Tra i banchi dell’università, nell’àmbito delle prime lezioni di diritto penale, si insegnava che l’autore, o soggetto attivo del reato, è colui che realizza il fatto tipico: in quest’ottica, la maggior parte dei reati possono essere commessi da chiunque (c.d. reati comuni), mentre altri reati possono essere commessi solo da soggetti che posseggono determinate caratteristiche o solo da soggetti che abbiano una certa qualifica (c.d. reati propri).
Ovviamente scherzando - ma non più di tanto … -
sembra che, nella convivenza “forzata” all’interno
dell’edificio urbano, il condomino rivesta una posizione
specifica per commettere il reato penale
di disturbo della quiete domestica (impregiudicata
l’integrazione dell’ipotesi civilistica dell’immissione
molesta contemplata nell’art. 844 c.c.)
Tale opinione risulterebbe avvalorata dalla seguente
sintetica carrellata di fattispecie analizzate dalla
giurisprudenza di legittimità, che registra la sovente
consumazione di tale contravvenzione nel ristretto
àmbito del microcosmo condominiale (sull’aspetto
“animalesco”, si consenta il rinvio al commento A.
CELESTE, Abbaiar di cani tra inibitorie sul versante
civilistico e configurazioni di fattispecie penali, in
questa Rivista, febbraio 2016, n. 201, p. 11 ss., ed
alle pronunce giudiziarie ivi citate).
La panoramica deve prendere le mosse dal disposto
dell’art. 659 c.p., che disciplina appunto la
contravvenzione di “disturbo delle occupazioni e
del riposo delle persone”, e contempla due distinte
ipotesi: in questa sede rileva quella prevista
nella prima parte del comma 1, laddove si punisce
con l’arresto fino a 3 mesi o con l’ammenda fino
a euro 309,00, “chiunque, mediante schiamazzi o
rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di
segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non
impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni
o il riposo delle persone”.
In termini generali, si è affermato - anche di recente
- per un verso, che la responsabilità per la
fattispecie de qua non implica, attesa la natura
di “reato di pericolo presunto” e non di danno,
la prova dell’effettivo disturbo di più persone,
essendo sufficiente “l’idoneità della condotta a
disturbarne un numero indeterminato di persone”
- v., tra le altre, Cass. pen. 24 gennaio 2012
n. 7748; Cass. pen. 21 ottobre 1996 n. 12984;
Cass. pen. 9 dicembre 1999 n. 1394; Cass. pen.
8 ottobre 2004 n. 40393 - e per altro verso, che ’attitudine dei rumori a disturbare il riposo delle
persone non va necessariamente accertata mediante
consulenza tecnica, sicché il giudice ben
può fondare il proprio convincimento su elementi
probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni
di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche
e gli effetti dei rumori percepiti, sì che
risulti oggettivamente superata la soglia della
normale tollerabilità (v., per tutte, Cass. pen. 5
febbraio 2015 n. 11031).
Si è, inoltre, puntualizzato (v. Cass. pen. 24 giugno
2014 n. 8351) che la contravvenzione di cui
all’art. 659, comma 1, c.p. è reato “solo eventualmente
permanente”, che si può consumare anche
con un’unica condotta rumorosa o di schiamazzo
recante, in determinate circostanze, un effettivo
disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone,
in quanto non è necessaria la prova che il rumore
abbia concretamente molestato una platea
più diffusa di persone, essendo sufficiente l’idoneità
del fatto a disturbare un numero indeterminato
di individui.
Rimane fermo che i rumori, gli schiamazzi e gli
strepiti, per costituire l’elemento materiale della
contravvenzione ex art. 659 c.p., devono avere
una certa “potenzialità diffusa” per modo che l’evento
del disturbo possa essere risentito da un
numero indeterminato di persone.
