giovedì 17 novembre 2016

IL TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIAZIONE

Oggi, in tutte le suddette controversie, direttamente o indirettamente afferenti alla realtà condominiale - e, in un prossimo futuro, per tutte le cause condominiali - il giudice di pace, in forza dell'art. 320, comma 1, c.p.c., deve, alla prima udienza, interrogare liberamente le parti e tentare la conciliazione, che resta, pur sempre, un connotato caratterizzante la sua figura, infatti, interrogate liberamente le parti, il giudlce di pace dovrebbe aver tratto dalle loro risposte ulterlori elementi rispetto a quelli contenuti nelgli atti introduttivi - atto di citazione e comparsa di risposta - ed essersi fatto un quadro sufficientemente chiaro della fattispecie oggetto della controversia condominiale, sicché potrebbe procedere al tentativo obbligatorio di conciliazione.
In questa prospettiva, l'interrogatorio libero nel procedimento davanti al giudice di pace risulta strettamente implicato con l'attività conciliativa, che deve essere contestualmente svolta da tale magistrato onorario; l'indicativo usato dal legislatore - nella prima udienza il giudice tenta la conciliazione - induce a ritenere come obbligatorio l'espletamento di tale incombente processuale, a differenza del giudice togato per il quale, a norma dell'art. 185 c.p.c. (come modificato dalla legge n. 80/2005), lo stesso è diventato facoltativo, in pratica, prima, il tentativo obbligatorio di conciliazione davanti al tribunale era previsto come adempimento necessario della prima udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c., in cui era espressamente contemplata la comparizione personale dei contendenti, mentre oggi, ai sensi del novellato comma 3, è rimesso alla "richiesta congiunta delle parti", solo in forza della quale il giudice fissa una nuova, apposita, udienza, "al fine di interrogarle liberamente e di provocarne la conciliazione".
A questo punto, se la conciliazione riesce, il comma 2 dell'art. 320 c.p.c. prevede che si debba redigere processo verbale a norma dell'art. 185, ultimo comma, c.p.c., separato da quello di udienza (art. 88 disp. att. c.p.c.), e sottoscritto dalle parti, dal giudice e dal cancelliere, che ha valore di titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c., alla conciliazione - che, dal punto di vista sostanziale, produce effetti simili alla transazione - consegue, sotto il profilo processuale, l'estinzione del giudizio che dovrebbe operare di diritto senza formali dichiarazioni, anche se la prassi opta per un provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo.
Se, invece, la conciliazione fallisce - salvo che il magistrato onorario non intenda fissare un'altra udienza per ripetere l'incombente visti gli esiti della trattativa - il processo prosegue il suo iter (art. 320, comma 3, c.p.c.), senza escludere la possibilità di rinnovare il suddetto anche in seguito ex artt. 117 e 185 c.p.c., perché il relativo espletamento è rimesso al potere discrezionale del giudice di pace, al quale compete il dovere funzionale di valutare, dall'esame preliminare del fascicolo nonché in relazione anche agli assunti delle parti ed al loro comportamento processuale, se sussista la possibilità, anche remota, di un esito favorevole, individuando così gli eventuali margini di composizione della lite condominiale.
Una considerazione a parte merita, invece, la conciliazione extragiudiziaria dinanzi al giudice di pace prevista dall'art. 322 c.p.c., attesa la somiglianza e, quindi, il rischio di duplicazione rispetto alla mediazione di cui al d.lgs. n. 28/2010, poiché entrambi i rimedi sono extragiudiziari e rivolti alla soluzione di una controversia insorta tra le parti.
Le principali differenze consistono nella base volontaria, anziché obbligatoria, che caratterizza la conciliazione stragiudiziale dinanzi al giudice onorario, e nel soggetto cui è affidata, ossia un organo giurisdizionale che opera in veste pubblicistica, attraverso un meccanismo caratterizzato da minori costi ed intrinsecamente dotato di maggiori garanzie di autonomia, indipendenza e terzietà, rispetto alla mediazione, la quale può avvenire anche dinanzi ad organismi privati.
La base volontaria della conciliazione dinanzi al giudice di pace, ai sensi del citato art. 322, escluderebbe, poi, che l'istituto possa rientrare tra "i procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati", le cui disposizioni "restano ferme" in base all'art. 23, comma 2, delle norme delegate, con la conseguenza che - proprio, o soltanto, perché non obbligatorie - tali conciliazioni non sono esperibili in luogo dei procedimenti di mediazione previsti dal d.lgs. n. 28/2010.
Dunque, accanto all'esercizio della "giurisdizione in materia civile", in ordine alla quale il giudice di pace agisce come un vero e proprio magistrato, onorario, appartenente all'ordine giudiziario (art. 1 della legge n. 374/1991), il legislatore ha contemplato, in capo allo stesso, la "funzione conciliativa in materia civile", regolata da norme specifiche (art. 322 c.p.c.), che richiede ladozione di stili e metodi diversi.
Il tentativo di conciliazione in sede non contenziosa si distingue, comunque, da quello che lo stesso giudice di pace deve esperire in sede contenziosa (art. 320, comma 1, c.p.c.): il primo é un procedimento autonomo rispetto al successivo ed eventuale giudizio, preventivo (in quanto finalizzato ad evitare quest'ultimo) e facoltativo rispetto all'inizio della lite giudiziaria (quale che sia la materla o/e il valore della causa), mentre il secondo è obbligatorio e finalizzato a comporre amichevolmente una lite giudiziaria già in atto (esclusivamente nelle controversie che rientrano nella competenza del giudice onorario).

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