mercoledì 26 ottobre 2016

Il mistero del sottotetto: Monsieur Mansart

Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può effettuarne la parziale trasformazione in terrazza di proprio uso esclusivo, purché risulti che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri condomini non siano privati della possibilità di farne uso.

Confesso la mia ignoranza, ma non sapevo che il termine “mansarda” fosse dovuto a Francois Mansart, architetto d’oltralpe che, nel Seicento, aveva imposto in Francia tale ambiente abitabile o, comunque, vivibile, di solito recuperato dal sottotetto dell’edificio; in effetti, alcuni quartieri della romantica Parigi presentano questo stile caratteristico con le finestre ad abbaino, dando vita ad un suggestivo paesaggio urbano.
Anche se tali unità immobiliari vengono comunemente intese come sinonimi, più tecnicamente, nel sottotetto, il tetto di copertura del fabbricato segue una linea inclinata, mentre, nella mansarda, tale linea, partendo dal centro e proseguendo verso l’esterno, ad un certo punto “piega” bruscamente verso il basso, passando da 45 gradi a verticale, creando, al di sotto del tetto, uno spazio più arioso, accogliente ed accessibile anche vicino i muri perimetrali.
Sotto il profilo giuridico, mantenendo l’indagine nell’alveo civilistico, va ricordato che, nell’impostazione del codice civile, il sottotetto non risultava compreso esplicitamente nell’elenco dei beni che, ai sensi dell’art. 1117 c.c., “sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo”, ed era comunemente escluso dalla nozione tecnica di tetto, in quanto costituito dalla struttura, avente normalmente funzione isolante (da freddo, caldo, umidità), posta appunto al di sotto del tetto e, al contempo, al di sopra del solaio di copertura dell’unità immobiliare sita all’ultimo piano dello stabile (sul versante dottrinale, in termini generali, SALCIARINI, in CELESTE - SALCIARINI, I beni comuni. L’individuazione e l’utilizzazione, Milano, 2009, 140; SPAGNUOLO, Sottotetto e lastrico solare, in Immob. & diritto, 2008, n. 6, 25; TORTORICI, Il sottotetto, in Immob. & proprietà, 2006, 22; BALZANI, Il sottotetto, in Arch. loc. e cond., 1994, 31).
Da tale prevalente funzione tesa a preservare dagli agenti atmosferici - tanto che veniva denominato anche camera d’aria, palco morto, intercapedine - svolta a favore della porzione di piano sottostante, derivava, di regola, la sua esclusione dal novero dei beni comuni; in altre ipotesi, veniva evidenziata la relazione materiale esistente tra cosa principale e cosa secondaria, attribuendo il dovuto rilievo al carattere differenziato del nesso “strutturale” fra il sottotetto medesimo e l’appartamento ad esso collegato da una scala, sicché, essendo una pertinenza della porzione di piano, il sottotetto veniva normalmente considerato di proprietà del medesimo titolare della porzione stessa.
Sul punto, va registrata una diversa prospettiva da parte della Riforma del 2013, la quale, al n. 2) del riformato art. 1117 c.c., ha espressamente inserito, tra i beni di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, “i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune” (si pensi a quei volumi, discretamente ampi e praticabili, che vengono utilizzati per permettere l’ingresso alle scale comuni o per allocarvi le macchine dell’ascensore, le pompe delle autoclavi, le centrali termiche e, in genere, quegli impianti che non possono ospitarsi in altri parti dell’edificio).
La legge n. 220/2012 ha forse voluto chiarire la natura di tale ambiente, atteso che, dall’entrata in vigore del codice civile del 1942, il relativo argomento si è rivelato oggetto di accesa discussione, anche perché oggetto di un discreto business edilizio.
Trattasi, infatti, di un bene molto “appetibile”, specie nei grandi centri urbani, attesa la possibilità che tale volume tecnico possa essere trasformato in mansarda abitabile - oltre che soffitta, deposito, stenditoio, ripostiglio e quant’altro - e ciò a prescindere da ogni conseguenza in ordine alla revisione delle tabelle millesimali e dalle considerazioni di carattere urbanistico di cui appresso (tra i contributi afferenti al previgente regime, si segnala, altresì, REZZONICO, La disciplina condominiale di soffitte, mansarde e sottotetti, in Arch. loc. e cond., 1986, 205).