In quest’ordine di concetti - venendo più da vicino
alla realtà condominiale - è cronaca di questi
giorni la conferma, da parte di Cass. pen. 16 novembre
2016 n. 48315, della sentenza che aveva
condannato una condomina al pagamento di
euro 100,00 di ammenda, oltre al risarcimento dei
danni alle parti civili costituite, per il reato di
cui all’art. 659 c.p. correlato all’attività eccessivamente
rumorosa messa in atto durante … le
pulizie quotidiane dell’appartamento.
La suddetta condomina era insorta contro la decisione
del giudice di merito, prospettando, in primo
luogo, il vizio di illogicità/contraddittorietà/
mancanza di motivazione sull’affermazione della
sua responsabilità penale, argomentando che tale
giudice l’aveva ritenuta provata, ponendo a fondamento
della statuizione di condanna esclusivamente
la denuncia presentata dalle persone offese,
e ritenendo integrata la condotta medesima
senza valutare il contributo offerto dai testimoni
della difesa, ritenuti inconferenti; la motivazione
della gravata sentenza sarebbe stata, poi, incompleta/priva di struttura logica, in quanto il giudice
a quo si era limitato a fare proprio il racconto
delle persone offese, senza argomentare l’attendibilità
di costoro.
Inoltre, la ricorrente aveva denunciato la violazione
dell’art. 659 c.p., sul rilievo che il giudice
di merito aveva omesso di valutare se i rumori
emessi dalla condomina fossero tali da disturbare
la quiete pubblica, limitandosi a ritenere che
le urla della signora avevano arrecato disturbo
unicamente ai vicini denuncianti; motivazione,
quest’ultima, in contrasto con gli arresti della
giurisprudenza i quali richiedevano che, per configurare
il reato di disturbo al riposo e alla quiete
delle persone, era necessario che le emissioni sonore
moleste fossero idonee ad arrecare disturbo
ad un numero indeterminato di persone, in presenza
di un luogo abitato.
Infine, si era lamentata la mancata applicazione
della causa speciale di non punibilità di cui
all’art. 131-bis c.p., giustificata perché, nella
specie, dovevano ravvisarsi elementi per escludere
la particolare tenuità del fatto, attesa anche la
non abitualità del comportamento e lo stato di
incensuratezza dell’imputata.
I giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto tali
doglianze non meritevoli di accoglimento, esplicitando
concetti esportabili in altre situazioni
endo-condominiali.
Innanzitutto, è stata considerata manifestatamente
infondata la prima censura, con cui la
ricorrente aveva dedotto l’illogicità della motivazione
in ordine all’affermazione della responsabilità
penale per il reato di cui all’art. 659 c.p.
Invero, la sentenza impugnata poggiava su una
motivazione tutt’altro che illogica e/o carente,
avendo il giudice del merito fondato il proprio
convincimento sul contenuto delle querele delle
parti civili, oltre che dall’annotazione di servizio
della polizia giudiziaria - acquisite su accordo
delle parti ex art. 493 c.p.p. e, dunque, utilizzabili
quali prove - di cui aveva dato ampio rilievo.
Quanto al contenuto, da questi elementi probatori
emergeva che la condomina era solita iniziare le
faccende domestiche in prima mattina, “mettendo
la radio a volume altissimo e urlando con la figlia”,
e, con i suoi inurbani comportamenti, impediva il
riposo delle persone in zona altamente popolata,
rendendo oltremodo difficile così ai vicini di svolgere
qualsiasi attività della vita quotidiana.
Il giudice aveva, altresì, rilevato che la pacifica
ed ammessa circostanza che non vi fossero rapporti
di buon vicinato tra la suddetta condomina
ed i denuncianti, con i quali vi erano liti, scambi
di insulti - vicini che, a dire della ricorrente, tentavano
in tutti i modi “di farle cambiare casa”
- non influiva sulla veridicità del racconto, che non era scalfito dalle deposizioni dei testi della
difesa che l’avevano descritta come una persona
“calma”; in proposito, si era messo in evidenza,
al fine di confutare l’affermazione dei testi della
difesa, secondo cui la condomina “non dava fastidio
a nessuno”, i precedenti per fatti analoghi.
