giovedì 22 febbraio 2018

ANIMALI IN CONDOMINIO - Condominio, il medioevo prossimo venturo?

La realizzazione di “un’area cani” all’interno del condominio potrebbe risultare molto utile ai proprietari degli animali, siano essi condomini abitanti nell’edificio piuttosto che affittuari abitanti nell’edificio medesimo. La realizzazione potrebbe rientrare nell’ambito delle innovazioni di cui all’art. 1120 c.c. .

  1. La norma: art. 1138, 5° comma, norma derogabile o inderogabile?
  2. Animali domestici: quali sono?
  3. Il rispetto delle regole: quali adempimenti dell’amministratore? Quali limiti?
  4. Il futuro prossimo venturo: quali orizzonti?

  • La norma: art.1138, 5° comma c.c., norma derogabile o inderogabile?

L’art. 1138, 5° comma, nuova norma in vigore dal 18 giugno 2013, prevede “Le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici”. La norma non specifica di quale regolamento si tratta (se “assembleare” oppure “contrattuale”) e non è inserita nell’elenco dettagliato (contenuto nel precedente 4° comma) delle norme inderogabili, ossia di quelle che mai e in alcun modo possono essere derogate.

Dunque si pone un primo problema: si tratta di norma derogabile o inderogabile?

Vanno allo scopo richiamati i principii che la Cassazione ha sancito allo scopo di individuare il carattere imperativo o meno, e dunque di considerare l’inderogabilità, della norma che non sia espressamente dichiarata inderogabile.
Le norme giuridiche si distinguono in norme imperative (o cogenti) quando la loro osservanza è inderogabile, e dispositive, quando contengono regole di utilità pubblica derogabili per volontà del privato che vi abbia interesse.
La contrarietà a norme imperative costituisce una delle cause di nullità del contratto (art. 1418 cod. civ.) La nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative (art. 1419, 2° comma cod.civ.).
La Cassazione ha precisato che per individuare il carattere “imperativo” di una norma quando questa espressamente non prevede la nullità degli atti ad essa contrari, e dunque non dichiari esplicitamente la propria inderogabilità, è necessario verificare lo scopo della norma e la natura della tutela al quale è destinata, e dunque se si tratta di interesse pubblico o privato; se la norma è destinata a tutelare un interesse pubblico essa ha, in ogni caso, carattere imperativo (Cass. SS.UU. 21 agosto 1972 n. 2697, Cass. 18 luglio 2003 n. 11256); di conseguenza saranno nulle le pattuizioni contrarie.
Tornando all’argomento che ci occupa, la dottrina ha ritenuto il divieto contenuto nel 5° comma dell’art. 1138 inderogabile sulla scorta della legislazione, anche europea, che da diversi anni a questa parte ha riconosciuto l’importanza, e la necessità della relativa tutela, del rapporto tra le persone e gli animali, rapporto così elevato al rango di interesse pubblico.
L’ importanza del rapporto con gli animali di compagnia/di affezione, sulla base del quale si fonda la motivazione della “imperatività”, della norma in esame, si trova sancita in diversi provvedimenti legislativi.
L’importanza del rapporto con gli animali di compagnia/di affezione, sulla base del quale si fonda la motivazione della “imperatività”, della norma in esame, si trova sancita in diversi provvedimenti legislativi.
Art. 1 - Principi Generali
Lo Stato promuove e disciplina la tutela degli animali di affezione, condanna gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti ed il loro abbandono, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente.
Art. 2 – Trattamento dei cani e di altri animali di affezione
1. Il controllo della popolazione dei cani e dei gatti mediante la limitazione delle nascite viene effettuato ………………
2. I cani vaganti ….. non possono essere soppressi………
7. E’ vietato a chiunque maltrattare i gatti che vivono il libertà.
Art. 5 – Sanzioni
1.Chiunque abbandona cani e, gatti o qualsiasi altro animale custodito nella propria abitazione è punito con la sanzione del pagamento di una somma da Lire 300.000 a Lire 1.000.000.

Legge 4 novembre 2010 n. 201 - Ratifica ed esecuzione della Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia,fatta a Strasburgo il 13 novembre 1987.
Art. 4 Traffico illecito di animali da compagnia 
1.Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, reiteratamente o tramite attività organizzate, introduce nel territorio nazionale animali da compagnia di cui all’allegato I, parte A, del Regolamento CE n. 998/2003 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 26 maggio 2003, privi di sistema per l’identificazione individuale e delle necessarie certificazioni sanitarie e non muniti, ove richiesto, di passaporto individuale è punito………………………………………….
Legge 2 agosto 2008 n. 130 ratifica del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea
Art. 13 – Il Trattato stabilisce che l’Unione e gli Stati membri “tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti.

Codice Penale
Il codice penale dedica diversi articoli ai comportamenti in danno degli animali (da art. 544 bis a art. 544 sexies). Sono così puniti i reati di maltrattamento e di uccisione di animali per crudeltà o senza necessità, di sevizie o strazio arrecati durante spettacoli o manifestazioni, è sancito il divieto di combattimenti tra animali.
E’ importante segnalare come i comportamenti citati configurino una particolare ipotesi di delitto e non rientrano più nei “delitti contro il patrimonio” nei quali il bene protetto era la proprietà privata dell’animale da parte di un proprietario.
La differenza è stata sancita dalla Cassazione (sent. N. 24734/2010) la quale chiarisce che il delitto di cui all’art. 544 tutela il sentimento per gli animali, e viene riconosciuta una condotta lesiva nei confronti dell’animale stesso, non del suo padrone.
L’art 727 punisce con l’arresto o con l’ammenda il reato di abbandono di animali.

Codice della Strada
Legge 29 luglio n.120/2010 – art. 31 e successivo DM attuativo n. 271/2012: hanno apportato modifiche al Codice della Strada disciplinando l’uso di mezzi di soccorso e il trasporto di animali in gravi condizioni di salute, e ponendo l’obbligo all’utente della strada di fermarsi e prestare soccorso all’animale d’affezione coinvolto in un incidente dall’utente medesimo provocato o comunque a lui ricollegabile (integrazioni così apportate agli artt. 177 e 189 del D.Lgs n. 285/1992).
Art. 514 Codice di Procedura Civile
Oltre alle cose dichiarate impignorabili da speciali disposizioni di legge, non si possono pignorare: ………..
6 bis: gli animali di affezione o da compagnia tenuti presso la casa del debitore o negli altri luoghi a lui appartenenti, senza fini produttivi, alimentari o commerciali.