In proposito, la risposta della giurisprudenza, specie di legittimità, è stata molto variegata in ordine all’appartenenza del locale sottotetto, risultando la netta contrapposizione, di solito, tra il proprietario dell’ultimo piano (o dell’unità immobiliare ivi posta) e gli altri condomini, tanto da farne, almeno per i non addetti ai lavori, un oggetto “misterioso” e quantomeno causando un certo disorientamento anche tra gli operatori del settore.
Ovviamente, il dilemma sull’assetto proprietario ha conseguenze pratiche di notevole spessore riguardo sia all’utilizzo dello stesso bene sia all’imputabilità delle relative spese di conservazione/manutenzione, anche se va riconosciuto che i pronunciamenti sul punto risentono delle peculiari situazioni dello stato dei luoghi sotteso alle fattispecie esaminate (in argomento, COSCETTI, Proprietà del sottotetto, in Riv. giur. edil., 2009, I, 1530; DE TILLA, Quando la proprietà del sottotetto è pertinenza dell’appartamento, in Immob. & diritto, 2005, n. 5, 32).
Ad esempio, in un caso concreto affrontato, di recente, dalla Suprema Corte - v. Cass. 12 agosto 2011 n. 17249, in Foro it., Rep. 2011, voce Comunione e condominio, n. 178 - i giudici di merito avevano dichiarato che l’ampia porzione di solaio sita al quinto piano di uno stabile era di proprietà del condomino-attore, condannando il convenuto al rilascio della medesima ed alla rimessione in pristino del vano di accesso a tale sottotetto.
Segnatamente, nella fattispecie affrontata da tale sentenza, era esatta la censura che, al fine di fornire la prova della proprietà esclusiva, non potessero in generale essere determinanti né le risultanze dell’eventuale regolamento di condominio, né l’eventuale inclusione del bene nelle tabelle millesimali, come proprietà esclusiva del singolo condomino - v. anche infra - ma la corte territoriale aveva anche considerato che la società costruttrice, ed unica originaria proprietaria, si era riservata la proprietà del sottotetto in questione in sede di costituzione del condominio, allorché, con il primo atto di compravendita, aveva proceduto ad alienare una delle unità immobiliari comprese nell’edificio, ritenendo questa riserva di proprietà del sottotetto confermata dal regolamento condominiale contrattuale e dalla tabella millesimale, espressamente richiamati nel primo atto di compravendita (in altri termini, era stata raggiunta la prova della proprietà del sottotetto in capo all’attore in base ad un regolare atto a titolo derivativo compiuto con il costruttore il quale, in sede di costituzione del condominio, se ne era riservata la proprietà).
Si è ribadito, in punto di diritto, che la natura del sottotetto di un edificio è, in primo luogo, determinata dai titoli e, solo in difetto di questi ultimi, non essendo lo stesso sottotetto compreso nel novero delle parti comuni dell’edificio essenziali per la sua esistenza - quali il tetto, il muro maestro, il suolo, ecc. - o necessarie all’uso comune, può ritenersi comune solo se esso risulti in concreto, per le sue “caratteristiche strutturali e funzionali”,oggettivamente destinato, anche solo potenzialmente, all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune (v. Cass., 19 dicembre 2002 n. 18091, in Notariato, 2003, 361; Cass. 11 maggio 2000 n. 6027, in Foro it., Rep. 2000, voce Comunione e condominio, n. 112).
In questa ipotesi, si applica la presunzione di comunione prevista dall’art. 1117 c.c., la quale opera ogni volta che, nel silenzio del titolo, il bene sia suscettibile, per le suddette caratteristiche, di utilizzazione da parte di tutti i comproprietari (v. Cass. 20 luglio 1999 n. 7764, in Giur. it., 2000, 730, con nota di BERGAMO; Cass. 19 novembre 1997 n. 11488, in Foro it., Rep. 1997, voce Comunione e condominio, n. 111; Cass. 15 maggio 1996 n. 4509, in Arch. loc. e cond., 1996, 719, la quale si è occupata del caso in cui il sottotetto era dotato di una comunicazione diretta con il vano scale comune e di un lucernario per l’accesso al tetto comune, destinazione che costituiva il fatto noto ex art. 2727 c.c. posto dalla legge a base della presunzione di comunione di cui sopra).