Parimenti manifestamente infondata risultava
anche la seconda censura, con cui la ricorrente
criticava la sentenza in ordine alla prova del reato
di cui all’art. 659 c.p.
Al riguardo, si è ricordato che in tale norma, e
precisamente nell’ipotesi prevista dal comma 1 -
contestata alla ricorrente - occorre l’accertamento
in concreto del disturbo del riposo della quiete
di un numero indeterminato di persone, nella
specie sussistente perché la condomina, appunto
iniziando le faccende domestiche sin dalle sei
del mattino, accompagnate da condotte inurbane
(accensione della radio ad alto volume e litigi con
la figlia) in zona altamente popolata, aveva impedito
lo svolgimento delle normali occupazioni da
parte dei vicini.
Alla stessa sorte non si sottraeva anche l’ultimo
motivo di ricorso, con il quale si era censurata la
sentenza per non aver applicato la speciale causa
della “particolare tenuità del fatto” ex art. 131-bis
c.p., a fronte di una pena esigua di euro 100 di
ammenda a cui era stata condannata la ricorrente.
Invero, tale speciale causa di non punibilità é
applicabile, ai sensi del comma 1, ai soli reati
per i quali sia prevista una pena detentiva non
superiore, nel massimo, a cinque anni, oppure la
pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta.
La rispondenza ai limiti di pena rappresenta,
però, solo la prima delle condizioni per l’esclusione
della punibilità, poiché la norma richiede,
congiuntamente e non alternativamente - come si
desume dal tenore letterale dell’articolo - la particolare
tenuità dell’offesa e la non abitualità del
comportamento.
Nello specifico, il primo requisito - particolare tenuità
dell’offesa - si articola, a sua volta, in due
“indici-requisiti”, che sono, da un lato, la modalità
della condotta e, dall’altro, l’esiguità del
danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei
criteri indicati dall’art. 133 c.p. (natura, specie,
mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità
dell’azione, gravità del danno o del pericolo
cagionato alla persona offesa dal reato, intensità
del dolo o grado della colpa); pertanto, spetta al
giudice rilevare se, sulla base dei due suddetti
“indici-requisiti”, valutati secondo i criteri direttivi
di cui all’art. 133, comma 1, c.p., sussista la
particolare tenuità dell’offesa e, poi, che con questo
indice, coesista quello della non abitualità del
comportamento, in quanto solo in questo caso si
potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità.
Riguardo alla non abitualità, il comma 3 definisce
il comportamento abituale nell’ipotesi in cui
l’autore del reato sia stato dichiarato delinquente
abituale, professionale o per tendenza, oppure
abbia commesso più reati della stessa indole, anche
se ciascun fatto, isolatamente considerato,
sia di particolare tenuità, nonché qualora trattasi
di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime,
abituali e reiterate.
Tanto premesso, gli ermellini hanno osservato
che, nel caso in esame, trattandosi del reato di
cui all’art. 659 c.p., non risultavano superati i
limiti di pena, ma, quanto alla verifica degli ulteriori
requisiti, la sentenza impugnata ha evidenziato
elementi ostativi ad un giudizio di astratta
applicabilità dell’art. 131-bis c.p. individuati
nella reiterazione della condotta e, in definitiva,
nella sua abitualità (“continui, reiterati e inurbani
comportamenti ...”), difettando, dunque, il
requisito della non abitualità del comportamento.
Ed a proposito di quest’ultima condizione, si è
rammentato che il concetto di non abitualità del
comportamento, che consente l’applicazione della
causa di non punibilità, trova specifico aggancio
nella relazione illustrativa del d.lgs. n. 28/2015;
atteso che il ricorso all’espressione “non abitualità
del comportamento” è il risultato della scrupolosa
osservanza della legge-delega da parte del
legislatore delegato e si pone su un piano diverso
rispetto alla “occasionalità” utilizzata dal d.p.r. n.
