lunedì 29 maggio 2017

Rinnovata l’intesa tra Entrate e Avvocatura dello Stato


COMUNICATO STAMPA

Rinnovata l’intesa tra Entrate e Avvocatura dello Stato
Collaborazione e sinergia per l’efficace gestione del contenzioso

Avvocatura dello Stato e Agenzia delle Entrate uniscono nuovamente le forze per potenziare l’efficienza e l’efficacia nella gestione delle controversie. Il protocollo d’intesa, siglato oggi dall’Avvocato generale dello Stato, Massimo Massella Ducci Teri, e dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, rinsalda una volta ancora il legame di collaborazione tra le due istituzioni. I due enti hanno inoltre firmato oggi un accordo di cooperazione applicativa che disciplina le modalità di integrazione fra i rispettivi sistemi informativi.

I termini del protocollo - Il protocollo d’intesa disciplina la cooperazione istituzionale tra i due enti, a partire dalle richieste di patrocinio rivolte all’Avvocatura da parte delle Entrate, sia in generale, sia a seconda delle varie tipologie di lite in cui può essere coinvolta l’Amministrazione finanziaria. Dal contenzioso tributario davanti alla Cassazione, anche al fine della sua razionalizzazione e riduzione, alle controversie civili e amministrative, anche in materia di appalti, e alla costituzione di parte civile nei processi penali. L’accordo rimarrà valido fino alla sottoscrizione di una successiva intesa.

Attività consultiva - Nel caso di pareri richiesti all’Avvocatura, le Direzioni centrali dell’Agenzia si occuperanno di coordinare la proposizione dei quesiti, contenenti questioni interpretative di carattere generale o di particolare rilevanza, provenienti dalle strutture territoriali. Dal canto suo, l’Avvocatura provvederà a corrispondere con tempestività alle richieste del Fisco.

Ogni sei mesi si riapre il confronto - Agenzia delle Entrate e Avvocatura generale intendono incontrarsi periodicamente per valutare l’evoluzione del contenzioso riguardante le più diffuse e rilevanti questioni controverse, in modo da definire linee di condotta comuni.

Il gioco di squadra passa attraverso il web – Nell’accordo di cooperazione applicativa Avvocatura e Agenzia si impegnano a realizzare servizi disciplinati dal Codice dell'amministrazione digitale (CAD) attraverso i quali potranno scambiarsi informazioni e documenti. Viene stabilita quindi una relazione mediante la quale i rispettivi sistemi informativi sono reciprocamente erogatori e fruitori dei servizi individuati secondo le regole tecniche del Sistema pubblico di connettività (SPC).

Roma, 24 maggio 2017
Continua a leggere...

LA DOCUMENTAZIONE CONDOMINIALE A DISPOSIZIONE DEI CONDOMINI - CASSAZIONE 18 MAGGIO 2017, N. 12579

La Suprema Corte specifica come la richiesta mossa dalla ricorrente di vagliare la correttezza dell’interpretazione del giudice di appello rispetto alle norme regolamentali non è ammissibile in grado di Cassazione, deputato unicamente al vaglio di legittimità e non anche di merito.
In particolare secondo la Corte «le disposizioni contenute in un regolamento di condominio hanno natura regolamentare, organizzativa o contrattuale, sicché l’interpretazione o l’applicazione di esse fatta dal giudice del merito non può essere denunciata in sede di legittimità, come se si trattasse di violazione o falsa applicazione di norme di diritto».
Nel merito della questione, la Suprema Corte afferma la validità dell’operato dell’amministratore in quanto anche se la norma prevedeva l’invio di documentazione, questa era stata per un decennio interpretata piuttosto come una messa a disposizione della contabilità anche per evitare inutili intralci all’attività dell’amministratore.
Secondo la Corte, quindi, la tacita accettazione di tale condotta da parte dell’amministratore aveva rilievo ai sensi dell’art. 1362, comma 2, c.c. che prevede che «per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto».
In buona sostanza l’accettazione per dieci anni da parte dei condomini di tale comportamento da parte dell’amministratore aveva di fatto comportato la modificazione del regolamento condominiale, per lo meno riguardo alla sua interpretazione.

Continua a leggere...

CASSAZIONE 18 MAGGIO 2017, N. 12579 - Documentazione a disposizione dei condomini



CASSAZIONE 18 MAGGIO 2017, N. 12579

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE 
SESTA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                           
Dott. PETITTI  Stefano  -  Presidente   
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni  -  Consigliere 
Dott. GIUSTI  Alberto -  Consigliere  
Dott. PICARONI Elisa  -  Consigliere 
Dott. SCARPA  Antonio  -  rel. Consigliere 
ha pronunciato la seguente:      
                                    
ORDINANZA

sul ricorso 4497/2016 proposto da: 
L.R.M., elettivamente domiciliata in ROMA, presso lo studio dell'avvocato P. S., rappresentata e difesa dall'avvocato M. G.; 
- ricorrente - 

CONTRO
CONDOMINIO, rappresentato e difeso dall'avvocato F. P.; 
- controricorrente - 

avverso la sentenza n. 533/2015 della CORTE D'APPELLO di MESSINA, depositata il 24/09/2015; 
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/04/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.


FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

La ricorrente L.R.M. impugna, articolando tre motivi di ricorso, la sentenza n. 533/2015 del 24 settembre 2015 della Corte d’Appello di Messina, che ha accolto l’appello proposto dal Condominio (omissis) , riformato la sentenza dell’8 maggio 2012 del Tribunale di Messina e perciò rigettato la domanda di impugnazione della deliberazione assembleare del 19 febbraio 2009. Il Tribunale aveva annullato questa deliberazione dell’assemblea del Condominio (omissis) , a causa del mancato rispetto dell’art. 16 del vigente regolamento condominiale, che imponeva all’amministratore di trasmettere copia dei preventivi e dei rendiconti ad ogni condomino almeno dieci giorni prima del giorno fissato per la riunione e di tenere per lo stesso periodo a disposizione dei condomini documenti e giustificativi di cassa. La Corte di Messina rilevava tuttavia che, dalla prodotta documentazione, si evincesse che tale disposizione sia stata interpretata dagli amministratori succedutisi nell’ultimo decennio nel Condominio (omissis), nel senso di fissare nell’avviso di convocazione dell’assemblea un giorno proprio per consentire la visione della contabilità, previa appuntamento con l’amministratore. Ciò l’amministratore nella specie aveva fatto, indicando nell’avviso di convocazione inoltrato il 7 febbraio 2009, relativo all’assemblea del 18/19 febbraio 2009, che il 16 febbraio 2009, dalle ore 16,30 alle ore 18,00, sarebbe stato possibile "visionare la documentazione relativa alla gestione 2008 presso la saletta, previo appuntamento telefonico".
Risultava, invece, per quanto accertato dalla Corte d’Appello, che la condomina L.R.M. avesse spedito il 17 febbraio 2009 una raccomandata, ricevuta dall’amministratore soltanto il 19 febbraio 2009 (giorno dell’assemblea), con cui chiedeva copia della documentazione. La Corte di Messina dichiarava, poi, di non affrontare la questione del conflitto di interessi, non avendo l’appellata riproposto espressamente tale questione, agli effetti dell’art. 346 c.p.c., nelle sue difese.
Il Condominio (omissis) , si difende con controricorso.
Ritenuto che il ricorso proposto potesse essere rigettato per manifesta infondatezza, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375, comma 1, n. 5), c.p.c., su proposta del relatore, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.
Il primo motivo del ricorso di L.R.M. denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1129 e 1130 c.c., nonché dell’art. 16 del regolamento condominiale, difetto di motivazione, eccesso di potere e violazione dell’obbligo/diritto d’informazione. Si sostiene che la Corte d’Appello abbia fatto prevalere la prassi invalsa nel Condominio (omissis) , sulle norme del codice civile e del regolamento di condominio che obbligano l’amministratore a trasmettere copia dei consuntivi e dei preventivi prima dell’assemblea di approvazione.
Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1130 e 1130-bis c.c., essendo l’amministratore venuto meno all’obbligo di rendicontazione nelle modalità stabilite dalla disciplina del codice civile e dal regolamento di condominio; si censura anche la motivazione incongrua e contraddittoria e l’eccesso di potere da parte dell’amministratore, facendosi riferimento ai criteri adottati per la ripartizione delle spese di esercizio e di riparazione dell’autoclave e dell’impianto di adduzione dell’acqua.
I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi tra loro, e si rivelano in parte inammissibili e per il resto comunque manifestamente infondati.
Secondo quanto anche eccepito dal controricorrente, non si comprende dal ricorso quale fosse il contenuto della deliberazione assembleare del 19 febbraio 2009 impugnata ai sensi dell’art. 1137 c.c., quanto, in particolare, ai provvedimenti adottati, che si assumono illegittimi, nella ripartizione delle spese di autoclave e di "quote-acqua". È perciò violato l’onere, incombente a pena di inammissibilità del ricorso sul ricorrente per cassazione che intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., di indicare esattamente nell’atto introduttivo in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di evidenziarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti termini, e ciò con riferimento ai documenti "sui quali il ricorso si fonda", in quanto onere preordinato, appunto, a consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte.
Ancora, le disposizioni contenute in un regolamento di condominio hanno natura regolamentare, organizzativa o contrattuale, sicché l’interpretazione o l’applicazione di esse fatta dal giudice del merito non può essere denunciata in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., come se si trattasse di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, per tali intendendosi soltanto quelle risultanti dal sistema delle fonti dell’ordinamento giuridico. L’omesso o errato esame di una disposizione del regolamento di condominio da parte del giudice di merito è, piuttosto, sindacabile in sede di legittimità soltanto per inosservanza dei canoni di ermeneutica oppure per vizi logici sub specie dell’omesso esame di fatto storico decisivo e controverso ex art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1406 del 23/01/2007; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9355 del 14/07/2000).
Il riferimento come norma violata all’art. 1130-bis c.p.c. non tiene conto che tale disposizione è stata introdotta dalla legge n. 220 del 2012 ed è perciò entrata il vigore il 18 giugno 2013, mentre qui è in discussione la validità di una deliberazione assembleare del febbraio 2009.