Si pone poi una seconda questione: può un regolamento contrattuale validamente prevedere il divieto? è ancora valido il divieto contenuto in un regolamento contrattuale antecedente l’entrata in vigore della Riforma?
Per dare risposta alla domanda bisogna ricordare che la legge di riforma del condominio, entrata in vigore il 18 giugno 2013, è irretroattiva in forza dei principi generali di legge.
La legge 220/2012 non contiene le “norme transitorie” ossia quelle disposizioni che disciplinano il graduale adeguamento della nuova normativa rispetto a quella previgente; da ciò possono derivare problemi nella applicazione concreta delle nuove norme.
Per quanto riguarda il regolamento di condominio, sarà utile ricorrere all’applicazione del principio sancito nell’art. 155 disp.att. codice civile, a norma del quale le disposizioni dell’allora (anno 1942) nuovo codice civile concernenti la revisione dei regolamenti di condominio e la trascrizione di essi si applicano anche ai regolamenti approvati prima del 28 ottobre 1941. Lo stesso art. 155 disp. att. dispone altresì espressamente che cessano di avere effetto le disposizioni dei regolamenti di condominio che siano contrarie alle norme richiamate nell’ultimo comma dell’art. 1138 e nell’art. 72 disp. att.: vale a dire le norme condominiali “inderogabili”.
Si può dunque concludere che i regolamenti di condominio contrattuali vigenti alla data del 18 giugno 2013 mantengono inalterata la loro validità; se però contengono clausole che siano divenute, a seguito della nuova normativa, contrarie a norme inderogabili, tali clausole saranno nulle e potranno di conseguenza non essere applicate, senza necessità di espressa modifica del regolamento.
La clausola divenuta “nulla” sarà sostituita di diritto dalla nuova norma imperativa, e il regolamento continuerà ad essere valido per tutto il resto del suo contenuto.
Allo stesso modo la nuova normativa inderogabile sarà applicata di diritto, anche se nessuna disposizione al riguardo è contenuta nel regolamento. Si riportano qui di seguito le sentenze di due giudici di merito (il Tribunale di Cagliari e il Giudice di Pace di Pordenone) che hanno deciso in maniera conforme sia all’interpretazione della dottrina che, come si è detto, ha attribuito il carattere “imperativo” all’art. 1138, 5° comma, sia ai principii generali applicativi, appena visti, della legge in vigore dal giugno 2013.
Il Tribunale di Cagliari (ordinanza n. 7170 del 22 luglio 2016) decidendo una controversia instaurata tra un condomino proprietario di un cane e un Condominio nel quale vigeva un Regolamento che vietava la detenzione di animali domestici in casa, ha statuito che: - la norma del regolamento indipendentemente dalla natura (contrattuale o assembleare) deve ritenersi affetta da nullità sopravvenuta, a seguito della nuova norma di legge, siccome contraria ai principi di ordine pubblico ravvisabili nel consolidamento della giurisprudenza e della legislazione, nazionale ed europea, diretta a valorizzare il rapporto delle persone con gli animali – la nuova norma di legge costituisce precetto generale valevole per qualsiasi tipo di regolamento.
Il Giudice di Pace di Pordenone (sentenza 21 luglio 2016 n. 224) ha deciso che qualunque divieto alla detenzione di animali previsto da un previgente regolamento condominiale deve intendersi caducato ex art. 1138, 5° comma configurandosi una forma di nullità sopravvenuta delle clausole contrarie al nuovo disposto normativo. Il Giudice di Pace ha evidenziato che il Legislatore ha riconosciuto la valenza sociale del rapporto uomo-animale, sancendo un diritto alla relazione affettiva con l’animale che va oltre il solo ambito condominiale producendo effetto su tutti i rapporti giuridici aventi ad oggetto l’uso di immobili per fini abitativi.
Dunque, benchè decidendo due domande diverse dal punto di vista processuale (davanti al Tribunale di Cagliari si chiedeva la declaratoria di nullità di clausola regolamentare, davanti al Giudice di Pace di Pordenone si chiedeva di sanzionare la violazione del Regolamento) entrambe le sentenze interpretano la norma (che in effetti per come è formulata e collocata all’interno dell’art. 1135 può lasciare adito a dubbi) nel senso di attribuirle la caratteristica di inderogabilità, stante la rilevanza del suo contenuto di carattere “imperativo”. Dal che deriva la conseguente sopravvenuta nullità della clausola, di segno contrario, contenuta in un regolamento previgente.
Si ricorda che con costante giurisprudenza antecedente la Riforma (Cass. 15/2/2011 n. 3705, Cass. 25/10/2001 n. 13164) la Suprema Corte aveva ritenuto ammissibile il divieto di tenere animali domestici negli appartamenti in condominio solo se contenuto in un regolamento assembleare assunto all’unanimità, in quanto incidente, menomandole, sulle facoltà comprese nel diritto di proprietà; oppure se contenuto in un regolamento contrattuale richiamato espressamente negli atti di acquisto delle singole unità immobiliari, costituendosi con tali divieti servitù reciproche.
  • Animali domestici: quali sono?  
All’aggettivo “domestico” nel dizionario DevotoOli, oltre alla definizione generale di “pertinente alla casa e alla famiglia”, con riferimento agli animali si legge “assuefatto alla vicinanza dell’uomo o da questo allevato per la propria utilità”. Per “affezione “ si intende in genere una inclinazione sentimentale che, ad esempio, fa attribuire ad un oggetto un valore superiore al valore reale giustificato da un particolare interesse per l’oggetto (c.d. “prezzo d’affezione”). Per “compagnia” si intende: un rapporto di vicinanza o di conversazione cercato sul piano affettivo. L’art. 1138, 5° comma menziona solo gli animali “domestici” per l’individuazione dei quali sarà comunque necessario riportarsi alle disposizioni contenute nella legislazione europea.
Regolamento CE 576/13 e Regolamento Applicativo 577/13 (abrogano il Regolamento 998/2003)
Definizioni: Animale da compagnia - Un animale di una specie elencata nell’All. I che accompagna il suo proprietario o una persona autorizzata durante un movimento a carattere non commerciale che rimane sotto la responsabilità del proprietario o della persona autorizzata per tutta la durata del movimento.

Allegato 1 Due gruppi
a) Cane, gatto, furetto (PET)
b) Invertebrati (no api e bombi, molluschi e crostacei)

Animali acquatici ornamentali
Uccelli (no pollame)
Roditori e conigli (no per alimentazione)

Va poi ricordato l’Accordo 6/2/2003 tra Ministero Salute, e le Regioni e le Provincie di Trento e Bolzano nel quale si definisce animale da compagnia o affezione “ogni animale tenuto o destinato ad essere tenuto dall’uomo, per la compagnia o affezione senza fini produttivi od alimentari, compresi quelli che svolgono attività utili all’uomo, come il cane per i disabili, gli animali da Pet Therapy, da riabilitazione e impiegati e impiegati nella pubblicità”.
Più spesso di quanto si possa pensare succede che nelle abitazioni private vengano tenuti animali non propriamente “assuefatti alla vicinanza dell’uomo” nè alle condizioni ambientali e geografiche del nostro territorio nazionale.
Si pensi a pitoni e iguane e altri rettili dei quali quasi sempre si scopre l’esistenza quando escono dalle abitazioni e si trovano, anche a loro rischio, a girare per il giardino o nel parcheggio condominiale, creando comprensibile scompiglio...
Va precisato che iguane, pitoni, lucertole sono varie specie di rettili, si tratta dunque di animali vertebrati, che pertanto non rientrano nei tipi di “animali da compagnia” di cui al sopracitato Regolamento Europeo.
E’ dato ritenere pertanto possibile, al di là degli aspetti connessi alle “immissioni” di cui tra poco si dirà, porre divieti regolamentari che impediscano la detenzione di animali non domestici, tra i quali i rettili citati.
Un divieto di tal genere non va contro il dettato legislativo che si riferisce, appunto, agli animali “domestici”.
  • Il rispetto delle regole: quali limiti? Quali adempimenti dell’Amministratore?

Il diritto di tenere animali domestici nella propria abitazione non esclude l’obbligo di rispettare le parti comuni e quelle esclusive, e di evitare immissioni intollerabili.
Il proprietario/detentore dell’animale dovrà altresì rispettare la normativa vigente applicabile al particolare tipo di animale (si pensi alle razze di cani definiti “pericolosi”.
Quanto alla obbligatorietà di museruola e guinzaglio, a norma dell’art. 83 DPR 320/1954 “Regolamento di polizia veterinaria” nelle vie e in qualunque altro luogo aperto al pubblico i cani, quando non siano condotti al guinzaglio, debbono portare la museruola che corrisponda ai requisiti prescritti dai regolamenti locali di igiene (eccetto quanto di norma disposto per i cani da guardia, da pastore, da caccia, per non vedenti).