Lo stesso sottotetto deve, invece, considerarsi pertinenza dell’appartamento sito all’ultimo piano allorché assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere l’appartamento medesimo dal caldo, dal freddo e dall’umidità, tramite la creazione di una camera d’aria, e non anche quando abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo (v. Cass. 20 giugno 2002 n. 8968, in Arch. loc. e cond., 2002, 732; Cass. 15 giugno 1993 n. 6640, in Arch. loc. e cond., 1993, 727). In quest’altra ipotesi, il proprietario ha però diritto di utilizzarlo, in conformità delle norme urbanistiche vigenti, come deposito, stenditoio, ma anche come parte della sua abitazione: é il tipico caso del sottotetto con la pavimentazione formata da tavolati di legno, con altezza minima, senza ingresso dalle parti comuni ed al quale si può accedere unicamente dall’appartamento sottostante attraverso la creazione di un’apposita apertura.
In quest’ottica, il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può effettuarne la parziale trasformazione in terrazza di proprio uso esclusivo, purché risulti che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri potenziali condomini-utenti non siano privati di reali possibilità di farne uso (v. Cass. 4 febbraio 2013 n. 2500, in Foro it., Rep. 2013, voce Comunione e condominio, n. 202; Cass. 3 agosto 2012 n. 14107, in Arch. loc. e cond., 2013, 31, la quale sottolinea la raccomandazione che resti complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene).
Applicando i medesimi principi ma giungendo a diverse conclusioni, un’altra pronuncia del Supremo Collegio (v. Cass. 7 febbraio 1998 n. 1303, in Arch. loc. e cond., 1998, 385) ha premesso che il sottotetto di un edificio si considera una pertinenza dell’appartamento dell’ultimo piano quando assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere l’appartamento, e non anche quando abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione da parte di tutti i condomini come vano autonomo; in quest’ultima ipotesi, poiché il sottotetto non si comprende tra le parti comuni indicate dall’art. 1117 c.c. (vecchio testo), la sua appartenenza deve essere determinata in base al titolo, sicché, in mancanza, la proprietà comune si desume dalla “oggettiva destinazione all’uso comune”, peraltro anche in via soltanto potenziale (v., altresì, Cass. 29 ottobre 1992 n. 11771, in Riv. giur. edil., 1993, I, 1037; Cass. 18 ottobre 1988 n. 5668, in Foro it., Rep. 1988, voce Comunione e condominio, n. 41; Cass. 22 aprile 1986 n. 2824, in Riv. giur. edil., 1986, I, 745).
Nella specie, tale sentenza ha dato atto che il sottotetto, per l’altezza (variabile da mt. 2,20 al perimetro e mt. 3,00 alla mezzeria), per le dimensioni, per la finalità di passaggio obbligato per tutti i condomini per raggiungere i quattro terrazzi posti ai quattro angoli dell’edificio, in sintesi, per la struttura e per la funzione, non costituiva una mera camera d’aria destinata ad isolare e proteggere il piano sottostante, ma raffigurava un vano autonomo utilizzabile da tutti i partecipanti al condominio. 
Dal canto suo, Cass. 4 dicembre 1999 n. 13555 (in Rass. loc. e cond., 2000, 155) ha avuto modo di specificare che il discrimen sta nell’accertamento della circostanza per cui il suddetto sottotetto, per esser considerato pertinenza dell’appartamento all’ultimo piano ad esso direttamente sottostante, debba avere l’esclusiva “funzione di intercapedine coibente” per il medesimo, mentre, qualora le sue caratteristiche, dimensioni e funzioni evidenzino l’utilizzazione o anche la sola utilizzabilità del medesimo da parte di tutti i condomini - salvo sempre che risulti il contrario dal titolo - deve presumersi che esso rientri tra le parti comuni dell’edificio, ai sensi dell’art. 1117 c.c., in ragione dell’oggettiva destinazione all’uso e al godimento collettivi.
