lunedì 30 novembre 2015

L’esercizio di una piscina e la responsabilità del gestore

Le Sentenze C. Cass. n. 29886/2012 e n. 18569/2013

La responsabilità penale dell’amministratore di condominio va ricondotta nell’ambito della disposizione per la quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo”.

Nei condomini sono sempre più diffuse le piscine che non soltanto aggiungono valore economico agli immobili, ma costituiscono, principalmente, un elemento di aggregazione e svago sempre più richiesto dai cittadini. Tuttavia l’esercizio delle stesse configura un’attività pericolosa, ex art. 2050 c.c., fonte di elementi di responsabilità civile e penale che deve essere accuratamente vagliata con l’ausilio della dottrina e della giurisprudenza.
  • La responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c..
Il fondamento della responsabilità extracontrattuale è quello dell’articolo 2043 del codice civile il quale, in ossequio ad una tradizione giuridica trimillenaria, stabilisce la responsabilità civilistica e l’obbligo di risarcire il danno per colui che ha cagionato con dolo o colpa ad altri un danno ingiusto. Tale regime, sia pur rispondente ad un alto principio di civiltà ovvero quello della responsabilità individuale , espone il danneggiato ad una serie di oneri probatori spesso di difficile attuazione: vale a dire che, al fine di vedersi riconoscere il diritto al risarcimento del danno, deve provare:
  • il danno;
  • il nesso di causalità tra il danno e l’operato dell’agente;
  • l’ingiustizia del danno;
  • la sussistenza dell’elemento soggettivo doloso o colposo nella condotta dell’agente.
La dottrina afferma che il legislatore , nelle ipotesi di responsabilità aggravata, per avvantaggiare la persona danneggiata, disciplina in maniera diversa e più grave per i soggetti che creano dei rischi, la problematica inerente l’individuazione del responsabile del danno. Nel caso di danno di cose in custodia, particolarmente ricorrente nei casi giurisprudenziali avvenuti all’interno del condominio, l’articolo 2051 del codice civile stabilisce che ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito. In tali casi il legislatore presume che se fossero state adottate tutte le precauzioni, previste in particolare dalla normativa specialistica di sicurezza nei luoghi di vita e di lavoro, idonee ad evitare il danno, quest’ultimo non si sarebbe verificato. Pertanto è ritenuto responsabile chi aveva in custodia la cosa che ha provocato il danno, a meno che non venga provato il fatto di un terzo o uno specifico evento imprevedibile e inevitabile , estraneo alla cosa o al custode (Vedasi Manuale di diritto privato, Andrea Torrente e Piero Schlesinger, Milano, Giuffrè Editore, pagine 670 - 671).
La giurisprudenza ha così ridotto il margine della prova liberatoria per il danneggiante al punto di consentire l’affermazione per cui vige un regime di responsabilità oggettiva; a tal riguardo è sufficiente esaminare le seguenti massime.
  1. "La responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c. sussiste quando ricorrano due presupposti : un’alterazione della cosa che, per le sue intrinseche caratteristiche determina la configurazione nel caso concreto della cosiddetta insidia o trabocchetto e l’imprevedibilità e l’invisibilità di tale alterazione per il soggetto che, in conseguenza di questa situazione di pericolo, subisce un danno. (Nel caso trattato la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni riportati da un’inquilina di un edificio a seguito di una caduta causata da acqua piovana infiltratasi dalla finestra, ritenendo prevedibile l’evento, in quanto lo stesso si era verificato in un condominio e aveva coinvolto un’inquilina ivi abitante da anni e, quindi, a conoscenza di tutte le caratteristiche dell’immobile). ( C. Cass. civ, Sez. 3, Sent. n. 11592 del 13.5.2010, Rv. 613371)".
  2. "Il condominio di un edificio , quale custode dei beni e dei servizi comuni, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie, affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno rispondendo , in base all’art. 2051 c.c., dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini ( nella specie, infiltrazioni d’acqua provenienti dal muro di contenimento di proprietà condominiale), ancorché tali danni siano imputabili a difetti costruttivi dello stabile.” (C.Cass. Civ. , Sez. 2, Sent. n. 15291 del 12.7.2011, Rv. 618637)"
  3. "In tema di responsabilità civile per i danni cagionati da cose in custodia , la fattispecie di cui all’art. 2051 c.c. individua un’ipotesi di responsabilità oggettiva e non una presunzione di colpa, essendo sufficiente per l’applicazione della stessa la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo. Pertanto non rileva in sé la violazione dell’obbligo di custodire la cosa da parte del custode, la cui responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma al profilo causale dell’evento, riconducibile in tal caso non alla cosa che ne è fonte immediata, ma ad un elemento esterno. Ne consegue che il vizio di costruzione della cosa in custodia, anche se è ascrivibile al terzo costruttore, non esclude la responsabilità del custode nei confronti del terzo danneggiato, non costituendo caso fortuito che interrompe il nesso eziologico, salva l’azione di rivalsa del danneggiante – custode nei confronti dello stesso costruttore. ( Nel caso trattato la Suprema Corte, pur ribadendo il suddetto principio, ha confermato la sentenza impugnata con la quale era stata esclusa la responsabilità del condominio custode per i danni assunti come arrecati dal cattivo funzionamento della rete fognaria condominiale, essendo rimasto accertato che lo stesso aveva dimostrato che l’evento dannoso si era verificato, in via esclusiva, per un vizio intrinseco intrinseco della cosa, addebitabile unicamente alla società costruttrice che , nel caso specifico, si identificava con la stessa parte attrice quale proprietaria di alcuni immobili siti nel condominio convenuto in giudizio, da ritenersi, perciò, essa stessa responsabile nei confronti del condominio medesimo.). ( C.Cass. Civ., Sez. 3, Sent. n. 26051 del 30.10.2008, Rv. 605339)."