Il rispetto delle parti comuni comporterà il corretto uso delle stesse e la pulizia o il ripristino in caso di sporcizia o danni arrecati dal proprio animale. Lo stesso è a dirsi per le proprietà esclusive.
In materia di rispetto delle parti comuni si ricorda la recente sentenza del Tribunale di Monza (sentenza 28 marzo 2017) con la quale il Tribunale ha deciso il caso di un regolamento condominiale contenente il divieto per i condomini di utilizzare l’ascensore accompagnati dai propri cani.
Il Tribunale ha ritenuto valida tale clausola in quanto l’art. 1138, 5° comma contiene un limite alla potestà regolamentare che incide sulla proprietà esclusiva, ma che non riguarda l’uso delle parti comuni: uso che ben può essere disciplinato dal regolamento anche escludendo la facoltà di usare l’ascensore in compagnia del proprio animale.
Dunque, secondo il Tribunale, i condomini dovranno utilizzare le scale, non risultando in alcun modo menomato il loro diritto ad accedere alle rispettive abitazioni.
Tale decisione è stata criticata da Antonio Scarpa (magistrato di Cassazione) secondo il quale il legislatore ha voluto sottrarre in modo assoluto all’autonomia privata dei condomini la materia della detenzione di animali domestici. Per non dire poi della difficoltà di utilizzare le scale e non l’ascensore, per una persona affetta da qualche impedimento nella deambulazione.
Non di rado gli animali presenti in condominio provocano “immissioni” che possono diventare intollerabili.
Si ricorda l’art. 844 codice civile a norma del quale “Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.
Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tenere conto delle priorità di un determinato uso”.
L’elenco contenuto nell’art. 844 è indicativo, non esaustivo.
Al soggetto che subisce le immissioni “intollerabili” è riconosciuta una triplice tutela: a) la richiesta di cessazione della immissione; b) la richiesta di risarcimento del danno subito in conseguenza della immissione; c) la richiesta di indennizzo per il diminuito valore della proprietà.
Questa norma, di carattere generale, si applica pacificamente anche nell’ambito del condominio. Anzi, nell’ambito del condominio c’è una possibilità in più per tutelarsi da disturbi molesti che configurino ipotesi di “immissione”: infatti, al fine di sostenere la intollerabilità e la illegittimità di una qualunque “immissione”, il soggetto che la subisce può invocare l’applicazione di un’altra norma, e precisamente di quella eventualmente contenuta nel Regolamento vigente nel Condominio dove si verificano i fatti.
E’ infatti principio costantemente affermato dalla Corte di Cassazione che il Regolamento condominiale contrattuale possa contenere una disciplina relativa alle immissioni ancor più rigorosa di quella contenuta nel codice civile (Cass. 4/4/2001 n. 4962), e che ad essa disciplina debba farsi riferimento, piuttosto che a quella del codice, al fine di accertare nel caso concreto la intollerabilità della immissione lamentata.
Nella vita condominiale l’abbaio del cane del vicino di casa è sicuramente una delle “molestie” rumorose più frequentemente lamentate. I giudici in genere ritengono che il semplice abbaio sia un fatto naturale del cane, che rientra nei normali rumori di fondo che caratterizzano il vivere collettivo; dunque una molestia intollerabile ci sarà solo quando l’abbaiare sia tale da superare la normale soglia di tollerabilità (art. 844 c.c.) ossia quando i latrati siano insistenti – e quindi non episodi saltuari di disturbo – visto che la natura del cane non può essere coartata al punto da impedirgli del tutto di abbaiare (Cass. n. 7856/2008).
Sempre in materia di cani ( e animali in genere) le immissioni olfattive, per essere moleste, devono superare la normale tollerabilità prevista dall’art. 844 c.c..
Sotto il profilo penale, la presenza di esalazioni gravemente moleste può configurare il reato di getto pericoloso di cose (art. 674 c.p.) soprattutto quando vi sia omessa custodia di animali dalla quale sia derivato il versamento di deiezioni animali atte ad offendere imbrattare o molestare persone (Cass. n. 32063/2008). La Cassazione penale con sentenza 27 ottobre 2015 n. 48460 ha confermato la condanna alla pena dell’ammenda di euro 200,00 per “non avere impedito lo strepitio del proprio cane, pastore tedesco, così disturbando le occupazioni e il riposo dei residenti”. L’illecito consiste nel non avere impedito all’animale di abbaiare in maniera smodata e in orari tali da disturbare l’intero condominio: così aveva precisato ancor prima la stessa Cassazione penale con sentenza 27 settembre 2001 n. 35234.


Ed ancora la Suprema Corte ha precisato che il reato di cui all’art. 659 codice penale (contravvenzione) disturbo della quiete pubblica, ha natura di reato di pericolo presunto e ai fini della sua configurazione non è necessaria la prova dell’effettivo disturbo di più persone ma è sufficiente l’idoneità del fatto a disturbare un numero indeterminato di persone, ancorchè non tutte siano state, poi, disturbate; e la volontarietà della condotta va desunta da oggettive circostanze di fatto senza che risulti necessaria l’intenzione dell’agente di disturbare la quiete pubblica (Cass. penale 14 gennaio 2011 n. 715).
Vanno poi ricordati i seguenti reati che possono rilevare in materia: l’art. 672 (omessa custodia e malgoverno di animali) a norma del chiunque lascia liberi o non custodisce con le debite cautele animali pericolosi da lui posseduti o ne affida la custodia a persone inesperte è punito con una sanzione amministrativa.
L’art 638 (uccisione o danneggiamento di animali altrui) a norma del quale chiunque senza necessità uccide o rende inservibili o comunque deteriora animali che appartengono ad altri è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la reclusione o la multa.

L’Amministratore ha la facoltà/il potere rientrante nelle attribuzioni che la legge gli riconosce di intervenire per richiedere l’eliminazione dell’immissione “intollerabile”, se l’attività illegittima contestata incide sull’uso o sul godimento delle parti comuni, indipendentemente dal numero di condomini ai quali viene recato pregiudizio. L’Amministratore è legittimato ad intervenire nei confronti dell’autore materiale delle immissioni, anche non proprietario dell’immobile da cui derivano e dunque anche nei confronti del locatario (Cass. 1/12/2000 n. 15392).
Inoltre, come già si è detto, i regolamenti contrattuali possono contenere limitazioni ancor più rigorose di quelle indicate nell’art. 844 c.c.: in tale caso per valutare l’intollerabilità della immissione, si farà riferimento al criterio fissato nel regolamento (Cass. 7/01/2004 n. 23).
L’Amministratore ha il dovere di curare l’osservanza del regolamento e può agire a tutela dello stesso anche senza delibera assembleare.
Il regolamento va rispettato tanto dal condominio quanto dal conduttore e/o comodatario.
  • Il futuro prossimo venturo: quali orizzonti? 
Non volendo pensare ad un “medioevo condominiale prossimo venturo” inteso come periodo di oscurantismo sociale e culturale, e volendo piuttosto confidare in una convivenza improntata al bilanciamento degli opposti interessi e alla ricerca di soluzioni utili a risolvere conflitti, si può provare ad immaginare quali nuovi scenari potrebbero concretizzarsi in relazione alla sempre maggiore presenza, non più oggetto di divieti regolamentari, di animali domestici in condominio. “Area cani” nel giardino/cortile condominiale.
La realizzazione di una “area cani” all’interno del condominio potrebbe risultare molto utile ai proprietari degli animali, siano essi condomini abitanti nell’edificio condominiale piuttosto che affittuari abitanti nell’edificio medesimo; si pensi in particolare a persone, anziane o meno, affette da problemi di deambulazione all’esterno dell’edificio. La realizzazione potrebbe rientrare nell’ambito delle innovazioni di cui all’art. 1120 c.c., ossia delle innovazioni deliberate dall’assemblea a maggioranza nell’interesse comune, e/o di quelle rientranti nell’ambito dell’art. 1102 c.c., ossia delle modifiche apportate dal singolo nel proprio interesse e a proprie spese, al fine di conseguire un uso più intenso della cosa comune.
Le innovazioni sono modificazioni/nuove opere che determinano l’alterazione della entità materiale o il mutamento della destinazione originaria della cosa comune la quale, appunto, avrà diversa consistenza o sarà utilizzata per fini diversi da quelli precedenti (Cass. n. 11445/2015).
Le innovazioni disciplinate dall’art. 1120 c.c. gravano su tutta la totalità dei condomini anche dissenzienti (Cass. n.24006/2004).
Gli articoli 1102 e 1120 sono disposizioni non sono sovrapponibili avendo presupposti e ambiti di operatività diversi.
Le innovazioni di cui all’art. 1120 non corrispondono alle modificazioni cui si riferisce l’art. 1102: le prime sono costituite da opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione; le seconde si inquadrano nelle facoltà del condomino in ordine alla migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa, facoltà che incontrano solo i limiti indicati dall’art. 1102 (Cass. 19/10/1012 n. 18052).
Tra le due nozioni corre una differenza che è di carattere innanzi tutto oggettivo, poichè, fermo il tratto comune della trasformazione della cosa o del mutamento della destinazione, quel che rileva nell’art. 1120 (mentre è estraneo all’art. 1102) è l’interesse collettivo espresso da una delibera dell’assemblea. Le modificazioni dell’uso della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 non si confrontano con un interesse generale perché perseguono solo l’interesse del singolo.
L’art. 1120 c.c., nel prescrivere che le innovazioni della cosa comune siano approvate dai condomini con determinate maggioranze, tende a disciplinare l’approvazione di quelle innovazioni che comportano oneri di spesa per tutti i condomini; ma ove non debba procedersi a tale ripartizione, per essere stata la spesa relativa alle innovazioni assunta interamente a proprio carico da un condomino, trova applicazione la norma generale di cui all’art. 1102 c.c. che contempla anche le innovazioni, ed in forza della quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne uguale uso secondo il loro diritto e, pertanto può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa comune.
La Cassazione ha altresì precisato che la nozione di pari uso del bene comune non è da intendersi nel senso di uso necessariamente identico e contemporaneo perché diversamente si avrebbe la conseguenza della impossibilità per ogni condomino di usare la cosa comune tute le volte che questa fosse insufficiente a tal fine (Cass. sent. 12873/2005).
Addirittura la modifica deve ritenersi legittima anche quando sia prevedibile che altri partecipanti non faranno pari uso del bene (Cass. n. 14107/2012).

Corte d’Appello di Palermo 15 febbraio 2017 n. 262
E’ legittima la delibera con cui l’assemblea decida di stabilire due aree comuni, prive di specifica destinazione, allo svolgimento di attività sportive per i condomini (beach volley e calcetto) senza che ciò comporti alcuna modificazione dei luoghi mediante la costruzione di opere in muratura, o comunque stabili, o una alterazione dello stato vegetativo del fondo, ma solo la collocazione, amovibile in qualsiasi momenti, di due porte da calcio e di una rete, tali da consentire solo un uso temporaneo e non prolungato nel tempo. Tale utilizzo, infatti, non impedisce ai condomini di fare pari uso del fondo per attività parallele.
La delibera avente ad oggetto la destinazione di aree condominiali scoperte in parte a parcheggio autovetture dei singoli condomini ed in parte a parco giochi ha da oggetto una innovazione diretta al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento della cosa comune (Cass. sent. N. 24146 del 29/12/2004).


