Sui poteri istruttori del giudice tributario, ed in particolare sui suoi limiti, la Corte di Cassazione – Sez. Tributaria - nel corso degli anni ha stabilito importanti principi con le seguenti sentenze:
- n. 673/2007;
- n. 23580/2009;
- n. 14960/2010;
- n. 26392/2010;
- n. 26741/2013;
- n. 14244/2015;
- n. 955/2016;
- n. 12308/2016.
L’art. 7 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 attribuisce
al giudice tributario il potere di disporre
l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova non per
sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo
i rispettivi oneri probatori, ma soltanto
in funzione integrativa degli elementi di giudizio,
il cui esercizio è consentito ove sussista una situazione
obiettiva di incertezza e laddove la parte
non possa provvedere a disporre i documenti nella
disponibilità della controparte o di terzi (Cass. n.
955 del 2016).
Il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di
mezzi di prova dev’essere interpretato alla luce
del principio di terzietà sancito dall’art. 111
Cost., il quale non consente al giudice di sopperire
alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo
i rispettivi oneri probatori, ma gli attribuisce
solamente un potere istruttorio in funzione integrativa,
e non integralmente sostitutiva, degli
elementi di giudizio (Cass. Civ., Sez. 5, n. 673 del
15/01/2007).
Tale potere, pertanto, può essere esercitato soltanto
ove sussista un’obiettiva situazione di incertezza,
al fine di integrare gli elementi di prova
già forniti dalle parti e non anche nel caso in cui
il materiale probatorio acquisito agli atti imponga
una determinata soluzione della controversia.
In tema di contenzioso tributario, comunque, il
giudice tributario non è obbligato ad esercitare
“ex officio” i poteri istruttori di cui all’art. 7 del
d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, salvo che non
sussista il presupposto dell’impossibilità di acquisire
la prova altrimenti, come nel caso in cui
una delle parti non possa conseguire documenti
in possesso dell’altra (Cass. n. 14244 del 2015).
Discendono da tale premessa due corollari, con riferimento ai presupposti ed ai limiti di operatività
dei poteri istruttori conferiti al giudice tributario
dall’art. 7 citato.
Anzitutto, come questa la Corte di Cassazione
ha avuto modo di chiarire, l’art. 7 più volte
citato, laddove attribuisce al giudice il potere
di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di
prova, e dunque anche nell’ora abrogato terzo
comma (che attribuiva «alle commissioni tributarie
facoltà di ordinare alle parti il deposito
di documenti ritenuti necessari per la decisione
della controversia»), dev’essere interpretato alla
luce del principio di terzietà sancito dall’art. 111
Cost., il quale non consente al giudice di sopperire
alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo
i rispettivi oneri probatori, ma gli attribuisce
solamente un potere istruttorio in funzione
integrativa, e non integralmente sostitutiva,
degli elementi di giudizio (Cass. Civ., Sez. 5, n.
673 del 15/01/2007).Tale potere, pertanto, può essere esercitato soltanto
ove sussista un’obiettiva situazione di incertezza,
al fine di integrare gli elementi di prova
già forniti dalle parti e non anche nel caso in cui
il materiale probatorio acquisito agli atti imponga
una determinata soluzione della controversia (cfr.
Cass. Civ., Sez. 5, n. 24464 del 17/11/2006, Rv.
594275; n. 14960 del 22/06/2010, Rv. 613988)
e sempre che la parte su cui ricade l’onere della
prova non abbia essa stessa la possibilità di
integrare la prova già fornita ma questa risulti
piuttosto ostacolata dall’essere i documenti in
possesso dell’altra parte o di terzi (v. Cass. Civ.,
Sez. 5, n. 7078 del 24/03/2010; Sez. 5, n. 10970
del 14/05/2007).
In secondo luogo i poteri in questione non sono
arbitrari ma discrezionali ed il loro esercizio, così
come il loro mancato esercizio, deve essere adeguatamente
motivato (v. Cass. Civ., Sez. 5, n. 673
del 2007, cit.)
In ogni caso, non può revocarsi in dubbio che a
fronte di un avviso di rettifica da parte dell’amministrazione
che richiamava espressamente
elementi di indagine ricavati dagli accertamenti
operati dalla Guardia di Finanza ed a fronte delle
contestazioni mosse dal contribuente circa la legittimità
della verifica operata dalla Guardia di Finanza
e l’attendibilità dei relativi esiti, l’onere di
dimostrare la legittimità della pretesa fiscale ricadeva
in capo all’amministrazione finanziaria e non
poteva prescindere dalla produzione del p.v.c..
