
soluzione raggiunta nella sentenza gravata contravveniva
evidentemente allo stesso, in quanto mancava
una disposizione regolamentare che si occupasse
delle unità immobiliari poste ai piani superiori, essendo
peraltro presenti altre disposizioni che avevano
invece espressamente disposto anche in ordine
alle restanti unità immobiliari dello stabile.
Gli ermellini hanno accolto il ricorso del condomino-ristoratore.
Al riguardo, si è premesso che costituisce orientamento
consolidato in giurisprudenza quello secondo
cui non è censurabile in Cassazione l’interpretazione
del regolamento di condominio compiuta
dai giudici di merito, salvo che per violazione dei
canoni ermeneutici o per vizi di motivazione (v., da
ultimo, Cass. 8 gennaio 2016, n. 138).
E proprio riguardo all’interpretazione del regolamento
di origine contrattuale, si è ribadito che,
ai fini della ricerca della comune intenzione dei
contraenti, il principale strumento è rappresentato
dal senso letterale delle parole e delle espressioni
utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere
verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale,
sicché le singole clausole vanno considerate in
correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro
coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c. e dovendosi
intendere per “senso letterale delle parole”
tutta la formulazione letterale della dichiarazione
negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che
la compone, e non già in una parte soltanto, quale
una singola clausola di un contratto composto di
più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare
tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il
significato (v., ex plurimis, Cass. 19 ottobre 2012,
n. 18052, in Riv. giur. edil., 2012, I, 1389).
Quindi, una volta ribadita la necessità di fare applicazione
delle regole legali di interpretazione in
materia di contratti anche al caso in esame, si è,
altresì, ricordato che costituisce principio di diritto
del tutto consolidato quello secondo il quale,
riguardo all’interpretazione del contenuto di una
convenzione negoziale adottata dal giudice di
merito, l’invocato sindacato di legittimità non
può investire il risultato interpretativo in sè, che
appartiene all’àmbito dei giudizi di fatto riservati
appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi
esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni
normativi di interpretazione dettati dal legislatore
agli artt. 1362 ss. c.c., e sulla (in)coerenza e (il)
logicità della motivazione addotta (v., tra le tante,
Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465, in Foro it., Rep.
2015, voce Contratto in genere, n. 310).
D’altronde, l’indagine ermeneutica è, in fatto, riservata
esclusivamente al giudice di merito, e può
essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza
della motivazione o per violazione delle
relative regole di interpretazione, con la conseguenza
che non può trovare ingresso la critica della ricostruzione
della volontà negoziale operata dal giudice
di merito che si traduca nella prospettazione
di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi
elementi di fatto esaminati dal giudice a quo.
Orbene, pur a fronte di tali doverose premesse, i
magistrati del Palazzaccio hanno reputato che l’interpretazione,
che della clausola regolamentare di
cui sopra era stata offerta dalla Corte territoriale,
non possa essere condivisa, ponendosi la stessa in
contrasto con i principi che debbono presiedere
l’interpretazione, tenuto conto in particolare dei
consolidati principi espressi in tema di limitazioni
convenzionali al diritto di proprietà, scaturenti da
un regolamento condominiale di natura contrattuale,
come appunto quello di specie.
Anche di recente, si è ribadito (v. Cass. 11 settembre
2014, n. 19229, in Vita notar., 2014, 1349) che
il regolamento condominiale di origine contrattuale
può imporre divieti e limiti di destinazione alle
facoltà di godimento dei condomini sulle unità
immobiliari in esclusiva proprietà, sia mediante
elencazione di attività vietate, sia con riferimento
ai pregiudizi che si intende evitare.
In quest’ultimo caso, peraltro, per evitare ogni
equivoco in una materia atta a incidere sulla proprietà
dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono
risultare da espressioni chiare, avuto riguardo,
più che alla clausola in sé, alle attività ed ai
correlati pregiudizi che la previsione regolamentare
intende impedire, così consentendo di apprezzare
se la compromissione delle facoltà inerenti allo
statuto proprietario corrisponda ad un interesse
meritevole di tutela. Sul punto, si è affermato che
la compressione di facoltà normalmente inerenti
alle proprietà esclusive dei singoli condomini deve
risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici
di un intento chiaro, non suscettibile di dar
luogo a incertezze (v., ex multis, Cass. 7 gennaio
2004, n. 23, in Arch. loc. e cond., 2004, 698, con
nota di M. DE TILLA; Cass. 3 luglio 2003, n. 10523,
in Contratti, 2004, 31, commentata da A. NATALI e
C. NATALI; Cass. 1 ottobre 1997, n. 9564, in Corr.
giur., 1997, 1304, con nota di V. CARBONE).