Il Regolamento di Polizia Urbana del Comune di Milano è stato integrato (con delibera Consiglio Comunale del 17 settembre 2012) con l’art. 83 bis intitolato “Giochi dei bimbi” che così recita “Il Comune di Milano riconosce il diritto dei bambini al gioco e alle attività ricreative proprie della loro età.
Nei cortili, nei giardini e nelle aree scoperte delle abitazioni private deve essere favorito il gioco dei bambini, fatte salve le fasce orarie di tutela della quiete e del riposo stabilite dai regolamenti condominiali”.

Servizio condominiale di “dog sitting”
Servizi comuni devono intendersi le prestazioni le attività, le funzioni dirette a soddisfare attraverso beni, impianti, parti comuni dell’edificio bisogni specifici dei proprietari esclusivi ossia dei condomini ai quali i servizi devono essere garantiti.
Anche un servizio condominale di tale genere potrebbe rivelarsi estremamente utile e favorire le persone in difficoltà.

Articolo 1135, 3° comma e “Pet therapy” 
Tale norma, introdotta ex novo dalla riforma, prevede che “L’assemblea può autorizzare l’amministratore a partecipare e collaborare a progetti, programmi e iniziative territoriali promossi dalle istituzioni locali o da soggetti privati qualificati, anche mediante opere di risanamento di parti comuni degli immobili nonché di demolizione, ricostruzione e messa in sicurezza statica, al fine di favorire il recupero del patrimonio edilizio esistente, la vivibilità urbana, la sicurezza e la sostenibilità ambientale della zona in cui il condominio è ubicato”.
Perché non pensare ad una assemblea attenta alle necessità di condomini in difficoltà, che, traendo spunto da questa norma, autorizzi l’Amministratore a partecipare a progetti e/o aderire ad associazioni, anche di volontariato, che offrano una “pet therapy” condominiale, oppure il servizio di “dog sitting” a favore di chi ne ha bisogno?

di Marina Figini
Componente CSN ANACI 
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I parapetti dei balconi sono considerati comuni se accrescono la gradevolezza estetica del fabbricato - Cassazione 14/12/2017, N. 30071 - Il testo


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CASSAZIONE 14 DICEMBRE 2017, N. 30071

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE


Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. PETITTI  Stefano  -  Presidente  
Dott. ORILIA  Lorenzo  -  Consigliere 
Dott. GIUSTI  Alberto  -  Consigliere 
Dott. COSENTINO Antonello  -  Consigliere 
Dott. SCARPA Antonio -  rel. Consigliere 

ha pronunciato la seguente:
                                          
SENTENZA
                                      
sul ricorso 27722-2015 proposto da: 
C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio dell'avvocato L. G., rappresentato e difeso dall'avvocato A. M.; 
- ricorrente - 
CONTRO

P.V., elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio dell'avvocato G. E. I., che lo rappresenta e difende; 
- controricorrente - 

avverso la sentenza n. 2859/2015 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 24/06/2015; 
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/10/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA; 
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Mistri Corrado, che ha concluso per il rigetto del ricorso.                                       

FATTI DI CAUSA

C.A., proprietario di appartamento in (OMISSIS), ha proposto ricorso, articolato in unico motivo, avverso la sentenza 24 giugno 2015, n. 2859/2015, resa dalla Corte d'Appello di Napoli, la quale, in accoglimento dell'impugnazione formulata da P.V., ha dichiarato la nullità della sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale di Benevento in data 22 gennaio 2009 per difetto di litisconsorzio necessario. Il giudizio aveva avuto inizio con citazione del 20 luglio 2006 con cui C.A. aveva convenuto davanti al Tribunale di Benevento P.V., per sentire condannare quest'ultimo ad eliminare le cause della caduta d'acqua dal balcone dell'unità immobiliare di sua proprietà sul sottostante balcone di proprietà C.. Il Tribunale, accogliendo la domanda di C.A., aveva condannato P.V. ad eseguire le necessarie opere indicate dal CTU per l'eliminare il denunciato inconveniente. La Corte d'Appello di Napoli accertava, tuttavia, che i parapetti aggettanti dei balconi dell'edificio di via (OMISSIS), per loro forma, materiali e colore, avessero funzione di accrescere la gradevolezza estetica del fabbricato, e perciò rientrassero tra le parti comuni ex art. 1117 c.c., di proprietà di tutti i condomini, con conseguente difetto del necessario contraddittorio e rimessione della causa al primo giudice ai sensi dell'art. 354 c.p.c., comma 1.

P.V. si difende con controricorso.

Su proposta del relatore, che aveva ritenuto il giudizio definibile nelle forme di cui all'art. 380 bis c.p.c., in riferimento all'art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), era stata dapprima fissata l'adunanza della camera di consiglio. Il Collegio, con ordinanza del 10 marzo 2017, ritenne tuttavia che non ricorresse l'ipotesi di cui all'art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), e rimise la causa alla pubblica udienza.

Il ricorrente ha presentato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è ammissibile, in quanto la sentenza, con cui il giudice d'appello riforma o annulla la decisione di primo grado e rimette la causa al giudice "a quo" ex artt. 353 o 354 c.p.c., è immediatamente ricorribile per cassazione, trattandosi di sentenza definitiva, che non ricade nel divieto, dettato dall'art. 360 c.p.c., comma 3, di separata impugnazione in cassazione delle sentenze non definitive su mere questioni, per tali intendendosi solo quelle su questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito che non chiudono il processo dinanzi al giudice che le ha pronunciate (Cass. Sez. U, 22/12/2015, n. 25774).

L'unico motivo del ricorso di C.A. denuncia "violazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in relazione all'art. 1117 c.c. ed all'art. 1125 c.c., nonchè all'art. 116 c.p.c.". Al di là dell'impropria rubrica del motivo (che indica come norme asseritamente violate dal provvedimento impugnato quelli che sono, in realtà, due dei paradigmi stabiliti dall'art. 360 c.p.c. per definire tassativamente quali siano i vizi denunciabili in sede di legittimità, e fa poi rinvio da essi soltanto per "relazione" alle norme regolatrici della fattispecie), sostanza della censura intende contestare che il parapetto aggettante del balcone dell'appartamento del P. rientri tra le parti comuni. Il ricorrente, inoltre, evidenzia come una delle tre alternative soluzioni correttive prospettate dal CTU (peraltro quella poi in concreto adottata dal Tribunale) non comporterebbe interventi su elementi decorativi del balcone.

La censura si rivela priva di fondamento.

Per orientamento consolidato di questa Corte, mentre i balconi di un edificio condominiale non rientrano tra le parti comuni, ai sensi dell'art. 1117 c.c., non essendo necessari per l'esistenza del fabbricato, nè essendo destinati all'uso o al servizio di esso, il rivestimento del parapetto e della soletta devono, invece, essere considerati beni comuni se svolgono una prevalente funzione estetica per l'edificio, divenendo così elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata e contribuendo a renderlo esteticamente gradevole (Cass. Sez. 2, 21/01/2000, n. 637 del; Cass. Sez. 2, 30/07/2004, n. 14576; Cass. Sez. 2, 30/04/2012, n. 6624). L'accertamento del giudice del merito che il parapetto del fronte dei balconi degli appartamenti di un edificio assolva prevalentemente alla funzione di rendere esteticamente gradevole l'edificio (quale, nella specie, quello operato dalla Corte d'Appello di Napoli, alla tregua delle risultanze della CTU) costituisce apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se non per omesso esame di fatto storico decisivo e controverso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Ciò premesso, l'azione di un condomino diretta alla demolizione, al ripristino, o comunque al mutamento dello stato di fatto degli elementi decorativi del balcone di un edificio in condominio (nella specie, relativi ai frontali ed ai parapetti), costituenti, come tali, parti comuni ai sensi dell'art. 1117 c.c., n. 3, va proposta nei confronti di tutti i partecipanti del condominio, quali litisconsorti necessari, essendo altrimenti la sentenza "inutiliter data" (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11109 del 15/05/2007).

Si consideri, infine, che la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei litisconsorti pretermessi deve essere valutata non "secundum eventum litis" (ovvero, come assume il ricorrente, sulla base delle diverse modalità attuative dell'intervento tecnico di ripristino del balcone che il giudice potrebbe disporre), ma al momento in cui l'azione sia proposta, valutando se la stessa, sulla base del "petitum" (e, cioè, del risultato perseguito in giudizio dall'attore con la sua domanda), sia potenzialmente diretta anche ad una modificazione della cosa comune.