Le censure di difetto di motivazione, o di motivazione incongrua e contraddittoria, neppure tengono conto che trova applicazione il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., introdotto dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modifiche nella legge 7 agosto 2012, n. 134, in base al quale non è più configurabile il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti. La nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. postula la deduzione dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Il primo motivo del ricorso di L.R.M. non rispetta le previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c., in quanto il ricorrente non indica il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", limitandosi a denunciare l’omesso esame di elementi istruttori con riguardo a fatti storici comunque presi in considerazione dalla Corte d’Appello (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
Venendo, peraltro, al merito delle questioni poste, circa l’interpretazione che la Corte di Messina ha prescelto dell’art. 16 del Regolamento di condominio, deve ancora osservarsi come l’interpretazione di un regolamento di condominio da parte del giudice del merito è insindacabile in sede di legittimità quando non riveli violazione dei canoni di ermeneutica oppure vizi logici (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17893 del 31/07/2009).
Ora, a proposito di tale art. 16 del regolamento condominiale (che imponeva all’amministratore di trasmettere copia dei preventivi e dei rendiconti ad ogni condomino almeno dieci giorni prima del giorno fissato per la riunione e di tenere per lo stesso periodo a disposizione dei condomini documenti e giustificativi di cassa), la Corte di Messina ha accertato che lo stesso avesse avuto pratica attuazione da parte dagli amministratori succedutisi nel Condominio (omissis) nell’ultimo decennio nel senso di fissare nell’avviso di convocazione dell’assemblea una data, da concordare, finalizzata a consentire la visione della contabilità, prassi rispettata anche con riguardo all’assemblea del 18/19 febbraio 2009. Trattandosi di prescrizione di contenuto organizzativo, ovvero propriamente "regolamentare", del regolamento di condominio (e, non quindi, di contenuto contrattuale, ovvero incidente sulla proprietà dei beni comuni o esclusivi), ha certamente rilievo a fini interpretativi, ai sensi dell’art. 1362, comma 2, c.c., anche il comportamento posteriore al medesimo regolamento avuto dai condomini, così com’è ammissibile che la stessa norma regolamentare venga modificata per "facta concludentia", sulla base di un comportamento univoco.
D’altro canto, se è vero che l’art. 1129, comma 2, c.c., dopo la Riforma introdotta con la legge n. 220 del 2012, prevede ora espressamente che l’amministratore debba comunicare il locale dove si trovano i registri condominiali, nonché i giorni e le ore in cui ogni interessato, previa richiesta, possa, appunto, prenderne gratuitamente visione e ottenere, previo rimborso della spesa, copia firmata, è anche costante, e meritevole tuttora di conferma, l’orientamento di questa Corte secondo cui la vigilanza ed il controllo, esercitati dai partecipanti essenzialmente, ma non soltanto, in sede di rendiconto annuale e di approvazione del bilancio da parte dell’assemblea, non devono mai risolversi in un intralcio all’amministrazione, e quindi non possono porsi in contrasto con il principio della correttezza, ex art. 1175 c.c. (Cass. Sez. 2, 21 settembre 2011, n. 19210; Cass. Sez. 2, 29 novembre 2001, n. 15159; Cass. Sez. 2, 19 settembre 2014, n. 19799). In tal senso, l’interpretazione che la Corte di Messina ha adottato dell’art. 16 del Regolamento appare logicamente coerente con l’esigenza di obbligare l’amministratore a predisporre un’organizzazione che consenta ai condomini il diritto di accedere alla documentazione contabile in vista della consapevole partecipazione all’assemblea condominiale, senza però che l’esercizio di tale facoltà paralizzi il normale svolgersi dell’attività di gestione condominiale.
Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c. e dell’art. 345 c.p.c., contestandosi che la questione del conflitto di interessi costituisse domanda o eccezione, perciò da riproporre; e poi aggiungendosi che le richieste istruttorie avanzate dal Condominio appellante a pagina 12 dell’atto di appello fossero inammissibili.
Anche questo motivo è infondato.
Il principio, sancito dall’art. 346 c.p.c., secondo cui le domande ed eccezioni non accolte o rimaste assorbite in primo grado debbono essere riproposte espressamente, a pena di esclusione dal tema del giudizio di appello, dalla parte pienamente vittoriosa, opera certamente allorché, come nel caso in esame, quest’ultima intendesse devolvere al giudice d’appello un motivo di invalidità della deliberazione dell’assemblea dei condomini diverso da quello accolto nel giudizio di primo grado, essendo ciascuna ragione di annullabilità della delibera basata su una diversa "causa petendi" (arg. da Cass. Sez. 2, 18 febbraio 1999, n. 1378).
È invece inammissibile la denuncia di violazione dell’art. 345 c.p.c., in quanto la ricorrente non indica quale siano le richieste istruttorie avanzate dal Condominio soltanto in appello (se non facendo rinvio per relationem a "pag. 12 atto di appello"), né lascia intendere in che misura tali prove nuove abbiano inciso sulla decisione della Corte d’Appello, laddove la violazione di norme processuali può costituire motivo idoneo di ricorso per cassazione, ai sensi, peraltro, dell’art. 360, n. 4, c.p.c., solo quando abbia influito in modo determinante sul contenuto della pronuncia di merito, ovvero allorché quest’ultima - in assenza di tale vizio - non sarebbe stata resa nel senso in cui lo è stata (cfr. Cass. Sez. 3, 11 novembre 2015, n. 22978).
Il ricorso va perciò rigettato e la ricorrente va condannata a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di cassazione.
Sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Continua a leggere...