Dunque, l’ambiente ricavato sotto il tetto dell’edificio in condominio, in modo da formare una camera d’aria limitata, in alto, dalla struttura del tetto e, in basso, dal solaio che copre i vani dell’ultimo piano, assolve, di regola, ad una funzione isolante e protettiva di questi vani e, quando non risulti una diversa destinazione o non sia diversamente disposto dal titolo, non è, quindi, oggetto di comunione ma costituisce pertinenza dell’appartamento dell’ultimo piano.
Propende più per la condominialità del bene, invece, Cass. 18 marzo 1987 n. 2722 (in Arch. loc. e cond., 1987, 264), ad avviso della quale il sottotetto in oggetto, sia che assolva esclusivamente una funzione isolante a protezione dell’ultimo piano, costituendo pertinenza e, quindi, parte integrante dello stesso, sia che assolva anche altre funzioni oppure abbia dimensioni e caratteristiche tali da consentire l’utilizzazione come vano autonomo, la cui appartenenza va determinata solo in base ad un titolo, può considerarsi di proprietà comune se, per caratteristiche strutturali e funzionali, risulti, sia pure in via potenziale, oggettivamente destinato all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune (cui adde Cass. 5 aprile 1982 n. 2090, in Arch. loc. e cond., 1982, 231).
Interessante, poi, la precisazione offerta da Cass. 8 agosto 1986 n. 4970 (in Arch. loc. e cond., 1986, 624), per la quale, se il sottotetto assolve l’esclusiva funzione di isolare i vani dell’alloggio ad esso sottostanti, si pone in rapporto di dipendenza con i vani stessi cui serve da protezione e non può essere, pertanto, da questi ultimi separato senza che si verifichi l’alterazione del rapporto di complementarietà dell’insieme, conseguendone che, non essendo in tale caso il sottotetto idoneo ad essere utilizzato separatamente dall’alloggio sottostante cui accede, non è configurabile il possesso ad usucapionem dello stesso da parte del proprietario di altra unità immobiliare (in dottrina, SANTERSIERE, Appartamento all’ultimo piano del condominio. Pertinenza/usucapione del sottotetto, in Arch. loc. e cond., 2011, 680).
Da quanto sopra esposto deriva che, se il sottotetto è di proprietà condominiale, il suo utilizzo esclusivo da parte del proprietario dell’ultimo piano richiede il consenso unanime di tutti gli altri condomini, che possono anche decidere di venderlo all’interessato, ma è sufficiente l’opposizione di un singolo condomini per impedire sia l’utilizzo esclusivo che la vendita (in dottrina, ACCORDINO, Trasformazione del vano sottotetto in unità abitativa: nuove e vecchie problematiche, in Arch. loc. e cond., 2001, 424; BAIO, Trasformazione del sottotetto in unità abitativa e problemi condominiali, in Arch. loc. e cond., 1986, 589).
Qualora il singolo condomino, senza o contro la volontà degli altri condomini, si comporta di fatto come se fosse il proprietario del sottotetto e manifesti apertamente la volontà di utilizzarlo per sé e lo annetta al proprio appartamento, escludendo fisicamente gli altri condomini dal relativo uso, egli potrebbe usucapire il medesimo sottotetto trascorsi venti anni, a meno che gli altri condomini abbiano proposto un atto interruttivo o, meglio, una causa nei suoi confronti (si pensi ad un’azione possessoria per grave turbativa o per spoglio se il condomino, realizzando i lavori, consapevolmente alteri la preesistente situazione di fatto). 