Il ricorso va perciò rigettato e le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo, vengono regolate secondo soccombenza.

Sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 - dell'obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 1.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 25 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2017
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I parapetti dei balconi sono considerati comuni se accrescono la gradevolezza estetica del fabbricato - Cassazion 14/12/2017, N. 30071 - Il commento

Mentre i balconi di un edificio condominiale non rientrano tra le parti comuni, ai sensi dell'art. 1117 c.c., non essendo necessari per l'esistenza del fabbricato, né essendo destinati all'uso o al servizio di esso, il rivestimento del parapetto e della soletta devono, invece, essere considerati beni comuni se svolgono una prevalente funzione estetica per l'edificio, divenendo così elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata e contribuendo a renderlo esteticamente gradevole. L'accertamento del giudice del merito che il parapetto del fronte dei balconi degli appartamenti di un edificio assolva prevalentemente alla funzione di rendere esteticamente gradevole l'edificio (quale, nella specie, quello operato dalla Corte d'Appello di Napoli, alla tregua delle risultanze della CTU) costituisce apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se non per omesso esame di fatto storico decisivo e controverso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

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Validità della notifica via pec

Soltanto l’estensione “p7m” del file notificato, estensione che rappresenta la cosiddetta “busta crittografata” contenente al suo interno il documento originale, l’evidenza informatica della forma e la chiave per la sua verifica, può attestare la certificazione della firma

Con l’avvento del processo telematico, a seguito delle eccezioni sollevate in giudizio dalle parti in merito alla validità o meno della notifica via pec, sono intervenute le prime pronunce dei giudici sia di merito che di legittimità.
Recentemente la Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia, con sentenza n. 204/01/17, pronunciata il 22 maggio 2017 e depositata il 31 luglio 2017, ha avuto modo di annullare una serie di cartelle di pagamento notificate via pec, per le quali l’agente della riscossione aveva scelto il formato “pdf”.

Nello specifico i giudici tributari, avallando le eccezioni della parte ricorrente, hanno ritenuto che la notifica della pec non era valida in quanto avvenuta tramite messaggio di posta certificata contenente il file della cartella con estensione “pdf” anziché “p7m” atteso che, non solo l’integrità e l’immodificabilità del documento informatico, ma anche, per quanto attiene alla firma digitale, l’identificabilità del suo autore e conseguentemente la paternità dell’atto, è garantita solo attraverso l’estensione del file “p7m”. Tanto in virtù del fatto che con la notifica via pec in formato “pdf” non viene prodotto l’originale della cartella, ma solo una copia elettronica senza valore, perché priva di attestato di conformità da parte di un pubblico ufficiale.

Soltanto, infatti, l’estensione “p7m” del file notificato, estensione che rappresenta la cosiddetta “busta crittografata” contenente al suo interno il documento originale, l’evidenza informatica della forma e la chiave per la sua verifica, può attestare la certificazione della firma.
Proprio al riguardo, ovvero in merito alla questione attinente all’estensione del file inviato a mezzo pec, in maniera diversa da quella espressamente prescritta, vale a dire in formato “pdf” anziché in formato “p7m”, con ordinanza interlocutoria n. 20672 del 31 agosto 2017, la Suprema Corte ha, da ultimo, rimesso gli atti al Primo Presidente affinché valuti l’opportunità di assegnare la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite.

In particolare, la Sesta Sezione Civile – 3 – della Corte di Cassazione, facendo riferimento a quanto prescritto dall’articolo 12 del Provvedimento 28/12/2015 del direttore dei sistemi informativi automatizzati del Ministero, ha ritenuto che la notifica dell’atto via pec in formato “pdf” possa comportare la nullità dello stesso, senza possibilità di sanatoria dell’atto nullo, anche nell’ipotesi di raggiungimento dello scopo.
Ora, pertanto, occorrerà attendere la decisione del Primo Presidente sulla devoluzione o meno della questione alle Sezioni Unite.
Ed ancora, la Corte di Cassazione ha, altresì, sentenziato in tema di validità della notifica via pec del ricorso, in due ipotesi in cui la stessa non era andata a buon fine.
In particolare, con sentenza n. 20381 del 24 agosto 2017, la Suprema Corte ha ritenuto valida la notifica del ricorso via pec, effettuata successivamente ad una prima notifica non andata a buon fine a causa di disfunzioni verificatisi sui server, o meglio avvenuta in forma incompleta, in quanto il file allegato, contenente il ricorso per cassazione, non era leggibile.

Poiché tale prima notifica, come sottolineato dagli stessi ermellini, doveva ritenersi a tutti gli effetti “meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa” (Cass. S.U. n. 14916/2016), l’Agenzia delle Entrate, considerato che l’esito negativo della stessa non poteva essere a lei imputabile, in quanto dipendente da disfunzione del sistema generale di notifica degli atti a mezzo pec utilizzato dall’Avvocatura Generale dello Stato, ha provveduto, in ossequio al principio di ragionevole durata del processo, ad una seconda notifica senza attendere un provvedimento giudiziale che a ciò la autorizzasse.Così facendo, la parte ha ripreso il procedimento notificatorio completandolo a distanza di pochi giorni dalla prima tentata notifica e, pertanto, entro il tempo pari alla metà dei termini di cui all’art. 325 c.p.c. fissato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 14594, così conservando gli effetti collegati alla notifica originaria.

Con altra sentenza, n. 20579 del 30 agosto 2017, la Corte di Cassazione ha invece considerato valida la notifica del ricorso a seguito del deposito dello stesso in cancelleria, dopo una prima notifica via pec non andata a buon fine perché rifiutata dal server.
In tale fattispecie, è stato posto in evidenza che "la comunicazione è regolarmente avvenuta a norma dell’articolo 16 del decreto legge 179/2012 comma 6 che recita “Le notificazioni e le comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l’obbligo di un indirizzo di posta elettronica, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica per cause imputabili al destinatario".

Infine, per quanto riguarda la notifica degli atti amministrativi e giudiziari, si fa presente che a partire dal 10 settembre p.v., a seguito della Legge n. 124/2017 (Legge sulla Concorrenza 2017), essendo venuto meno il monopolio delle Poste Italiane, gli enti locali e tutte le amministrazioni pubbliche potranno notificare gli stessi anche avvalendosi di agenzie private.

di Alessandra Rizzelli
Avvocato
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Cassazione: limiti degli accertamenti fiscali

La giurisprudenza della Corte di Cassazione si è più volte interessata di delineare i limiti degli accertamenti fiscali, tenendo conto delle specifiche disposizioni di legge.


Ultimamente, la Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, con l’importante sentenza n. 2468 depositata il 31/01/2017, ha ben delineato i presupposti per l’accertamento analitico – induttivo. L’art. 39, comma 1, lett. d), del DPR n. 600 del 1973, recita: “Per i redditi d’impresa delle persone fisiche l’ufficio procede alla rettifica: ... d) se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’articolo 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’articolo 32. L’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.”

L’accertamento fiscale in contestazione si fonda sull’ultima parte della norma, ossia è un accertamento analitico-induttivo basato su presunzioni, anche semplici purché gravi, precise e concordanti e, in quanto tale, non è condizionato dalla presenza di una contabilità formalmente regolare. È conseguentemente correlato, peraltro, che, in presenza di una contabilità regolare, è necessaria l’individuazione degli elementi (rectius, delle presunzioni) idonei a giustificare l’accertamento induttivo.

Orbene, la decisione impugnata ha testualmente motivato affermando che “non esistono i presupposti per poter procedere ad accertamento induttivo. Si è in presenza di contabilità regolarmente tenuta; di studi di settore, che una volta rilevato l’errore, sono risultati congrui; di accessi della G. di F. dai quali non è stata mai rilevata difformità nell’emissione di scontrini fiscali”.
La CTR, dunque, ha solo rilevato, in coerenza con il dato normativo, che l’accertamento non si poteva fondare su alcuna presunzione tale da superare il dato, di per sé solo preliminare, della regolarità formale delle scritture contabili, ossia che risultavano assenti elementi gravi, precisi e concordanti da far ritenere inattendibile la contabilità pur formalmente regolare ed idonei a legittimare l’Ufficio a dar corso all’accertamento induttivo.
Non è poi irrilevante la circostanza, adeguatamente apprezzata dai giudici di merito, che in occasione degli accessi della Guardia di Finanza, sicuramente casuali, non sia mai emersa alcuna difformità nell’emissione degli scontrini fiscali, costituendo un elemento indiziario di segno opposto rispetto a quanto invocato dall’Agenzia delle Entrate.