mercoledì 24 maggio 2017

LASTRICO ESLUSIVO. LA SPESA SOLO ALLE UNITA’ IMMOBILIARI COPERTE DALLA SUPERFICIE

In tema di condominio negli edifici, agli effetti dell'art. 1126 c.c., i due terzi della spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico solare di uso esclusivo sono a carico non di tutti i condomini, in relazione alla proprietà delle parti comuni esistenti nella colonna d'aria sottostante, ma di coloro che siano proprietari individuali delle singole unità immobiliari comprese nella proiezione verticale di detto lastrico, alle quali, pertanto, esso funge da copertura. La Suprema Corte spiega che l'art. 1126 c.c., obbligando a partecipare alla spesa relativa alle riparazioni del lastrico solare di uso esclusivo, nella misura di due terzi, "tutti i condomini dell'edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve", si riferisce a coloro ai quali appartengono unità immobiliari di proprietà individuale comprese nella proiezione verticale del manufatto da riparare o ricostruire, alle quali, pertanto, esso funge da copertura, con esclusione dei condomini ai cui appartamenti il lastrico stesso non sia sovrapposto. Nello specifico, l'obbligo di partecipare alla ripartizione dei cennati due terzi della spesa non deriva, quindi, dalla sola, generica, qualità di partecipante del condominio, ma dall'essere proprietario di un'unità immobiliare compresa nella colonna d'aria sottostante alla terrazza o al lastrico oggetto della riparazione. Del resto, è pressochè inevitabile che la terrazza a livello o il lastrico di uso esclusivo coprano altresì una o più parti che siano comuni a tutti i condomini, e non solo a quelli della rispettiva ala del fabbricato, come, ad esempio, il suolo su cui sorge l'edificio, la facciata, le fondazioni, ma se bastasse ciò per chiamare a concorrere alle spese del bene di copertura tutti i condomini, l'art. 1126 c.c., non avrebbe alcuna pratica applicazione.

Continua a leggere...

CASSAZIONE 10 MAGGIO 2017, N. 11484 - in tema di lastrico solare



CASSAZIONE 10 MAGGIO 2017, N. 11484

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE 
SESTA SEZIONE CIVILE
SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:              
Dott. PETITTI  Stefano -  Presidente  
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni -  Consigliere   
Dott. GIUSTI   Alberto -  Consigliere   
Dott. PICARONI Elisa  -  Consigliere  
Dott. SCARPA   Antonio -  rel. Consigliere  

ha pronunciato la seguente: 
                                         
ORDINANZA
                                   
sul ricorso 2693/2016 proposto da: 
M.R.,  MI.AN.MA., M.A., elettivamente domiciliati in ROMA, presso lo studio dell'avvocato G. F. R., che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato M.A.; 
- ricorrenti - 

CONTRO
S.C., elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio dell'avvocato E. Z., che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato B. P.; 
- controricorrente - 
E CONTRO
CONDOMINIO,  P.M., C.M.G., CA.FA., F.S.M., C.B.G., INTIS SRL; 
- intimati - 

avverso la sentenza n. 2642/2015 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 22/06/2015; 
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/04/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.
                           
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Mi.An.Ma., M.R. e M.A. propongono ricorso per cassazione articolato in unico motivo avverso la sentenza della Corte d'Appello di Milano n. 2642/2015 del 22 giugno 2015. La sentenza impugnata, in parziale riforma della decisione di primo grado resa dal Tribunale di Busto Arsizio, sezione distaccata di Gallarate, ha dichiarato che le spese inerenti il rifacimento dei lastrici solari siti al quinto ed al sesto piano della scala B dell'edificio del Condominio (OMISSIS), oggetto della deliberazione assembleare del 23 giugno 2011, debbano essere sostenute per un terzo dai proprietari esclusivi dei lastrici e per due terzi da tutti i restanti condomini. La Corte d'Appello di Milano ha posto in evidenza come i lastrici solari insistono su "porzione di immobile in seno alla quale si trovano anche parti di proprietà comune dell'intera Comunione (galleria pedonale, portico pedonale, portineria, atrio, piani interrati, corselli box)", e quindi costituiscono "copertura non solo delle unità immobiliari site ai piani sottostanti e di proprietà esclusiva dei rispettivi comunisti, ma pure, appunto, di tali parti comuni".
Per questo, a dire dei giudici dell'appello, non vi sarebbe ragione alcuna per cui i condomini della scala B debbano farsi esclusivo carico di parti che ricadono nella proprietà comune anche della scala A. Inoltre, la Corte d'Appello ha messo in rilievo come l'art. 8 del Regolamento Condominiale preveda che le spese riguardanti le parti comuni si suddividano in proporzione della quota millesimale di proprietà di ciascuno dei comproprietari.
L'unico complesso motivo del ricorso di Mi.An.Ma., M.R. e M.A., denuncia il travisamento dell'art. 1126 c.c., e art. 68 disp. att. c.c..
Resiste con controricorso S.C..
Rimangono intimati, senza svolgere attività difensiva, il Condominio (OMISSIS), Ca.Fa., INTIS s.r.l., F.S.M., C.B.G., C.M.G. e P.M..
Ritenuto che il ricorso potesse essere accolto per manifesta fondatezza, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all'art. 380 bis c.p.c., in relazione all'art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, il presidente ha fissato l'adunanza della camera di consiglio.
L'unico motivo di ricorso è fondato.
La decisione della Corte d'Appello di Milano contrasta con la giurisprudenza di questa Corte consolidatasi sulla base di risalente e costante orientamento.
L'art. 1126 c.c., obbligando a partecipare alla spesa relativa alle riparazioni del lastrico solare di uso esclusivo, nella misura di due terzi, "tutti i condomini dell'edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve", si riferisce evidentemente a coloro ai quali appartengono unità immobiliari di proprietà individuale comprese nella proiezione verticale del manufatto da riparare o ricostruire, alle quali, pertanto, esso funge da copertura, con esclusione dei condomini ai cui appartamenti il lastrico stesso non sia sovrapposto (cfr. Cass. Sez. 2, n. 7472 del 04/06/2001; Cass. Sez. 2, n. 3542 del 15/04/1994; Cass. Sez. 2, n. 244 del 29/01/1974; anche Cass. Sez. 2, n. 2726 del 25/02/2002).
Come meglio ancora spiegato da Cass. Sez. 2, n. 2821 del 16/07/1976, l'obbligo di partecipare alla ripartizione dei cennati due terzi della spesa non deriva, quindi, dalla sola, generica, qualità di partecipante del condominio (come invece ha ritenuto la Corte d'Appello di Milano), ma dall'essere proprietario di un'unità immobiliare compresa nella colonna d'aria sottostante alla terrazza o al lastrico oggetto della riparazione. Del resto, è pressochè inevitabile che la terrazza a livello o il lastrico di uso esclusivo coprano altresì una o più parti che siano comuni a tutti i condomini, e non solo a quelli della rispettiva ala del fabbricato, come, ad esempio, il suolo su cui sorge l'edificio, la facciata, le fondazioni, ma se bastasse ciò per chiamare a concorrere alle spese del bene di copertura tutti i condomini, l'art. 1126 c.c., non avrebbe alcuna pratica applicazione.
Giacchè, peraltro, l'art. 1126 c.c. non è compreso tra le disposizioni inderogabili richiamate dall'art. 1138 c.c., certamente il regolamento del condominio può stabilire la ripartizione delle relative spese in modo pattizio, pure ponendo le stesse a carico di tutti i condomini, ma a tal fine occorre che sia adottata una convenzione espressa di deroga al criterio legale, e tale certamente non si rivela l'art. 8 del Regolamento condominiale cui fa cenno la Corte d'Appello di Milano, il quale, disponendo che le spese per le parti comuni si suddividono in proporzione alla quota millesimale di proprietà di ciascuno, risulta mera traslitterazione dell'art. 1123 c.c., comma 1.
La sentenza impugnata deve essere quindi cassata, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte d'appello di Milano, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
Il giudice di rinvio deciderà uniformandosi al seguente principio di diritto:
"In tema di condominio negli edifici, agli effetti dell'art. 1126 c.c., i due terzi della spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico solare di uso esclusivo sono a carico non di tutti i condomini, in relazione alla proprietà delle parti comuni esistenti nella colonna d'aria sottostante, ma di coloro che siano proprietari individuali delle singole unità immobiliari comprese nella proiezione verticale di detto lastrico, alle quali, pertanto, esso funge da copertura".