L’amministratore garante della sicurezza del condominio

Il fondamento dottrinario che attesta il dovere del datore di lavoro di tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore si trova in due articoli del codice civile e rispettivamente :
  • l’art. 2086 (direzione e gerarchia nelle imprese) per cui : “L’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”. 
  • l’art. 2087 (tutela delle condizioni di lavoro) per cui : “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misureche , secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.”
Pertanto che il legislatore ritiene che all’interno dell’impresa esista un rapporto corrispettivo per il quale se il datore di lavoro può ordinare l’esecuzione di prestazioni lavorative ai propri dipendenti, nell’ambito delle mansioni previste dal contratto, d’altra parte deve tutelare la loro sicurezza e salute secondo la migliore tecnica ed esperienza vigenti e validate dal modo tecnico e scientifico. Questo è il fondamento giuridico della costruzione dottrinaria la quale individua nel datore di lavoro la titolarità di una posizione di garanzia nei confronti dei lavoratori dipendenti, che costituisca tre le due parti una posizione sinallagmatica di sicurezza, ovvero una relazione corrispettiva tra l’ordine gerarchico impartito dall’imprenditore e la sicurezza del dipendente, la quale è stata riconosciuta dalla giurisprudenza quale suo addebito fondamentale di responsabilità in caso di infortunio del dipendente.
A tal proposito si afferma:
- “Gli articoli 2086 e 2104 del codice civile che prevedono il potere gerarchico del datore di lavoro sul lavoratore devono essere interpretati alla luce del generale principio secondo cui ciascuna parte contrattuale può pretendere e deve fornire soltanto le prestazioni previste nel contratto.
Ne consegue che, da un lato, i superiori gerarchici non possono richiedere prestazioni che siano chiaramente escluse dal contratto medesimo e che, dall’altro, il lavoratore, che non voglia attendere l’esito del giudizio in sede sindacale o giudiziaria, ha diritto di rifiutare prestazioni di tale tipo, correndo il rischio, conseguente a tale comportamento, di essere successivamente ritenuto responsabile di inadempimento qualora venga eventualmente accertata la legittimità dell’ordine disatteso. (C.Cass. Civ, sez. l, sent. n. 5463 del 8/6/1999)»;
La responsabilità penale dell’amministratore condominiale per gli infortuni incorsi ai lavoratori dipendenti è stata stabilita dalle seguenti pronunce giurisprudenziali:
  1. “La responsabilità penale dell’amministratore di condominio va considerata e risolta nell’ambito del capoverso dell’art. 40 c.p. che stabilisce che “non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo”. Per rispondere del mancato impedimento di un evento è, cioè, necessario, in forza di tale norma, l’esistenza di un obbligo giuridico di attivarsi allo scopo; detto obbligo può nascere da qualsiasi ramo del diritto e quindi anche dal diritto privato e, specificamente, da una convenzione che da tale diritto sia prevista e regolata come è dal rapporto di rappresentanza volontaria intercorrente fra il condominio e l’amministratore.” (C.Cass. , Sez. 3, sent. n. 332 del 11.5.1967, ud. 24.2.1967 – C.Cass. , Sez. 3, sent. N. 4676 del 14.3.1975, dep. il 14.4.1976).
  2. “L’amministratore di uno stabile, sia che operi per conto di un solo proprietario (persona fisica o giuridica), sia che agisca per conto di un condominio ha la titolarità dei poteri attinenti alla conservazione e alla gestione delle cose e dei servizi comuni fra i quali rientra anche quello di attivarsi per l’eliminazione di situazioni che possono potenzialmente causare la violazione del principio del “neminem laedere” e di provvedere o, quantomeno, riferirne al proprietario; l’identificazione dei singoli obblighi in concreto incombenti sull’amministratore deve essere effettuata, sulla base delle norme legislative, statutarie o regolamentari, nelle singole fattispecie. (C.Cass. , sez.4, sent. n. 6757 del 6.5.1983, dep. Il 14.7.1983).
  3. “La responsabilità penale dell’amministratore di condominio va ricondotta nell’ambito della disposizione (art. 40, secondo comma, c.p.) per la quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo”. Per rispondere del mancato impedimento di un evento è, cioè, necessario, in forza di tale norma, l’esistenza di un obbligo giuridico di attivarsi allo scopo; detto obbligo può nascere da qualsiasi ramo del diritto e quindi anche dal diritto privato e, specificamente, da una convenzione che da tale diritto sia prevista e regolata come è dal rapporto di rappresentanza volontaria intercorrente fra il condominio e l’amministratore.” In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto configurabile a carico dell’amministratore di condominio un obbligo di garanzia in relazione alla conservazione delle parti comuni, in una fattispecie di incendio riconducibile ad un difetto di installazione di una canna fumaria di proprietà di un terzo estraneo al condominio che attraversava le parti comuni dell’edificio”. (C.Cass. , Sez. 4, sent. n. 39959 del 23.9.2009, dep. Il 13.10.2009).