Ciò implica che, nella ricerca della comune intenzione
o - come nella fattispecie in esame - nell’individuazione
della regola dettata dal regolamento
contrattuale, non possa prescindersi dall’univocità
delle espressioni letterali utilizzate, dovendosi in
linea di principio rifuggire da interpretazioni di carattere
estensivo, sia per quanto attiene all’àmbito
delle limitazioni imposte alla proprietà individuale,
ma ancor più per quanto concerne “la corretta individuazione
dei beni effettivamente assoggettati
alla limitazione circa le facoltà di destinazione” di
norma spettanti al proprietario.
In quest’ordine di principi, il Supremo Collegio
ha osservato che, dal tenore della motivazione
dell’impugnata sentenza, la previsione del divieto
di utilizzo delle unità immobiliari poste a partire
dal primo piano del fabbricato, ad un uso diverso
da quello abitativo, è stata tratta da una previsione
che, in realtà, si occupava specificamente solo
dei limiti alla facoltà di utilizzo dei locali terranei
e dei cantinati, ricavandosi quindi da una previsione,
che pur lasciava ampie facoltà di utilizzo
dei suddetti locali, ed “in assenza di una chiara ed
univoca volontà esplicitata”, l’esistenza di un limite
estremamente rigoroso quanto alle possibilità di
utilizzo degli immobili aventi diversa natura, tra
cui anche l’appartamento del ricorrente.
D’altronde, lo stesso regolamento, laddove ha inteso
disporre dei limiti alle facoltà di utilizzo di tutti i locali, ivi inclusi anche gli appartamenti posti a
partire dal primo piano, lo ha chiaramente esplicitato,
come appunto in altre previsioni dello stesso
regolamento, quanto alla possibilità per la società
costruttrice di apporre cartelli o bandiere luminose
anche in corrispondenza della facciata dell’edificio,
oppure quanto alla possibilità di ospitare solo animali
quali cani, gatti ed uccelli.
La necessità, in ragione dell’esigenza di limitare al
massimo la compressione delle proprietà individuali,
in considerazione della storica configurazione
del diritto di proprietà, imponeva quindi un’interpretazione
del regolamento fondata sulla chiarezza
ed univocità del tenore e delle espressioni letterali,
dovendosi rifuggire, pertanto, da un’esegesi
invece ancorata alla ricostruzione di una “volontà
implicita” - come invece era accaduto nella fattispecie
- trascurandosi altresì l’adeguamento al
canone interpretativo di cui all’art. 1363 c.c. che,
tenuto conto dell’esistenza di altre previsioni in
materia di limitazioni della proprietà individuale,
avrebbe dovuto imporre di valutare le limitazioni
alla proprietà individuale dal coacervo delle previsioni
regolamentari, secondo un principio di tendenziale
e rigida tassatività.
Ad avviso del Supremo Collegio, tradisce l’elaborazione
giurisprudenziale circa la portata ed i limiti
suscettibili di essere dettati dal regolamento condominiale,
la premessa alla quale dichiara volersi
rifare nell’interpretazione della disposizione regolamentare
il giudice di appello, laddove afferma
che il regolamento condominiale sarebbe costruito
sul principio - non già dell’espressa individuazione
delle limitazioni imposte, come suggerito dai precedenti
sopra citati, bensì - dell’espressa elencazione
delle destinazioni consentite.
Alla luce dei suesposti principi, proprio il brocardo
ubi voluit dixit, ubi noiluit tacuit - richiamato
nella motivazione del giudice adìto - avrebbe dovuto
condurre ad una conclusione affatto diversa
da quella raggiunta, dovendosi appunto reputare
che solo le limitazioni espressamente previste possono
reputarsi operative, essendo il silenzio sintomatico,
più che di una volontà di porre dei limiti,
piuttosto della “necessità di preservare integre le
facoltà tipiche del diritto di proprietà”.
Come dire, la pizzeria è lecita se è realizzata al primo
piano, solo perché il regolamento nulla dica sul
punto, e segnatamente non contempli il divieto di
tale destinazione, e ciò anche se il fabbricato, nel
suo complesso, è da sempre adibito ad uso abitativo,
dovendo … ringraziare l’attore - poi soccombente -
che gli utenti, per accedervi, utilizzino solo la scala
di collegamento interna ad un vano ubicato al piano
terra (parimenti destinato a pizzeria), posto che,
trattandosi di beni comuni, avrebbero potuto servirsi
pure delle scale e dei pianerottoli condominiali.
di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione
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