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d'appello di Milano anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta - 2 Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 aprile 2017.
Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2017
Continua a leggere...

lunedì 22 maggio 2017

LE SCADENZE FISCALI DEL MESE DI GIUGNO 2017

Di seguito il calendario di tutte le scadenze fiscali del mese di Giugno anno 2017


Continua a leggere...

giovedì 18 maggio 2017

La deontologia professionale

I professionisiti, siano essi iscritti in Ordini, ai sensi dell’art. 2229 cod. civ., ovvero esercitino la propria attività ex lege 14 gennaio 2013, n. 4, svolgono una mansione intellettuale, libera, indipendente e, soprattutto, sociale.
Le regole, alle quali sono sottoposti, sono derivate da una pluralità di fonti, normative e tecniche, finalizzate all’attuazione di valori e di principi universalmente riconosciuti, quali: il rispetto della dignità, della libertà, della salute, della solidarietà degli uomini e per gli uomini, anche alla luce del dettato dell’art. 2 Cost..
Gli amministratori Anaci devono adempiere a tutte le prescrizioni dettate, non solo dal codice civile, ma da ogni norma che inerisca all’attività intellettuale svolta, affinché possano qualificarsi professionisti al pari di ogni altro senza timori riverenziali o, peggio, una sudditanza anche solo psicologica.
Necessita loro, conseguentemente, una vera cultura fondata sull’educazione e sulla conoscenza di differenti e vari saperi, dal diritto all’economia, dalla sociologia alla scienza della sicurezza, latu sensu intesa, per applicare, nel concreto del contesto umano in cui operano, i principi sopra esposti. Non si tratta, quindi, di una più o meno approfondita conoscenza della materia di propria competenza, per esempio, la difesa in giudizio di un imputato per un furto in un supermercato o la gestione delle parti comuni di un condominio, ma della consapevolezza di un comportamento da tenere consono alla dignità della persona, in primo luogo dello stesso professionista, nonché al prestigio della classe professionale che rappresenta. Il venire meno a comportamenti individuali, sia ispirati a valori positivi, sia immuni da qualsiasi critica etica e civile, determina il nascere di una negativa pubblicità, non solo, nei suoi confronti ma, ancora di più, sull’intera classe professionale. Dal coacervo di quanto dedotto, risulta un obbligo morale, oltre che giuridico, previsto in specie dal secondo comma dell’art. 1176 cod. civ., che il professionista non deve disattendere, per esempio, evitare responsabilità e disonore.
L’Unione Europea tende ad abolire gli Ordini professionali, eccettuati quelli che presentano una rilevanza sociale, come gli Ordini degli avvocati e dei medici, privilegiando l’associazionismo, previsto questo di diritto dalla citata legge n. 4/2013; ma la funzione manifestata da qualsiasi professionista, sia egli ingegnere, avvocato, dottore commercialista o amministratore di condominio, è identica, perseguendo in pari misura la tutela del proprio cliente con integrità e probità, considerata la rilevanza economica e sociale dell’attività da loro svolta, per esempio, un giudizio in cui sia controverso un diritto umano o la gestione di un affare più favorevole per i condomini.
L’onestà intellettuale che deve guidare il comportamento dei professionisti si traduce in un approfondimento scientifico delle questioni che vengono a loro sottoposte, con il dovere di non accettare quelle che eccedono le proprie conoscenze tecniche, traducendosi, in caso contrario, in una incapacità di tutelare adeguatamente il proprio cliente e, quindi, sanzionabili in base a tutti i codici deontologici e di comportamento delle differenti professioni.
Così, per esempio, un amministratore condominiale, con uno studio di non elevata dimensione strutturale, deve rifiutare la proposta di nomina in un super condominio costituito da numerosi palazzi, ovvero un avvocato, puramente civilista, deve rifiutare l’incarico per una causa complessa avanti alla Giurisdizione amministrativa o ancora un dottore commercialista non può assumersi l’onere di una particolare amministrazione straordinaria di una impresa con numerosi dipendenti e consistenti bilanci.
Del resto, non si deve dimenticare il d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206, in tema di tutela dei consumatori, che incentra questa, tra l’altro, sulla sanzionabile pratica di concorrenza sleale tra gli operatori nel mercato a loro danno e sulla trasparenza nei rapporti tra costoro e i professionisti.
Un amministratore, dunque, deve segnalare all’assemblea tutti i rischi che lo stabile condominiale e i suoi impianti, presentano, per esempio, per vetustà o per scarsa manutenzione, sia per assicurarli congruamente con polizze adeguate, sia per programmare gli interventi ritenuti, se non proprio necessari, almeno più che opportuni. Parimenti, un avvocato deve prospettare i rischi di una impugnazione in appello, qualora la sentenza di primo grado sia fondata sul merito e sia immune da vizi logico-giuridici; tipico esempio è costituito da una sentenza che stabilisca che una determinata opera alteri o non alteri le linee architettoniche dell’edificio. E, ancora, un ingegnere deve prospettare la necessità di un’indagine geologica, se la ritenga adeguata, prima di effettuare un’importante ristrutturazione strutturale dell’immobile.
Inoltre il professionista non deve ostacolare o, addirittura, danneggiare il cliente che lo abbia revocato, non consegnando al subentrante la documentazione utile per prosieguo dell’attività gestionale; per esempio, l’avvocato che non consegna tutti gli atti, le lettere scritte e le e-mail della pratica legale, compresa la corrispondenza riservata tra colleghi, ovvero l’amministratore che non consegni il libro dei verbali, il registro dell’anagrafe condominiale, la polizza d’assicurazione dello stabile, i contratti con i fornitori, le raccomandate di messa in mora inviate o ricevute dal medesimo o, ancora, il commercialista che non versi le somme che appartengono al cliente a qualsiasi titolo ricevute.
Infatti, la dignità e il decoro del professionista non si esplicano soltanto verso il proprio cliente, ma anche verso i colleghi con i quali i rapporti, interpersonali o anche meramente professionali, devono essere improntati al reciproco rispetto.
In questo modo è vietato criticare l’operato di un altro collega, soprattutto se a questi si subentri, per esempio, a un amministratore o a un avvocato, revocati rispettivamente dall’assemblea o dal condominio che si patrocinava.
Perciò un amministratore non deve revisionare un rendiconto consuntivo, redatto dal precedente amministratore, se ritualmente già approvato dall’assemblea, sempre che al medesimo non sia espressamente conferito un incarico ad hoc, che non abbia sollecitato; l’avvocato non deve riferire al cliente che la comparsa di costituzione in giudizio presenta gravi lacune difensive, ovvero registrare e far ascoltare a terzi, in viva voce, la telefonata con il collega revocato.
Non solo la dignità de qua impedisce al professionista di accaparrare la clientela con qualsiasi mezzo di propaganda, per esempio, per un amministratore inserire nelle cassette postali volantini riportanti sconti rilevanti sul proprio compenso o per un avvocato fare pubblicità al suo studio prospettando una competenza in una determinata branca giuridica, non posseduta, trattandosi di pubblicità ingannevole.
Infine, si devono rispettare gli organi preposti alla conduzione dell’Ordine o dell’Associazione che, in entrambe le fattispecie, siano stati democraticamente eletti dagli iscritti.
L’ottemperare alle indicazioni e alle prescrizioni impartite allo scopo di valorizzare il loro ruolo e collaborare per l’attuazione dei loro scopi istituzionali, costituisce un preciso onere del professionista che deve fornire ogni informazione inerente alla sua attività che gli venga richiesta. In tale contesto, si innesta il dovere deontologico degli avvocati, iscritti o collaboratori, di ANACI.
Innanzi tutto, questi non devono denigrare il metodo di lavoro e gli elaborati prodotti da Centri Studi ANACI a qualsiasi livello, nazionale, regionale, provinciale; inoltre, devono assicurare, e, comunque, sempre riportare, le tesi sostenute da ANACI, anche se contrarie alla propria opinione e alla prevalente giurisprudenza, purché supportate da rigorosi approfondimenti.
L’avvocato “ANACI”, anche se non associato, opera su due livelli distinti.
Essendo un libero professionista, in ogni senso, nell’ambito del suo studio privato deve consigliare al proprio cliente la migliore difesa, anche se in contrasto con la tesi espressa dal Centro Studi Nazionale: per esempio, non opporsi a un pignoramento del conto corrente condominiale effettuato da un creditore del condominio, considerata sia la plurima produzione giurisprudenziale, seppure di merito, e l’attuale dottrina, sia i costi economici che ne deriverebbero in caso di una sentenza negativa.
Come professionista è libero di intervenire in ogni parte d’Italia, qualificandosi quale avvocato del foro di… .
Se, invece, vuole qualificarsi come membro del Centro Studi ANACI, le ipotesi sono tre:
a) se interviene a eventi organizzati da ANACI, non deve segnalare la presenza ad alcun organo dirigenziale dell’Associazione;
b) se interviene a convegni e a manifestazioni di qualsiasi genere organizzati da enti, da società e via di seguito, differenti, non contrastanti con ANACI, per esempio, una Camera di Commercio, o un Collegio dei Geometri, deve segnalare preventivamente al presidente della propria sede e ai presidenti ANACI di competenza territoriale il proprio intervento;
c) se richiesto di intervenire a convegni o corsi organizzati da Associazioni con le quali l’ANACI è in contrasto, deve declinare l’invito.
Infine, si deve rilevare che, pure nel mutato contesto sociale, culturale, normativo ed economico, l’interesse pubblico, che il professionista deve tutelare, non può consentirgli un comportamento, che non può che non essere volontario, contrario ai principi sopra esposti. Ovviamente la sanzione disciplinare che ne deriva non è frutto di un calcolo matematico, ma è conseguenza della complessiva valutazione della gravità dei comportamenti attuati e che violano i doveri di probità, di dignità e di decoro che sono propri di ogni attività professionale.

di Gian Vincenzo Tortorici
Direttore CSN Anaci 
Continua a leggere...