Ciò posto non si conforma a una corretta interpretazione
dell’art. 7 più volte citato, quale
compendiata nei principi sopra enunciati, circa
i poteri istruttori attribuiti alle commissioni
tributarie, l’affermazione contenuta in varie
sentenze di merito secondo cui sarebbe sempre
consentito ad esse «ordinare alla parte la presentazione
di documenti che presentino incisiva
rilevanza ai finì della decisione» e costituirebbe
per converso dovere del giudice in tale situazione
l’esercizio di tale potere.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte, una
tale incondizionata declinazione dei poteri
istruttori del giudice tributario non può essere
condivisa e tanto più la stessa deve ritenersi
erronea nel caso di specie, nel quale la mancata
attivazione di tali poteri da parte del primo giudice
risultava anche giustificata dal fatto che,
come pacifico in atti, lo stesso aveva espressamente
invitato l’amministrazione alla produzione
del p.v.c., a tal fine anche accordando un rinvio
della trattazione, rimasto però infruttuoso,
essendo anche alla successiva udienza la parte
rimasta inerte senza addurre a quanto costa alcuna
idonea giustificazione.
Occorre ribadire il principio espresso dalla Corte
di Cassazione (sentenza n. 2787/2006; n.
23580/2009) secondo cui “In tema di contenzioso
tributario, l’art. 58 del d.lgs. 31 dicembre
1992, n.546 fa salva la facoltà delle parti
di produrre nuovi documenti anche al di fuori
degli stretti limiti consentiti dall’art.345 codice
procedura civile, ma tale attività processuale
va esercitata stante il richiamo operato
dall’art.61 del citato d.lgs. alle norme relative
al giudizio di primo grado entro il termine
previsto dall’art.32, comma primo, dello stesso
decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima
dell’udienza con l’osservanza delle formalità di
cui all’art.24, comma primo.
Tale termine, anche in assenza di espressa previsione
legislativa, deve ritenersi di natura perentoria,
e quindi sanzionato con la decadenza, per
lo scopo che persegue e la funzione che adempie
(rispetto del diritto di difesa e del principio del
contraddittorio):con la conseguenza che resta
inibito al giudice di appello fondare la propria
decisione sul documento tardivamente prodotto
anche nel caso di rinvio meramente “interlocutorio”
dell’udienza su richiesta del difensore, o di
mancata opposizione della controparte alla produzione
tardiva, essendo la sanatoria a seguito
di acquiescenza consentita con riferimento alla
forma degli atti processuali e non anche relativamente
all’osservanza dei termini perentori (art.
153 cod. proc. civ.)”.
Nel processo tributario, che è dotato di una sua propria specificità (cfr. l’art. 1 d.lgs. 546/1992),
il principio dispositivo, mentre opera incondizionatamente
in tema di onere di allegazione, incontra
un qualche temperamento in materia di prova.
Al riguardo, in particolare, l’art. 7, più volte citato,
prevede che le commissioni tributarie “ai fini
istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti,
esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta
di dati, di informazioni e chiarimenti conferite
agli uffici tributari o all’ente locale da ciascuna
legge d’imposta”.
Il comma 3 dello stesso articolo ha, inoltre, previsto
(fino alla sua abrogazione, disposta, peraltro,
solo, dal 02/12/2015, con l’art. 3/bis comma 5,
inserito nel D.L. 203/2005 dalla legge di conversione
248/2005) “è sempre data alle commissioni
tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito
di documenti ritenuti necessari per la decisione
della controversia”.
La portata della disposizione assai ampia se ci si
attiene al solo dato letterale è stata definita dalla
giurisprudenza costante della Corte di Cassazione,
che ha reiteratamente puntualizzato:
- che l’esercizio dei poteri di acquisizione d’ufficio, attribuiti dall’art. 7, commi 1 e 3, d.lgs. 546/1992 alle commissioni tributarie, non può sopperire al mancato assolvimento dell’onere della prova, che grava sulle parti in base al criterio di cui all’art. 2697 c.c. (v. Cass. 905/06, 7129/03), potendo, al più, intervenire in funzione di mera integrazione, ma mai di integrale sostituzione (v. Cass. 15214/00);
- che il predetto esercizio costituisce facoltà discrezionale, ma non arbitraria, del giudice tributario, sicché in una situazione in cui il documento da acquisire appaia astrattamente presentare incisiva rilevanza ai fini della decisione, l’esercizio di tale potere istruttorio configura un dovere del giudice, il cui mancato assolvimento è illegittimo, se non motivato (v. Cass. 905/06, 7129/03).
In definitiva, il giudice tributario non è obbligato
ad esercitare ex officio i poteri istruttori di cui
all’art. 7 più volte citato, salvo che non sussista
il presupposto della impossibilità di acquisire la
prova altrimenti.
In conclusione, anche alla luce di tutti i suesposti
principi, è auspicabile che nella fase istruttoria
del giudizio tributario sia ammessa anche
la testimonianza, per mettere su un piano di
effettiva e concreta parità processuale il contribuente
ed il fisco, come più volte ho suggerito
nei miei articoli.
di Maurizio Villani
Avvocato Tributarista in Lecce
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