In argomento, appare criticabile il recente decisum di Cass. 23 agosto 2007 n. 17928 (in Immob. & diritto, 2009, n. 1, 21, commentata da DE TILLA), secondo cui la presunzione legale di condominialità stabilita per i beni elencati nell’art. 1117 c.c., la cui elencazione non è tassativa, deriva sia dall’attitudine oggettiva del bene al godimento comune sia dalla concreta destinazione di esso al servizio comune, conseguendone che, per vincere tale presunzione, colui che rivendica la proprietà esclusiva del sottotetto ha l’onere di fornire la prova di tale diritto e, a tal fine, è necessario un titolo di acquisto dal quale si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione del bene, sicché non sarebbero state determinanti né l’eventuale inclusione del bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un singolo condomino, e neppure “le risultanze di un eventuale regolamento di condominio”.
Quest’ultima affermazione, nella sua assolutezza ossia senza ulteriori specificazioni, lascia alquanto perplessi: invero, a differenza del regolamento assembleare, il cui contenuto è limitato all’aspetto “gestorio” nelle materie predeterminate assegnate dal codice civile alla competenza dell’assemblea (art. 1138, comma 1, c.c.), il regolamento contrattuale, fondandosi sul consenso degli interessati a base dell’autonomia privata, può avere un contenuto estremamente vasto - ovviamente, con i limiti di cui al comma 4 del medesimo art. 1138 (“le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare … e in nessun caso possono derogare …”) - mirando soprattutto a disciplinare la titolarità ed il godimento delle cose comuni ed esclusive.
Se il regolamento riveste tale efficacia negoziale o convenzionale - oltre che contenere eventualmente le norme in ordine all’amministrazione lato sensu della cosa comune (disciplinando le materie specificatamente indicate nel citato comma 1), mediante una disciplina più stringente e puntuale - lo stesso, sul piano della “disposizione” delle situazioni di condominio e di proprietà esclusiva, può produrre incrementi o diminuzioni patrimoniali nell’àmbito condominiale: in questa prospettiva, il regolamento contrattuale può ben costituire “titolo” per l’individuazione dei beni facenti parte della comunione edilizia, operando vere e proprie riserve di proprietà in favore dell’iniziale proprietario circa beni altrimenti presunti comuni.
Ciò è stato evidenziato dalla giurisprudenza, ad esempio, riguardo agli spazi esistenti nel piano interrato, o per quanto concerne un’autorimessa o un cortile adiacente allo stabile (v., ex multis, Cass. 14 febbraio 1981 n. 908, in Foro it., 1981, I, 2495, con nota di FRANCARIO, sui locali destinati al servizio di portierato; Cass. 23 luglio 1994 n. 6884, in Arch. loc. e cond., 1995, 92, circa un locale sottostante al piano terreno; Cass. 6 dicembre 1991 n. 13160, in Riv. giur. edil., 1992, I, 580, sull’impianto di fognatura; Cass. 6 luglio 1984 n. 3966, in Vita notar., 1985, 161, commentata da TERZAGO, in ordine all’impianto di riscaldamento). Nella stessa lunghezza d’onda, sono da considerarsi di proprietà esclusiva di un singolo condomino, escludendone pertanto la “condominialità”, il lastrico solare o il tetto, indipendentemente dalla circostanza che i beni stessi siano compresi, ai sensi dell’art. 1117 c.c., tra quelli per i quali esiste la presunzione di comproprietà (v. Cass. 11 novembre 2002 n. 15794, in Riv. giur. edil., 2003, I, 917; Cass. 4 giugno 1992 n. 6892, in Arch. loc. e cond., 1992, 761).
Tale articolo, infatti, sancisce una presunzione iuris tantum di proprietà comune delle parti dell’edificio in condominio necessarie all’esistenza stessa di questo oppure destinate in modo permanente all’uso o al godimento comune, che può essere vinta dagli elementi contrari risultanti dal titolo, per tale intendendosi - oltre gli atti di acquisto delle unità immobiliari - il regolamento di condominio ad essi allegato o in essi richiamato, conosciuto ed accettato dagli acquirenti.