Il reato (proprio) di disturbo della quiete domestica

Tra i banchi dell’università, nell’àmbito delle prime lezioni di diritto penale, si insegnava che l’autore, o soggetto attivo del reato, è colui che realizza il fatto tipico: in quest’ottica, la maggior parte dei reati possono essere commessi da chiunque (c.d. reati comuni), mentre altri reati possono essere commessi solo da soggetti che posseggono determinate caratteristiche o solo da soggetti che abbiano una certa qualifica (c.d. reati propri).
Ovviamente scherzando - ma non più di tanto … - sembra che, nella convivenza “forzata” all’interno dell’edificio urbano, il condomino rivesta una posizione specifica per commettere il reato penale di disturbo della quiete domestica (impregiudicata l’integrazione dell’ipotesi civilistica dell’immissione molesta contemplata nell’art. 844 c.c.) Tale opinione risulterebbe avvalorata dalla seguente sintetica carrellata di fattispecie analizzate dalla giurisprudenza di legittimità, che registra la sovente consumazione di tale contravvenzione nel ristretto àmbito del microcosmo condominiale (sull’aspetto “animalesco”, si consenta il rinvio al commento A. CELESTE, Abbaiar di cani tra inibitorie sul versante civilistico e configurazioni di fattispecie penali, in questa Rivista, febbraio 2016, n. 201, p. 11 ss., ed alle pronunce giudiziarie ivi citate).
La panoramica deve prendere le mosse dal disposto dell’art. 659 c.p., che disciplina appunto la contravvenzione di “disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone”, e contempla due distinte ipotesi: in questa sede rileva quella prevista nella prima parte del comma 1, laddove si punisce con l’arresto fino a 3 mesi o con l’ammenda fino a euro 309,00, “chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone”.
In termini generali, si è affermato - anche di recente - per un verso, che la responsabilità per la fattispecie de qua non implica, attesa la natura di “reato di pericolo presunto” e non di danno, la prova dell’effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente “l’idoneità della condotta a disturbarne un numero indeterminato di persone” - v., tra le altre, Cass. pen. 24 gennaio 2012 n. 7748; Cass. pen. 21 ottobre 1996 n. 12984; Cass. pen. 9 dicembre 1999 n. 1394; Cass. pen. 8 ottobre 2004 n. 40393 - e per altro verso, che ’attitudine dei rumori a disturbare il riposo delle persone non va necessariamente accertata mediante consulenza tecnica, sicché il giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità (v., per tutte, Cass. pen. 5 febbraio 2015 n. 11031).
Si è, inoltre, puntualizzato (v. Cass. pen. 24 giugno 2014 n. 8351) che la contravvenzione di cui all’art. 659, comma 1, c.p. è reato “solo eventualmente permanente”, che si può consumare anche con un’unica condotta rumorosa o di schiamazzo recante, in determinate circostanze, un effettivo disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone, in quanto non è necessaria la prova che il rumore abbia concretamente molestato una platea più diffusa di persone, essendo sufficiente l’idoneità del fatto a disturbare un numero indeterminato di individui.
Rimane fermo che i rumori, gli schiamazzi e gli strepiti, per costituire l’elemento materiale della contravvenzione ex art. 659 c.p., devono avere una certa “potenzialità diffusa” per modo che l’evento del disturbo possa essere risentito da un numero indeterminato di persone.
In quest’ordine di concetti - venendo più da vicino alla realtà condominiale - è cronaca di questi giorni la conferma, da parte di Cass. pen. 16 novembre 2016 n. 48315, della sentenza che aveva condannato una condomina al pagamento di euro 100,00 di ammenda, oltre al risarcimento dei danni alle parti civili costituite, per il reato di cui all’art. 659 c.p. correlato all’attività eccessivamente rumorosa messa in atto durante … le pulizie quotidiane dell’appartamento.
La suddetta condomina era insorta contro la decisione del giudice di merito, prospettando, in primo luogo, il vizio di illogicità/contraddittorietà/ mancanza di motivazione sull’affermazione della sua responsabilità penale, argomentando che tale giudice l’aveva ritenuta provata, ponendo a fondamento della statuizione di condanna esclusivamente la denuncia presentata dalle persone offese, e ritenendo integrata la condotta medesima senza valutare il contributo offerto dai testimoni della difesa, ritenuti inconferenti; la motivazione della gravata sentenza sarebbe stata, poi, incompleta/priva di struttura logica, in quanto il giudice a quo si era limitato a fare proprio il racconto delle persone offese, senza argomentare l’attendibilità di costoro.
Inoltre, la ricorrente aveva denunciato la violazione dell’art. 659 c.p., sul rilievo che il giudice di merito aveva omesso di valutare se i rumori emessi dalla condomina fossero tali da disturbare la quiete pubblica, limitandosi a ritenere che le urla della signora avevano arrecato disturbo unicamente ai vicini denuncianti; motivazione, quest’ultima, in contrasto con gli arresti della giurisprudenza i quali richiedevano che, per configurare il reato di disturbo al riposo e alla quiete delle persone, era necessario che le emissioni sonore moleste fossero idonee ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone, in presenza di un luogo abitato.
Infine, si era lamentata la mancata applicazione della causa speciale di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., giustificata perché, nella specie, dovevano ravvisarsi elementi per escludere la particolare tenuità del fatto, attesa anche la non abitualità del comportamento e lo stato di incensuratezza dell’imputata.
I giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto tali doglianze non meritevoli di accoglimento, esplicitando concetti esportabili in altre situazioni endo-condominiali.
Innanzitutto, è stata considerata manifestatamente infondata la prima censura, con cui la ricorrente aveva dedotto l’illogicità della motivazione in ordine all’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all’art. 659 c.p.
Invero, la sentenza impugnata poggiava su una motivazione tutt’altro che illogica e/o carente, avendo il giudice del merito fondato il proprio convincimento sul contenuto delle querele delle parti civili, oltre che dall’annotazione di servizio della polizia giudiziaria - acquisite su accordo delle parti ex art. 493 c.p.p. e, dunque, utilizzabili quali prove - di cui aveva dato ampio rilievo. Quanto al contenuto, da questi elementi probatori emergeva che la condomina era solita iniziare le faccende domestiche in prima mattina, “mettendo la radio a volume altissimo e urlando con la figlia”, e, con i suoi inurbani comportamenti, impediva il riposo delle persone in zona altamente popolata, rendendo oltremodo difficile così ai vicini di svolgere qualsiasi attività della vita quotidiana.
Il giudice aveva, altresì, rilevato che la pacifica ed ammessa circostanza che non vi fossero rapporti di buon vicinato tra la suddetta condomina ed i denuncianti, con i quali vi erano liti, scambi di insulti - vicini che, a dire della ricorrente, tentavano in tutti i modi “di farle cambiare casa” - non influiva sulla veridicità del racconto, che non era scalfito dalle deposizioni dei testi della difesa che l’avevano descritta come una persona “calma”; in proposito, si era messo in evidenza, al fine di confutare l’affermazione dei testi della difesa, secondo cui la condomina “non dava fastidio a nessuno”, i precedenti per fatti analoghi. Parimenti manifestamente infondata risultava anche la seconda censura, con cui la ricorrente criticava la sentenza in ordine alla prova del reato di cui all’art. 659 c.p.
Al riguardo, si è ricordato che in tale norma, e precisamente nell’ipotesi prevista dal comma 1 - contestata alla ricorrente - occorre l’accertamento in concreto del disturbo del riposo della quiete di un numero indeterminato di persone, nella specie sussistente perché la condomina, appunto iniziando le faccende domestiche sin dalle sei del mattino, accompagnate da condotte inurbane (accensione della radio ad alto volume e litigi con la figlia) in zona altamente popolata, aveva impedito lo svolgimento delle normali occupazioni da parte dei vicini.
Alla stessa sorte non si sottraeva anche l’ultimo motivo di ricorso, con il quale si era censurata la sentenza per non aver applicato la speciale causa della “particolare tenuità del fatto” ex art. 131-bis c.p., a fronte di una pena esigua di euro 100 di ammenda a cui era stata condannata la ricorrente. Invero, tale speciale causa di non punibilità é applicabile, ai sensi del comma 1, ai soli reati per i quali sia prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, oppure la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta. La rispondenza ai limiti di pena rappresenta, però, solo la prima delle condizioni per l’esclusione della punibilità, poiché la norma richiede, congiuntamente e non alternativamente - come si desume dal tenore letterale dell’articolo - la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento.
Nello specifico, il primo requisito - particolare tenuità dell’offesa - si articola, a sua volta, in due “indici-requisiti”, che sono, da un lato, la modalità della condotta e, dall’altro, l’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p. (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità dell’azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, intensità del dolo o grado della colpa); pertanto, spetta al giudice rilevare se, sulla base dei due suddetti “indici-requisiti”, valutati secondo i criteri direttivi di cui all’art. 133, comma 1, c.p., sussista la particolare tenuità dell’offesa e, poi, che con questo indice, coesista quello della non abitualità del comportamento, in quanto solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità.