L’esercizio della piscina come attività pericolosa ai sensi dell’art.2050 c.c.: la Sentenza Corte di Cassazione n. 29886/2012

L’esercizio di una piscina da un lato si inquadra giuridicamente nell’articolo 2051 c.p. e delle normative regionali di riferimento e dall’altro può comportare la responsabilità penale dell’esercente, secondo il principio generale di garanzia stabilito dall’art. 40, secondo comma, c.p. per gli infortuni colposamente cagionati ai frequentatori. Inoltre le fonti giuridiche possono comprendere anche quelle della responsabilità aggravata prevista all’articolo 2050 c.c. per il quale: “chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.”
In tale contesto la Corte di Cassazione Penale (Quarta Sezione, sent. n. 18569/2013, del 29.1.2013, depositata il 24.4.2013) ha definito attività pericolosa l’esercizio di una piscina affermando quanto segue. “Il fatto decisivo è che, con tutta evidenza, la piscina costituisce una struttura pericolosa, sia quando è in esercizio, sia quando non lo è. Si tratta di rischi diversi che vanno diversamente cautelati. Nel corso dell’esercizio va assicurata, come ritenuto dai giudici di merito, la presenza di personale di salvataggio che sorvegli le attività ginniche o ricreative che vi si svolgono. Quando la struttura non è operativa, la vasca costituisce pur sempre un’entità costituente fonte di pericolo, derivante soprattutto dalla presenza di acqua, in relazione alle possibilità di caduta accidentale e di incongrue iniziative da parte degli utenti della struttura. Pure tale rischio deve essere cautelato in modo appropriato in rapporto alla concreta conformazione dei luoghi. In linea generale ed astratta, ferma la facoltà di scelta del garante in ordine alla selezione dello strumento adeguato alla efficiente gestione del rischio, pare ragionevole che l'esercente della struttura delimiti l’area con transenne, barriere o apparati equivalenti che inibiscano l’accesso alla vasca e rendano chiaro, esplicitamente o implicitamente, che la struttura non è in esercizio e ne vietino, quindi, l’uso.
Tale ordine di idee si rinviene nella condivisa giurisprudenza di questa Suprema Corte. Si è infatti ritenuto che il legale rappresentante della società che gestisce un complesso turistico in cui è presente una piscina è titolare di una posizione di garanzia in ordine all’incolumità degli utilizzatori della struttura e pertanto risponde del reato di omicidi colposo nel caso di annegamento di un minore a causa dell’insufficiente manutenzione dell’impianto e della mancata predisposizione di un presidio di salvataggio continuativo durante i funzionamento dello stesso (Cass., IV, 1/7/2008, n. 45006, Rev. 241998). Con riguardo , invece , alla situazione in cui la piscina non sia in esercizio si è enunciato il principio che integra il reato di omicidio colposo la condotta del direttore di un albergo che non inibisca materialmente l’accesso alla piscina negli orari in cui non è garantito il servizio di salvataggio, ma si limiti ad esporre il regolamento di utilizzo della medesima contenente un divieto in tal senso, qualora degli ospiti vi anneghino facendo il bagno nell’orario non consentito. In motivazione si è precisato l’avventato comportamento dei clienti doveva ritenersi prevedibile dal direttore dell’albergo, che dunque non poteva ritenere assolto l’obbligo connesso alla sua posizione di
garanzia attraverso l’affidamento nella scrupolosa osservanza del regolamento della piscina da parte dei medesimi (Cass., IV, 22.10.2010 n. 45698, Fonnesu, Rv. 241759).