Quanto al rilievo, relativo alla validità e rilevanza della determinazione induttiva dei maggiori ricavi attraverso il riscontro dei caffè e dei tovaglioli, la questione investe, in realtà, un posterius logico e fattuale a quello sopra esaminato poiché attiene alla fase in cui, già comprovata dall’Ufficio finanziario la possibilità di procedere ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), citato è legittima la determinazione, in via induttiva e con metodologie indirette, dei maggiori ricavi.
Per contro, in mancanza, come nella specie, dei presupposti per dar corso all’accertamento induttivo, resta inevitabilmente travolta la successiva attività ugualmente posta in essere.

Tale conclusione, del resto, è coerente con la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione. Nella fattispecie considerata da Cass. 20060 del 2014, difatti, la Corte valutò la correttezza dell’accertamento presuntivo sulla base del consumo unitario dei tovaglioli (con riferimento ad una attività di ristorazione), ma solo dopo aver evinto, sulla base dei rilievi di carattere formale mossi ai contribuenti, “la complessiva inattendibilità della contabilità aziendale, seppure regolarmente tenuta sul piano formale”, sicché legittimo diveniva il metodo di ricostruzione del reddito societario utilizzato dall’Ufficio (in termini analoghi v. Cass. n. 20857 del 2007 e Cass. n. 13068 del 2011).

di Maurizio Villani
Avvocato Tributarista in Lecce
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Due condanne per mancata verifica di idoneità professionale

L’amministratore, consapevole che l’artigiano chiamato ad eseguire, sia per conto del Condominio sia per conto dei singoli condomini, opere che richiedevano l’uso di un cannello a fiamma libera a GPL, avrebbe dovuto verificare che il soggetto fosse in grado di realizzare i lavori affidati e munito delle attrezzature idonee



Il 21 settembre è iniziato l’autunno anche in Cassazione penale, dove la sezione quarta ha emesso due sentenze di condanna verso amministratori di condominio, entrambi in qualità di committenti che non hanno verificato correttamente l’idoneità tecnico professionale di esecutori di opere edili. Presentiamo le due sentenze come promemoria per un obbligo sempre presente quando si ordinano lavori in edilizia, ai sensi dell’art.90 comma 9 del decreto legislativo 81/2008 ed in capo al committente, a meno che venga formalmente e correttamente nominato un responsabile dei lavori, ovviamente terzo rispetto all’amministratore pro tempore.

La sentenza n.43452/2017

La notizia del fatto
Nell’agosto 2010 un manovale al momento disoccupato, “procacciato” da un condòmino, mentre esegue un lavoro su una copertura piana condominiale priva di protezioni cade al suolo da dieci metri di altezza e muore.
In primo grado l’amministratore condominiale e il condòmino “procacciatore” vengono assolti per insufficienza di prove sull’affidamento dell’incarico. L’appello però ribalta la sentenza assolutoria, ritenendo provati i ruoli di datore di lavoro per il condòmino e di committente delle opere per l’amministratore: “… l’incarico era stato affidato informalmente a due operai in stato di disoccupazione (per quanto potesse trattarsi di manovali esperti) e non ad un’impresa regolarmente registrata nel registro delle imprese della camera di Commercio. Si può pertanto affermare che incombeva sul [l’amministratore] l’obbligo di cui all’art. 90 co. 9 lett. a) D.L.vo n. 81/2008 [...] Inoltre sullo stesso [l’amministratore] sempre quale datore di lavoro committente incombeva ai sensi dell’art. 26 co. 3 D.L.vo cit. l’obbligo di elaborare in fase di progettazione un documento per la valutazione dei rischi indicanti le misure adottate per eliminarli.”. Per completezza è giusto precisare che il committente non è mai automaticamente datore di lavoro se manca il dipendente condominiale e che il DUVRI di cui all’art.26 comma 3 non avrebbe comunque dovuto occuparsi del rischio specifico di caduta dall’alto: piccoli errori davanti a una morte, forse, che comunque la sentenza di Cassazione non ripropone.
L’amministratore ricorre contro la condanna ma la Suprema Corte rigetta il ricorso, confermando che l’amministratore “diede in effetti incarico alla vittima di svolgere lavori condominiali”, che “non verificò in alcun modo la formazione, le competenze e l’idoneità tecnico-professionale dell’operaio e che non adottò, nonostante si trattasse di lavori sostanzialmente in quota, nessun tipo di precauzione”. Non avrebbe certo dovuto adottare direttamente alcuna precauzione, ma avrebbe dovuto – questo sì – rivolgersi a un’impresa in grado di adottare precauzioni, verificandone preliminarmente l’idoneità tecnico-professionale.

La sentenza n.43500/2017 
La notizia del fatto
Nel giugno 2010 scoppia un incendio presso un tetto con struttura in legno: i danni interessano anche molti appartamenti sottostanti; al momento dell’innesco erano in corso lavori di impermeabilizzazione con bombole e cannello.
“La Corte d’Appello di Torino, con sentenza in data 29 giugno 2016, confermava la condanna resa dal Tribunale cittadino nei confronti di (omissis), titolare dell’omonima impresa artigiana, e (omissis), amministratore del Condominio, responsabili, con condotte colpose indipendenti, del delitto di incendio colposo che il 21 giugno 2010 aveva interessato il piano mansardato ed il tetto dell’edificio condominiale e da cui erano derivati imponenti danni anche a diverse unità abitative poste ai piano sottostanti; confermava altresì le statuizioni civili. In particolare, al [l’artigiano] era stata addebitata la mancata adozione di cautele in tema di sicurezza antincendio nel corso dei lavori di impermeabilizzazione di alcuni lucernai posti sul tetto, a lui commissionati e da lui personalmente eseguiti, avendo egli effettuato la posa della guaina catramata con cannello collegato a bombola di gas propano, creando così surriscaldamento, in assenza di mezzi antincendio (quali estintori od altro). Al (omissis) invece, amministratore del Condominio e committente delle opere di impermeabilizzazione, era stato addebitato di aver conferito l’incarico senza verificare l’idoneità tecnico-professionale del [l’artigiano], in violazione dell’art.90, comma 9 lett.a) e All. XVII del D.Lgs.n.81/2008, non avendo acquisito documentazione relativa alla conformità alle normativa antinfortunistica delle attrezzature usate e dei dispositivi di protezione in dotazione, né attestati inerenti la formazione del [l’artigiano] e neppure il documento di regolarità contributiva (c.d. DURC).”

La difesa dell’amministratore ricorre affermando che l’incarico condominiale all’artigiano, pur esistendo, non prevedeva lavori di impermeabilizzazione con bombole e cannello per i quali, anzi, i committenti dovevano essere ricercati nei singoli proprietari dei nove lucernari privati oggetto di intervento. Inoltre, pur ammettendo la mancanza dell’autocertificazione dell’artigiano riguardante il possesso dei requisiti di idoneità tecnico-professionale, evidenzia che comunque sulla veridicità della stessa l’amministratore non avrebbe potuto effettuare alcuna verifica.

La Suprema Corte ritiene infondato il ricorso. E’ infatti emerso in secondo grado che, anche se in modo non formale, all’artigiano era stato affidato l’incarico di risolvere un problema infiltrativo di natura condominiale, e ciò l’operaio aveva fatto con le stesse modalità con cui stava procedendo alla impermeabilizzazione del tetto in corrispondenza delle mansarde di proprietà privata. Di qui la conclusione – confermata in Cassazione – che l’amministratore, consapevole che l’artigiano “era chiamato ad eseguire, sia per conto del Condominio sia per conto dei singoli condomini, opere che richiedevano l’uso di un cannello a fiamma libera a GPL, avrebbe dovuto - in qualità di amministratore e di committente - verificare che il soggetto da lui stesso individuato fosse effettivamente dotato della necessaria capacità di realizzare i lavori affidati e munito delle attrezzature idonee, anche in relazione ai dispositivi di sicurezza e prevenzione incendi, data la infiammabilità del materiale utilizzato (…). Già questa Corte si è pronunciata nel senso che l’amministratore che stipuli un contratto di affidamento in appalto di lavori da eseguirsi nell’interesse del Condominio è tenuto, quale committente, all’osservanza degli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale dell’Impresa appaltatrice”.

di Cristoforo Moretti
Componente CSN
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L’assemblea: iter procedurale

Come è noto, il legislatore italiano non ha mai definito la natura giuridica del condominio, neppure con la riforma intervenuta con la legge 11 dicembre 2012, n. 220, del codice civile del 1942.
La giurisprudenza, già da tempo, ha definito il condominio un ente di gestione, confermando che è privo di personalità giuridica e, del resto, la sua disciplina è inserita nel libro terzo “della proprietà” con un privilegio dei diritti di comproprietà sulle parti e sui servizi comuni, rispetto sia ai rapporti di natura obbligatoria, anch’essi previsti, sia a quelli personali sussistenti tra i condomini. La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza 18 settembre 2014, n. 19663, ha stabilito che, proprio in relazione alla mutata normativa, il condominio sia fornito, quanto meno, di una soggettività giuridica, poiché è dotato di un patrimonio e assume obbligazioni, derivate da contratti o da fatti illeciti. Come gli enti collettivi, è gestito da due “organi”: l’assemblea, che rappresenta il potere decisionale e l’amministratore che ne rappresenta il potere esecutivo.