Riguardo alla non abitualità, il comma 3 definisce il comportamento abituale nell’ipotesi in cui l’autore del reato sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, oppure abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché qualora trattasi di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Tanto premesso, gli ermellini hanno osservato che, nel caso in esame, trattandosi del reato di cui all’art. 659 c.p., non risultavano superati i limiti di pena, ma, quanto alla verifica degli ulteriori requisiti, la sentenza impugnata ha evidenziato elementi ostativi ad un giudizio di astratta applicabilità dell’art. 131-bis c.p. individuati nella reiterazione della condotta e, in definitiva, nella sua abitualità (“continui, reiterati e inurbani comportamenti ...”), difettando, dunque, il requisito della non abitualità del comportamento. Ed a proposito di quest’ultima condizione, si è rammentato che il concetto di non abitualità del comportamento, che consente l’applicazione della causa di non punibilità, trova specifico aggancio nella relazione illustrativa del d.lgs. n. 28/2015; atteso che il ricorso all’espressione “non abitualità del comportamento” è il risultato della scrupolosa osservanza della legge-delega da parte del legislatore delegato e si pone su un piano diverso rispetto alla “occasionalità” utilizzata dal d.p.r. n. 448/1988 e dal d.lgs. n. 274/2000, si è poi evidenziato che tale comma, aggiunto su sollecitazione espressa nel parere della Commissione giustizia della Camera, descriverebbe solo alcune ipotesi in cui il comportamento non può essere considerato non abituale, ampliando quindi il concetto di “abitualità”, entro cui potranno collocarsi altre condotte ostative alla declaratoria di non punibilità. Ciò posto, con riguardo al caso in scrutinio, il massimo consesso decidente ha sottolineato che la non abitualità del comportamento della condomina è stata implicitamente esclusa, dal giudice del merito, proprio in ragione della accertata condotta “continuata e reiterata”.
I contorni della fattispecie penale di cui all’art. 659 c.p. nell’àmbito condominiale sono stati perimetrati anche in altre pronunce del Supremo Collegio.
Nel caso concreto deciso da Cass. pen. 13 novembre 2013 n. 45616, era stata impugnata una sentenza che aveva dichiarato un condomino colpevole di tale reato, per avere tollerato che, nel suo locale, venissero prodotti rumori, attraverso l’impianto di amplificazione della musica installato nel cortile esterno, che superavano il normale limite di tollerabilità all’interno dell’abitazione di un altro condomino, anche a finestre chiuse del suo appartamento, con evidenti disagi alla vita quotidiana.
Avverso tale decisione, aveva proposto ricorso il proprietario del locale, sostenendo che il reato de quo non sussisteva, poiché le emissioni sonore non erano superiori alla normale tollerabilità, in quanto non erano state percepite da un numero indeterminato di persone, posto che solo il denunciante se ne era lamentato, laddove, invece, i rumori avrebbero dovuto recare disturbo ad una parte notevole degli occupanti del medesimo edificio, oppure a quelli degli stabili prossimi, per potersi ritenere disturbata o compromessa la quiete pubblica.
Il ricorso è stato considerato fondato e, quindi, accolto dai magistrati del Palazzaccio.
In proposito, si è evidenziato che la condotta illecita dell’imputato era stata circoscritta ad un determinato giorno, in cui il solo condomino denunciante aveva avuto motivo di doglianza, tanto da aver richiesto l’intervento dei carabinieri alle ore 23.30, che avevano accertato la diffusione di musica ad alto volume, che era stata interrotta dopo il loro arrivo.
Stando così le cose, si è ricordato che, per poter configurare la contravvenzione di cui all’art. 659 c.p. - secondo l’ormai costante indirizzo giurisprudenziale (v. Cass. pen. 20 maggio 1994 n. 7753; Cass. pen. 29 novembre 2011 n. 47298; Cass. pen. 5 febbraio 2013 n. 6546) - è necessario che i rumori prodotti, oltre ad essere superiori alla normale tollerabilità, abbiano “attitudine a propagarsi in modo tale da essere idonei a disturbare una pluralità indeterminata di persone”; tale modus opinandi si impone considerando la natura del bene giuridico protetto, che è da individuare nella quiete pubblica e non nella tranquillità di singoli soggetti che abbiano a denunciare la rumorosità.
Ne consegue che, se l’attività di disturbo ha luogo in un edificio condominiale - come nel caso in esame - per ravvisare la responsabilità penale del soggetto agente non è sufficiente che i rumori arrechino disturbo o siano idonei a turbare la quiete e le occupazioni dei soli abitanti gli appartamenti inferiori o superiori rispetto alla fonte di propagazione, ma occorre una situazione fattuale di rumori atti a recare disturbo ad una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio, poiché solo in questo caso può ritenersi integrata la compromissione della quiete pubblica.
Del resto, qualora i rumori assumano una portata più circoscritta - come nel caso di specie in cui un solo vicino si era lamentato del disturbo - le ragioni della persona o delle persone disturbata potevano essere fatte valere in sede civile, azionando i diritti derivanti dai rapporti di vicinato. Tali principi erano stati affermati anche da Cass. pen. 5 febbraio 1998 n. 1406, ad avviso della quale, in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, i rumori e gli schiamazzi vietati, per essere penalmente sanzionabile la condotta che li produce, debbono incidere sulla tranquillità pubblica - essendo l’interesse specificamente tutelato dal legislatore quello della pubblica tranquillità sotto l’aspetto della pubblica quiete, la quale implica, di per sè, l’assenza di cause di disturbo per la generalità dei consociati - di guisa che gli stessi devono avere tale “potenzialità diffusa”, nel senso che l’evento di disturbo abbia la potenzialità di essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se, poi, in concreto soltanto alcune persone se ne possano lamentare.
Ne consegue che la contravvenzione in esame non sussiste allorquando i rumori arrechino disturbo ai soli occupanti di un appartamento, all’interno del quale sono percepiti, e non ad altri soggetti abitanti nel condominio in cui è inserita detta abitazione o nelle zone circostanti: infatti, in tale ipotesi non si produce “il disturbo, effettivo o potenziale, della tranquillità di un numero indeterminato di soggetti”, ma soltanto di quella di definite persone, sicché un fatto del genere può costituire, se del caso, illecito civile, come tale fonte di risarcimento di danno, ma giammai assurgere a violazione penalmente sanzionabile.
Al contempo, però, si è statuito che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 659 c.p., la potenzialità lesiva dei rumori non deve incidere su di un numero rilevante di persone, ma è sufficiente che arrechi “disturbo alla generalità di coloro che sono o si trovano a diretto contatto con il luogo ove i rumori si verificano”, come gli occupanti di tutto un condominio o di parte notevole dello stesso (v. Cass. pen. 23 settembre 1986 n. 9726).
In quest’ottica, si è ritenuta integrata la contravvenzione di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone nell’organizzazione di feste e cerimonie all’interno dello scantinato di un edificio condominiale che si protraevano per ore con schiamazzi, rumori e abuso di strumenti sonori, idonei a diffondersi all’interno ed all’esterno dello stabile con pregiudizio della tranquillità di un numero indeterminato di persone (v. Cass. pen. 17 maggio 2010 n. 18517: nella specie, il frastuono determinato dalle feste, che avevano frequenza bisettimanale, era tale da far vibrare le strutture murarie del fabbricato e da impedire di tenere conversazioni normali o di ascoltare la televisione negli altri appartamenti di esso).
Non sempre il soggetto che subisce le immissioni rumorose moleste mantiene, però, la calma.
In un caso concreto, deciso da Cass. pen. 14 maggio 2002 n. 27625, si è (per fortuna) esclusa la sussistenza del reato nella condotta di un imputato, al quale era stato contestato di aver reiteratamente recato disturbo al gestore ed ai frequentatori di un bar, mediante una “serie ripetute di forti colpi sul pavimento della propria abitazione”, sovrastante il predetto esercizio pubblico, nelle ore di massima frequentazione dello stesso. Invero, perché sussista la contravvenzione di cui all’art. 659, comma 1, c.p., occorre la prova della “diffusività” del rumore, da valutarsi con riferimento all’àmbito spaziale di propagazione delle emissioni sonore, prescindendo dal novero delle persone occasionalmente o potenzialmente presenti nel luogo interessato dalle emissioni stesse; pertanto, ove detto luogo risulti circoscritto ad una singola unità di un complesso condominiale, senza attitudine ad ulteriore propagazione verso altre unità abitative dello stesso condominio o verso ambiti ad esso esterni, deve ritenersi irrilevante il numero dei soggetti contingentemente convenuti in detto luogo e disturbati dalla condotta del soggetto agente.