In particolare, il regolamento contrattuale può contenere l’inclusione esplicita tra le cose comuni, soggette sia alla comunione necessaria, sia alla correlata indivisibilità funzionale, sia all’inseparabilità pro quota dai trasferimenti delle proprietà esclusive, di cose determinate per le quali sia incerta la riconducibilità alla categoria delle cose comuni in regime di condominio; in tal caso, il regolamento contiene un atto negoziale di accertamento del rapporto di inerenza della cosa espressamente considerata con quelle comuni ex art. 1117 c.c., con l’effetto di individuare i limiti oggettivi delle proprietà esclusive e le corrispondenti quote sulle cose comuni, di escludere la separata disponibilità della cosa inclusa tra quelle comuni, e di prevenire controversie circa la distinta utilizzabilità della cosa stessa indipendentemente dall’esistenza di un valido titolo costitutivo di diritti sulla medesima nel contesto dei concorrenti diritti degli altri condomini.
Resta fermo che, per vincere in base al titolo la presunzione legale di proprietà comune delle parti dell’edificio condominiale indicate nell’art. 1117 c.c., non sono sufficienti il frazionamentoaccatastamento e la relativa trascrizione, eseguiti a domanda del venditore costruttore, della parte dell’edificio in questione, trattandosi di atto unilaterale di per sé inidoneo a sottrarre il bene alla comunione condominiale, dovendosi riconoscere tale effetto solo al contratto di compravendita, in cui la previa delimitazione unilaterale dell’oggetto del trasferimento sia stata recepita nel contenuto negoziale per concorde volontà dei contraenti (v. Cass. 18 aprile 2002 n. 5633, in Foro it., Rep. 2002, voce Comunione e condominio, n. 59), specificando, altresì, che non sono utilizzabili nemmeno i dati catastali, utili solo come concorrenti elementi indiziari di valutazione a fornire la prova richiesta (v. Cass. 15 giugno 2001 n. 8152, in Rass. loc. e cond., 2002, 276). 
Tornando al sottotetto, come si nota, la soluzione non è agevole nelle situazioni border line, ossia quando tale ambiente è raggiungibile non dalle scale ma attraverso botole, o se il medesimo sottotetto non è abbastanza ampio per essere giudicato autonomo ed essere, quindi, utile a tutti, oppure quando il bene risulta di dimensioni ridotte ma ospitante impianti condominiali (come, ad esempio, la caldaia dell’impianto di riscaldamento o la centralina dell’antenna della televisione condominiale).
Per risolvere la questione concernente l’assetto proprietario, dunque, bisogna valutare caso per caso e, a tal fine, la precisazione aggiunta dalla Riforma del 2013 non sembra di grande ausilio.
Problema connesso è se la trasformazione del sottotetto in abitazione debba comportare la revisione delle tabelle millesimali ai sensi dell’art. 69, comma 1, disp. att. c.c., specie riguardo al n. 2), allorché, per le mutate condizioni di parte dell’edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, “è alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell’unità immobiliare anche di un solo condomino” (così innovato a seguito della legge n. 220/2012).
Il nostro caso sarebbe rientrato tra le “innovazioni di vasta portata”, che compariva nel vecchio testo: se il significato del termine innovazione poteva riferirsi a qualsiasi intervento innovativo eseguito tanto sulle parti comuni dell’edificio tanto su quelle di proprietà esclusiva dei condomini - anche perché il legislatore si riferiva a mutamenti di una parte dell’edificio, senza operare distinzioni di sorta - le conseguenze si rivelavano più articolate, perché si trattava, al fine della revisione della c.d. tabella di proprietà, di verificare se l’innovazione de qua fosse di vasta portata e se l’alterazione interferisse “notevolmente” sul rapporto di valore originario; sembra, invece, opportuno modificare le c.d. tabelle di gestione, perché l’utilizzazione di un sottotetto come abitazione comporta un maggior uso di tutti i servizi condominiali che si estendono alle nuove unità abitative ancorché munite di impianti autonomi: infatti, anche i servizi di illuminazione scale, portierato, ascensore, acqua, pulizie, immondizie, ecc. vengono ad essere modificati dalla presenza di nuove entità (in dottrina, SALIS, Sottotetti abitabili e servizi comuni, in Riv. giur. edil., 1981, I, 71).