L’assemblea delibera, con le maggioranze prescritte, in particolare, dagli artt. 1117-ter, 1120 e 1136 cod. civ., nonché dall’art. 67 disp. att. cod. civ., per ogni questione che rilevi per gli interessi e i diritti dei condomini, con esclusione, conseguentemente, degli argomenti che ne esulano, non concernendo beni e servizi comuni. Qualora avvenga ciò, la delibera è nulla (Cass. civ., Sez. VI, 15 marzo 2017, n. 6652). Si rammenta che la delibera è un atto collettivo, anche se parte della dottrina la definisce un atto complesso. Le delibere possono essere nulle e, dunque, impugnabili in ogni tempo, ovvero annullabili e, quindi, impugnabili entro i trenta giorni previsti dall’art. 67 disp. att. cod. civ., dai condomini assenti o da quelli, presenti all’assemblea, che ne siano stati contrari o si siano astenuti; i trenta giorni decorrono dalla data dell’avvenuta effettiva conoscenza della delibera da parte del condomino che intenda impugnarla. Una delibera con cui si decida in modo concreto una spesa o una attività può essere impugnata, non essendo impugnabili quelle che abbiano un mero contenuto generico e programmatico, tale da rinviare a una successiva l’adozione dell’effettiva delibera (Cass. civ., Sez. II, 25 maggio 2016, n. 104865). Si ricorda che le delibere sono nulle quando propongono un oggetto illecito o impossibile, una causa illecita, quando sono contrarie a disposizioni imperative di legge o violino i diritti soggettivi e/o reali anche di un singolo condomino; per contro, sono annullabili tutte le altre delibere che, sostanzialmente, non rispettano le norme procedurali della gestione condominiale, latu sensu intesa. In quest’ultima fattispecie, legittimato a impugnare la delibera è esclusivamente il condomino interessato a tutelare la lesione del suo diritto, per esempio, per non essere stato convocato in assemblea (Cass. civ., Sez. II, 23 novembre 2016, n. 23903), e non un altro condomino, per esempio quello regolarmente convocato. L’assemblea deve essere convocata dall’amministratore in carica ex art. 67 disp. att. cod. civ., ovvero anche da un terzo che operi quale delegato, secondo il meccanismo della rappresentanza volontaria, per esempio, il socio accomodante della società di persone, amministratrice del condominio, soprattutto se la convocazione è stata redatta sulla carta intestata della società (Cass. civ., Sez. II, 10 gennaio 2017, n. 335).

Uniche eccezioni, alla norma sopra citata, consistono: 
  1. nella possibilità che anche un solo condomino convochi l’assemblea, allorché il condominio sia sprovvisto di amministratore ovvero l’amministratore sia decaduto dalla carica per essere venuti meno i requisiti di moralità prescritti dall’art. 71- bis disp. att. cod. civ.; in quest’ultima ipotesi, anche se il testo di legge riporta l’espressione “senza alcuna formalità” ritengo che le prescrizioni, di cui al precitato art. 66, debbano essere rispettate, indicando la frase de qua che non necessita alcuna preventiva dichiarata revoca da parte dell’assemblea o dell’autorità giudiziaria;
  2. nella convocazione diretta dell’assemblea da parte di un condomino, allorché l’amministratore ne sia obbligato, per esempio per la revisione delle tabelle millesimali o per deliberare una innovazione prevista dal secondo comma dell’art. 1120 cod. civ., ovvero da parte di due o più condomini, rappresentanti almeno un sesto del valore millesimale dell’edificio, che richiedano un’assemblea e l’amministratore non vi provveda nei dieci giorni successivi alla ricezione della relativa raccomandata.
Tutti i condomini effettivi devono essere convocati in assemblea pur se presentino situazioni particolari; può darsi il caso che un condomino sia fallito o sia in conflitto di interessi, per esempio, per aver impugnato una precedente delibera o, ancora, sia un minore o un inabilitato o un interdetto, ovvero per un’unità immobiliare si siano stipulati un contratto di leasing, sia stata prevista la cessione della proprietà con un contratto di rent to buy o con un preliminare trascritto ai Registri Immobiliari, ex art. 2932 cod. civ., o sussistano sia il nudo proprietario sia l’usufruttuario. Se poi sia stata comunicata all’amministratore la vendita, anche parziale, per esempio, per frazionamento di appartamento, di una unità immobiliare, deve essere convocata in assemblea l’acquirente o l’acquirente della porzione di appartamento compravenduta (Cass. civ., Sez. II, 16 giugno 2016, n. 12466). Si rammenta che la convocazione dell’assemblea è un atto unilaterale recettizio e, conseguentemente, deve pervenire ai condomini, o ai conduttori allorché ne abbiano diritto, entro i termini prescritti dalla legge o dal regolamento di condominio.
La convocazione deve contenere l’ordine del giorno. L’ordine del giorno incide sulla validità della relativa assemblea, poiché i condomini devono partecipare all’assemblea informati di quanto dovranno decidere. Non è necessaria, però, un’analitica e minuziosa elencazione degli argomenti da trattare, essendo sufficiente che siano indicati con termini essenziali, tali da essere comprensibili per tutti l’importanza e il tenore di quanto si dovrà deliberare.

Qualora l’assemblea stabilisca di dibattere ugualmente un argomento, non ben specificato nell’ordine del giorno, la partecipazione alla discussione e alla susseguente deliberazione preclude al condomino, che non abbia sollevato eccezioni, di poter impugnare la delibera, adducendo l’incompletezza dell’ordine del giorno. Una volta riunitisi i condomini nel giorno, nell’ora e nel luogo dove è convocata l’assemblea, di norma a maggioranza, eleggono il presidente e il segretario. La figura del presidente era prevista nel testo dell’art. 67 disp. att. cod. civ. del 1942; la riforma della normativa del condominio, introdotta con la legge 11 dicembre 2012, n. 220, ha modificato l’articolo de quo eliminando il riferimento al presidente. Ritengo, tuttavia, che, per analogia con quanto disposto per gli enti collettivi (cfr. art. 2375 (?) cod. civ.), la nomina del presidente sia necessaria per la posizione di direzione della discussione assembleare e di responsabilità che deve assumere in relazione ad alcune decisioni da adottare seduta stante. Ma, considerato che la norma non ne prevede espressamente la nomina, se l’assemblea non vi proceda, questa circostanza non dovrebbe produrre effetti negativi sulla validità delle delibere assunte. Il presidente, constato il quorum costitutivo, per la validità dell’assemblea, per la presenza, di persona o per delega, dei condomini, ne dichiara la validità, riportando a verbale il loro nominativo e il corrispondente valore millesimale.
Il novellato art. 67 disp. att. cod. civ. dispone che, nei condomini il cui numero di condomini sia superiore a venti, nessuno di essi può essere portatore di un numero di deleghe superiore a un quinto dell’intera compagine e dei millesimi del fabbricato.
A prescindere dalle difficoltà operative che in alcune fattispecie si creano, per esempio, qualora un solo condomino sia proprietario di più unità immobiliari, per un valore superiore a duecento millesimi, il legislatore ha desunto la norma dagli arresti degli Ermellini che, confermando la validità di una clausola del regolamento di condominio, intendevano garantire l’effettività del dibattito e la concreta collegialità delle assemblee, allorché il regolamento stesso limitasse il potere dei condomini di farsi rappresentare nelle assemblee (da ultimo: Cass. civ., Sez. VI, 23 marzo 2017, n. 8015).
Terminata l’assemblea, l’ultimo comma dell’art. 1136 cod. civ. prevede che “si rediga” il processo verbale che ha la funzione di documentare la valida costituzione dell’assemblea, il processo formativo e il contenuto delle delibere e, dopo la novella del 2012, ai sensi dell’art. 1129 cod. civ., le brevi dichiarazioni che i condomini hanno voluto rilasciare. La veridicità di questo può essere impugnata avvalendosi di qualsiasi mezzo di prova, senza necessità di proporre una querela di falso (Cass. civ., Sez. VI, 9 maggio 2017, n. 11375); incombe sul condomino, impugnante una delibera, l’onere di sovvertire la presunzione di verità di quanto risulta dal verbale.
Considerato che l’art. 1137 cod. civ. prescrive che possano impugnare le delibere esclusivamente i condomini che sono rimasti assenti all’assemblea, quelli dissenzienti e quelli astenuti, anche in questo caso mutuando la tesi giurisprudenziale, nel verbale devono essere esattamente riportati i nominativi dei condomini dissenzienti e degli astenuti, nonché il valore delle rispettive quote millesimali, non necessitando, per la validità delle delibere, che siano riportati i nominativi di coloro che hanno votato a favore, potendosi desumere, per differenza, la verifica della sussistenza delle maggioranze prescritte dall’art. 1136 cod. civ..
La forma del verbale, deve essere necessariamente scritta dovendo essere riportata nel libro verbale prescritto dall’art. 1129 cod. civ.. È sufficiente la sottoscrizione del presidente e del segretario, che l’ha redatto in seguito alle indicazioni dello stesso presidente, soggetti che non sono, comunque, pubblici ufficiali, ma soggetti privati. Il verbale deve essere sottoscritto da tutti i condomini soltanto qualora costituisca il testo contrattuale di una convenzione stipulata tra loro. Tuttavia se la delibera inerisca a diritti reali dei condomini, il verbale deve essere redatto con forma scritta ad substantiam. Infine si deve rammentare che i verbali, in caso di contestazioni, sono interpretati dall’autorità giudiziaria “secondo i canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 cod. civ. e ss., privilegiando, innanzitutto, l’elemento letterale e quindi, soltanto nel caso in cui esso si appalesi insufficiente, utilizzando gli altri criteri interpretativi sussidiari indicati dalla legge, tra cui quelli della valutazione del comportamento delle parti e della conservazione degli effetti dell’atto.” (Cass. civ., Sez. II, 23 novembre 2016, n. 23903).