di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione
Continua a leggere...

martedì 16 maggio 2017

RINVIARE UN’ASSEMBLEA NON MODIFICA LE FORMALITA’ DI CONVOCAZIONE - TRIBUNALE DI MILANO 27 MARZO 2017, N. 3517

Secondo Il tribunale di Milano, il rinvio dell’assemblea già regolarmente convocata deve seguire le medesime forme della convocazione (art. 66 disp. att. c.c.) in mancanza si deve concludere per l’invalidità della delibera impugnata.
L'affissione in bacheca del rinvio non comporta il rispetto della normativa citata la quale prevede che l'avviso sia effettivamente giunto a tutti i condomini almeno 5 giorni prima.
Incombe sull'amministratore l'onere della prova di tale circostanza.

Continua a leggere...

TRIBUNALE DI MILANO 27 MARZO 2017, N. 3517 - in tema di convocazione assemblea



TRIBUNALE DI MILANO 27 MARZO 2017, N. 3517

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI MILANO
TREDICESIMA SEZIONE CIVILE

                           
Il  Tribunale, nella  persona  del giudice unico Dott. Paola Barbara Folci ha pronunciato la seguente   
                                  
SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al N. 14303/2012 R.G. promossa da:
                                                                  
M.C. con il patrocinio dell'avv.               
D.S.  con il patrocinio dell'avv. L , DI M.R.  con il patrocinio dell'avv.                         
R. D.  con  il patrocinio dell'avv.            
D. C. V.  con il patrocinio dell'avv.             
G.C.  con il patrocinio dell'avv.                 
P.V.  con il patrocinio dell'avv.                
M.V.  con il patrocinio dell'avv.                
M.A.  con il patrocinio dell'avv.                
S.G.  con il patrocinio dell'avv.               
                                                               ATTORI

CONTRO
CONDOMINIO, con il patrocinio dell'avv. C. D. 
                                                            CONVENUTO

CONCLUSIONI: come da fogli allegati al verbale del 20/12/2016        
Per quanto  riguarda domande, eccezioni e richieste conclusive delle parti,  si  rinvia agli atti processuali delle medesime ed ai verbali delle udienze, atteso che la modificazione dell'art. 132 n. 4 c.p.c., ad  opera  della legge 69/2009, esclude una lunga e particolareggiata esposizione  di tutte le vicende processuali anteriori alla decisione della causa.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il presente procedimento concerne l'impugnazione svolta dai condomini D.M. R., A. V. L., R. C. D. De C. V., G. C., P. V., D. S., M. V., M. A., S. G., avverso la delibera condominiale adottata dall'assemblea del Condominio P. in data 27/01/2012.
Con autonomo ricorso per impugnazione la condomina ed amministratore pro tempore M. C. adiva il Tribunale per ottenere la dichiarazione di nullità/annullabilità della delibera del 27/01/2012.
L'impugnazione è stata contestata dal condominio convenuto che ha chiesto il rigetto delle avverse domande.
Il Tribunale ha disposto la riunione dei giudizi.
Gli attori deducono anzitutto, irregolarità nella convocazione dell'assemblea.
Le doglianze formulate dagli attori identificano vizi attinenti l'annullabilità della delibera condominiale (Cass. S.U. 4806/2005) la cui sussistenza determina l'invalidità della stessa se impugnata nel termine di trenta giorni previsto dall'art. 1137 3° comma c.c. decorrente per i condomini assenti dalla comunicazione del verbale.
Il condominio eccepisce preliminarmente eccezione di tardività delle impugnazioni.
Eccezione destituita di fondamento.
Il condominio non ha provato, come era suo onere avendolo sostenuto in atti, l'avvenuta consegna del verbale assembleare ai singoli condomini il giorno successivo ( 28/1/2012) alla data della delibera (27/1/2012) attraverso la consegna a mano al portiere dello stabile.
Dalla documentazione ( doc. 2 resistente) risulta, infatti, che gli attori abbiano ritirato successivamente al 28/1/2012 copia del verbale assembleare, firmando l'apposito registro dal portiere e in particolare:
A. l'11/2/2012, M. il 4/2/2012, D. C. e G. il 6/2/2012, M. il 4/2/2012,
D. il 6/2/2012, D. M. il 3/2/2012, R. il 3/2/2012, S. il 3/2/2012, M. il 31/1/2012, P. il 6/2/2012.
I ricorsi sono stati depositati il 29/2/2012, pertanto, nei termini.
L'eccezione di tardività dell'impugnazione è infondata.
Entrando nel merito:
L'assemblea tenutasi in seconda convocazione il 27/1/2012 deve essere annullata.
Con comunicazione affissa nella bacheca del condominio, l'amministratrice M. comunicava ai condomini rinvio a data da destinarsi (..?e non oltre il 20/3/2012?..), della assemblea già fissata per il 27/1/2012 ( doc. 4 attoreo).
Alcuni condomini costituivano, comunque, per la data del 27/1/2012, l'assemblea nonostante il preannunciato rinvio e, nell'occasione, assumevano la delibera impugnata in questa sede.
Nonostante il rinvio dell'assemblea già regolarmente convocata debba seguire le medesime forme della convocazione (art. 66 disp. Att.c.c.) e nonostante, nella fattispecie, ciò non sia avvenuto; ritenuto che la ratio dell'art. 1136 comma 6 c.c., sia nel senso dell'invalidità di ogni delibera alla quale il condominio non sia stato messo nelle condizioni di partecipare, si deve necessariamente concludere per l'invalidità della delibera impugnata.
Ciò in quanto, con ogni evidenza, l'assenza dei condomini attori non può che considerarsi pienamente giustificata in ragione del rinvio comunicato, benchè informalmente all'intera compagine condominiale.
Pertanto, per quanto sopra esposto, va dichiarata l'invalidità e annullata la delibera adottata dall'assemblea del 27/01/2012 nella sua interezza.
Tale conclusione assorbe gli ulteriori profili di censura avanzati dalle parti.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo tenuto anche conto della mancata partecipazione dalla mediazione senza giustificato motivo da parte del condominio convenuto.

P.Q.M.

Il Tribunale di Milano, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando:
1) accoglie il ricorso e, per l'effetto, annulla la delibera del 27/1/2012.
2) condanna il Condominio convenuto a rifondere agli attori le spese di giudizio, liquidate in E 680,00 per spese ed E 5.750,00 per compensi, oltre accessori di legge.
3) sentenza esecutiva.
Milano, 23/03/2017
Depositata in cancelleria il 27/03/2017.
Continua a leggere...
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...