Un’altra interessante questione si è posta per chi ristruttura il sottotetto ad abitazione, cioè se debba o meno deve corrispondere l’indennizzo previsto dall’art. 1127 c.c.: si tratta di una somma di denaro, incassabile da ciascun condomino in caso di sopraelevazione, che il codice stabilisce pari al valore attuale dell’area da occupare con la nuova fabbrica, diviso per il numero di piani, ivi compreso quello da edificare e detratto l’importo della quota spettante al proprietario del sottotetto.
Al quesito hanno risposto gli ermellini, affermando che non si ha sopraelevazione in caso di mera trasformazione del sottotetto; in proposito, l’indennizzo de quo va corrisposto nella sola ipotesi di sopraelevazione realizzata mediante la costruzione di nuove opere (nuovi piani o nuove fabbriche) sull’area sovrastante il fabbricato, con conseguente innalzamento dell’originaria altezza dell’edificio, e non anche nel caso in cui il proprietario dell’ultimo piano apporti modificazioni soltanto interne al sottotetto - trasformandolo, come nella specie, in unità abitativa autonoma - contenute negli originari limiti strutturali delle parti dell’edificio sottostanti alla sua copertura (v. Cass. 24 ottobre 1998 n. 10568, in Riv. giur. edil., 1999, I, 435, con nota di GIVRI; Cass. 10 giugno 1997 n. 5164, in Foro it., Rep. 1997, voce Comunione e condominio, n. 139). In senso contrario, appare di recente propensa la magistratura di vertice - v., tra le altre, Cass. 18 novembre 2011 n. 24327, in Riv. notar., 2012, 637, commentata da MUSOLINO - ad avviso della quale l’indennità prevista dall’art. 1127 c.c. per la costruzione sopra l’ultimo piano dell’edificio è dovuta anche per la trasformazione di locali preesistenti, mediante incrementi delle superfici e delle volumetrie, “indipendentemente dall’altezza del fabbricato”, traendo fondamento dall’aumento proporzionale del diritto di comproprietà sulle parti comuni, conseguente all’incremento della porzione di proprietà esclusiva; e ciò sulla scia della pronuncia del supremo organo di nomofilachia - v. Cass. S.U. 30 luglio 2007 n. 16794, che può leggersi, tra le altre riviste, in Corr. giur., 2008, 650, con nota di IZZO - a tenore della quale, qualora il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio innalzi mura perimetrali, rifacendo il tetto e creando nuove unità abitative sostitutive delle precedenti soffitte esistenti, gli altri condomini del fabbricato hanno diritto a ottenere dal realizzatore la corresponsione dell’indennità di sopraelevazione di cui sopra, poiché l’indennizzo compete “a prescindere dal fatto che si siano realizzati nuovi piani o nuove fabbriche”, avendo l’indennità in questione natura sostanzialmente riparatoria, ed essendo essa finalizzata a compensare gli altri condomini della perdita derivante dalla diminuzione di valore di unità immobiliare della quale i predetti abbiano la proprietà.
Relativamente, infine, ai profili urbanistici, la giurisprudenza amministrativa - v. T.A.R. Campania 7 gennaio 2011 n. 16; T.A.R. Puglia 15 gennaio 2005 n. 143; T.A.R. Campania 17 giugno 2002 n. 3597 - è orientata nel senso di ritenere che i sottotetti, quando sono di altezza tale da poter essere suscettibili di abitazione o di assolvere a funzioni complementari (come quella, ad esempio, di deposito di materiali), devono essere computati ad ogni effetto sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza, non potendo essere annoverati tra i c.d. volumi tecnici.
In buona sostanza, la tipologia costruttiva e le dimensioni del manufatto realizzato in difformità rispetto al precedente titolo autorizzatorio, consistente nell’innalzamento del tetto e nella realizzazione di servizi, riflette con assoluta evidenza la sussistenza del contestato abuso che, in ragione dell’innegabile trasformazione edilizia del territorio che ad esso si riconnette, impone il previo rilascio di uno specifico permesso di costruire ad uso abitativo, che valga ad autorizzarne l’esecuzione (v., di recente, anche T.A.R. Lombardia 5 gennaio 2012 n. 38, che si pone in linea con Cons. Stato 7 febbraio 2011 n. 812).



di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione

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