di Gian Vincenzo Tortorici
Direttore CSN Anaci
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Profili giuridici della responsabilità giuridica dell’amministratore del condominio per il crollo dell’edificio

In tema di omissione di lavori in costruzioni che minacciano rovina negli edifici condominiali, nel caso di mancata formazione della volontà assembleare che consenta all’amministratore di adoperarsi al riguardo, sussiste a carico del singolo condomino l’obbligo giuridico di rimuovere la situazione pericolosa.

In questo caso, nell'eventualità che l'assemblea si rifiuti di deliberare i lavori di messa in sicurezza, la responsabilità e l'obbligo giuridico sono a carico del singolo condomino.


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venerdì 9 febbraio 2018

LEGISLAZIONE TECNICA - Il contratto di servizio energia



Il Contratto di Servizio Energia “base” e “plus” 
Il Contratto di Servizio Energia (CSE) è disciplinato dal Decreto Legislativo 30 maggio 2008 n. 115 recante attuazione della direttiva 2006/32/CE relativa all’efficienza degli usi finali dell’energia e i servizi energetici e abrogazione della direttiva 93/76/CEE.
Il CSE si inserisce in un quadro di misure volte al miglioramento dell’efficienza degli usi finali dell’energia sotto il profilo costi e benefici delineato dal citato decreto, al fine di contribuire al miglioramento della sicurezza dell’approvvigionamento energetico e alla tutela dell’ambiente attraverso la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra

Infatti, tra l’altro, il citato Decreto:
a) definisce gli obiettivi indicativi, i meccanismi, gli incentivi e il quadro istituzionale, finanziario e giuridico necessari ad eliminare le barriere e le imperfezioni esistenti sul mercato che ostacolano un efficiente uso finale dell’energia;
b) crea le condizioni per lo sviluppo e la promozione di un mercato dei servizi energetici e la fornitura di altre misure di miglioramento dell’efficienza energetica agli utenti finali.

Prima di procedere alla trattazione è opportuno precisare quanto segue: 

- per «efficienza energetica» si deve intendere il rapporto tra i risultati in termini di rendimento, servizi, merci o energia, da intendersi come prestazione fornita, e l’immissione di energia;
- per «miglioramento dell’efficienza energetica» si deve intendere un incremento dell’efficienza degli usi finali dell’energia, risultante da cambiamenti tecnologici, comportamentali o economici;
- per «risparmio energetico» si deve intendere: la quantità di energia risparmiata, determinata mediante una misurazione o una stima del consumo prima e dopo l’attuazione di una o più misure di miglioramento dell’efficienza energetica, assicurando nel contempo la normalizzazione delle condizioni esterne che influiscono sul consumo energetico;
- per «servizio energetico» si deve intendere: la prestazione materiale, l’utilità o il vantaggio derivante dalla combinazione di energia con tecnologie ovvero con operazioni che utilizzano efficacemente l’energia, che possono includere le attività di gestione, di manutenzione e di controllo necessarie alla prestazione del servizio, la cui fornitura è effettuata sulla base di un contratto e che in circostanze normali ha dimostrato di portare a miglioramenti dell’efficienza energetica e a risparmi energetici primari verificabili e misurabili o stimabili.

Ai sensi dell’articolo 16 comma IV del citato Decreto 115/2008, fra i contratti che possono essere proposti nell’ambito della fornitura di un servizio energetico rientra il contratto di servizio energia di cui all’articolo 1, comma 1, lettera p), del decreto del Presidente della Repubblica 26 agosto 1993, n. 412, rispondente a quanto stabilito dall’allegato II al decreto 115/2008.
Il Contratto Servizio Energia è quindi l’atto contrattuale che disciplina l’erogazione dei beni e servizi necessari a mantenere le condizioni di comfort negli edifici nel rispetto delle vigenti leggi in materia di uso razionale dell’energia, di sicurezza e di salvaguardia dell’ambiente, provvedendo nel contempo al miglioramento del processo di trasformazione e di utilizzo dell’energia.
Al Contratto di Servizio Energia così detto “base”, si aggiunge il contratto servizio energia «Plus» che, con ulteriori condizioni, si configura come fattispecie di un contratto di rendimento energetico (EPC). 

Fornitori abilitati
Sono abilitate all’esecuzione del contratto servizio energia i fornitori di servizi energetici che dispongono dei seguenti requisiti:
a) abilitazione professionale ai sensi del Decreto Ministeriale 37/2008, testimoniata da idoneo certificato rilasciato dalle CCIAA competenti, per le seguenti categorie:

1) Settore «A» (impianti elettrici);
2) Settore «C» (riscaldamento e climatizzazione);
3) Settore «D» (impianti idrosanitari);
4) Settore «E» (impianti gas);

b) rispondenza ai requisiti previsti per il terzo responsabile di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 agosto 1993, n. 412, e successive modificazioni, con particolare riferimento alle prescrizioni di cui all’articolo 1, comma 1, lettera o), ovvero la persona fisica o giuridica che, essendo in possesso dei requisiti previsti dalle normative vigenti e comunque di idonea capacità tecnica, economica, organizzativa, è delegata dal proprietario ad assumere la responsabilità dell’esercizio, della manutenzione e dell’adozione delle misure necessarie al contenimento dei consumi energetici.
Si ricordi, infatti, che ai sensi del DPR 74/2013 articolo 6 comma 7, il ruolo di terzo responsabile di un impianto è incompatibile con il ruolo di venditore di energia per il medesimo impianto, e con le società a qualsiasi titolo legate al ruolo di venditore, in qualità di partecipate o controllate o associate in ATI o aventi stessa partecipazione proprietaria o aventi in essere un contratto di collaborazione, a meno che la fornitura sia effettuata nell’ambito di un contratto di servizio energia, di cui al decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 115, in cui la remunerazione del servizio fornito non sia riconducibile alla quantità di combustibile o di energia fornita, ma misurabile in base a precisi parametri oggettivi preventivamente concordati. Nel contratto di servizio energia deve essere riportata esplicitamente la conformità alle disposizioni del decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 115.
Il Fornitore del contratto servizio energia è obbligatoriamente tenuto a dichiarare dalla fase di proposta contrattuale il possesso dei citati requisiti, fornendo esplicita attestazione delle relative informazioni identificative.

Durata
Il contratto servizio energia “base” e “plus” devono avere una durata non inferiore ad un anno e non superiore a dieci anni.

Tuttavia, la durata può essere superiore:
a) qualora nel contratto vengano incluse fin dall’inizio prestazioni che prevedano l’estinzione di prestiti o finanziamenti di durata superiore alla durata massima sopra indicata erogati da soggetti terzi ed estranei alle parti contraenti.
b) qualora nel corso di vigenza di un contratto di servizio energia, le parti concordino l’esecuzione di nuove e/o ulteriori prestazioni ed attività conformi e corrispondenti ai requisiti del presente decreto, la durata del contratto potrà essere prorogata nel rispetto delle modalità definite dal presente decreto.
c) Nei casi in cui il Fornitore del contratto servizio energia partecipi all’investimento per l’integrale rifacimento degli impianti e/o la realizzazione di nuovi impianti e/o la riqualificazione energetica dell’involucro edilizio per oltre il 50 per cento della sua superficie.

di Edoardo Riccio
Coordinatore Giuridico CSN 
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