Non è dissonante con tali enunciazioni altra pronuncia evocata dal ricorrente in cui è stata annullata senza rinvio la sentenza che aveva affermato la responsabilità per omicidio colposo del gestore di un ristorante con annessa piscina. In motivazione si è argomentato che l’imputato era sicuramente titolare di una posizione di garanzia in forza della quale era tenuto ad assicurare l’incolumità fisica degli utenti mediante l’idonea organizzazione dell’attività sportiva e l’incolumità comunque dei clienti del ristorante nel periodo di non funzionamento dell’impianto. Nel caso di specie, si è soggiunto, è risultato che l’impianto stesso, al momento dell’occorso, chiaramente non era in funzione mancando l’illuminazione serale, esso era contornato da barriere metalliche per evitare eventuali cadute accidentali in acqua; e d’altro canto, si è infine considerato, risulta con certezza che la vittima non è caduta accidentalmente nella piscina, ma si è gettato in essa volontariamente pur non sapendo nuotare, malgrado il divieto espresso, rimarcato dal transennamento della vasca (Cass., IV, 30 aprile 2009, Sansone, Rv. 244229). Da tale condiviso indirizzo della giurisprudenza appare dunque confermato che, come sopra esposto, pur quando la piscina non sia in esercizio, il garante della sicurezza della struttura fonte di possibili rischi non può fare a meno di adottare misure (barriere, transenne ecc.) che, pur implicando una qualche misura di affidamento sull’osservanza delle prescrizioni, inibiscano l’accesso alla vasca e rendano altresì chiaro, tangibile il divieto di utilizzo della vasca. Nel caso di specie, come si è esposto, tali ostacoli fisici erano del tutto assenti. Dunque, conclusivamente, attesa l’assenza di qualsiasi predisposizione volta alla sicurezza, la responsabilità si configura pure ritenendo, come ravvisato dal primo giudice e dal ricorrente, che la vasca non fosse disponibile per l ‘utilizzazione da parte dei clienti.” Inoltre degna di nota, sotto il profilo della ricostruzione della normativa secondaria di sicurezza nell’uso e nella sorveglianza delle piscine, è la sent C. Cass. n. 29886/2012 la quale afferma: “a fronte dell’esercizio di un turbo scivolo da piscina, ritenuto dallo stesso albergatore, altamente pericolo, incombeva su chi teneva in esercizio lo strumento pericoloso di adottare tutte le misure idonee ad evitare danni secondo la logica di funzionamento della parte preventiva della prescrizione di cui all’art. 2051 del codice civile. La sentenza non fornisce adeguata motivazione circa le ragioni di esclusione di generiche obbligazioni di diligenza e prudenza secondo il combinato degli artt. 590 e 40, 42 e 43 c.p. e tanto meno circa specifiche misure di prudenza e diligenza mutuabili dal DM 18/3/1996 che impone l’impiego di un assistente bagnante per vasche con specchio d’acqua superiore a mq. 50 anche inseriti in complessi non sportivi e privi di spettatori o ancora mutuabili dall’art. 4 dell’Accordo tra il Ministro della Salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano del 16 gennaio (in GU n. 51 del 3.2.2003); che include specifici riferimento al controllo continuo delle piscine inserite in impianti principalmente dedicati ad attività recettive o alberghiere e caratterizzati dalla presenza di acquascivoli. La sentenza impugnata incorre in errore di diritto laddove contro la lettera dei provvedimenti di formazione ministeriale o patrizia, pur commentati, e nella mancata considerazione della combinazione imprescindibile tra precetti generali e norme tecniche che ad esse si affiancano per definire gli ambiti della colpa punibile, afferma che non esiste disposizione di legge che obblighi gli albergatori a tenere un assistente che vigili in modo perenne l’uso della piscina. L’accertamento della sentenza impugnata che afferma la responsabilità degli adulti presenti la bordo della piscina e alla base dello scivolo i quali non esercitarono nei confronti dei piccoli quella vigilanza che anche su di loro gravava, è inciso e ridimensionato dalla considerazioni fin qui svolte, nel senso che quella accertata responsabilità dei genitori e degli adulti non è esclusiva posto che ad essa si deve aggiungere la responsabilità dell’albergatore, invece già esclusa dalla sentenza penale che qui si annulla ai fini civili".


di Giulio Benedetti
Sostituto Procuratore Generale Corte d’Appello di Milano

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