448/1988 e dal d.lgs. n. 274/2000, si è poi evidenziato
che tale comma, aggiunto su sollecitazione
espressa nel parere della Commissione giustizia
della Camera, descriverebbe solo alcune ipotesi in
cui il comportamento non può essere considerato
non abituale, ampliando quindi il concetto di “abitualità”,
entro cui potranno collocarsi altre condotte
ostative alla declaratoria di non punibilità.
Ciò posto, con riguardo al caso in scrutinio, il
massimo consesso decidente ha sottolineato che
la non abitualità del comportamento della condomina
è stata implicitamente esclusa, dal giudice
del merito, proprio in ragione della accertata condotta
“continuata e reiterata”.
I contorni della fattispecie penale di cui all’art. 659
c.p. nell’àmbito condominiale sono stati perimetrati
anche in altre pronunce del Supremo Collegio.
Nel caso concreto deciso da Cass. pen. 13 novembre
2013 n. 45616, era stata impugnata una
sentenza che aveva dichiarato un condomino colpevole
di tale reato, per avere tollerato che, nel
suo locale, venissero prodotti rumori, attraverso
l’impianto di amplificazione della musica installato
nel cortile esterno, che superavano il normale
limite di tollerabilità all’interno dell’abitazione di
un altro condomino, anche a finestre chiuse del suo appartamento, con evidenti disagi alla vita
quotidiana.
Avverso tale decisione, aveva proposto ricorso il
proprietario del locale, sostenendo che il reato de
quo non sussisteva, poiché le emissioni sonore non
erano superiori alla normale tollerabilità, in quanto
non erano state percepite da un numero indeterminato
di persone, posto che solo il denunciante se
ne era lamentato, laddove, invece, i rumori avrebbero
dovuto recare disturbo ad una parte notevole
degli occupanti del medesimo edificio, oppure
a quelli degli stabili prossimi, per potersi ritenere
disturbata o compromessa la quiete pubblica.
Il ricorso è stato considerato fondato e, quindi,
accolto dai magistrati del Palazzaccio.
In proposito, si è evidenziato che la condotta illecita
dell’imputato era stata circoscritta ad un
determinato giorno, in cui il solo condomino denunciante
aveva avuto motivo di doglianza, tanto
da aver richiesto l’intervento dei carabinieri alle
ore 23.30, che avevano accertato la diffusione di
musica ad alto volume, che era stata interrotta
dopo il loro arrivo.
Stando così le cose, si è ricordato che, per poter
configurare la contravvenzione di cui all’art. 659
c.p. - secondo l’ormai costante indirizzo giurisprudenziale
(v. Cass. pen. 20 maggio 1994 n. 7753;
Cass. pen. 29 novembre 2011 n. 47298; Cass. pen.
5 febbraio 2013 n. 6546) - è necessario che i rumori
prodotti, oltre ad essere superiori alla normale
tollerabilità, abbiano “attitudine a propagarsi in
modo tale da essere idonei a disturbare una pluralità
indeterminata di persone”; tale modus opinandi
si impone considerando la natura del bene giuridico
protetto, che è da individuare nella quiete pubblica
e non nella tranquillità di singoli soggetti che
abbiano a denunciare la rumorosità.
Ne consegue che, se l’attività di disturbo ha luogo
in un edificio condominiale - come nel caso
in esame - per ravvisare la responsabilità penale
del soggetto agente non è sufficiente che i rumori
arrechino disturbo o siano idonei a turbare la
quiete e le occupazioni dei soli abitanti gli appartamenti
inferiori o superiori rispetto alla fonte di
propagazione, ma occorre una situazione fattuale
di rumori atti a recare disturbo ad una più consistente
parte degli occupanti il medesimo edificio,
poiché solo in questo caso può ritenersi integrata
la compromissione della quiete pubblica.
Del resto, qualora i rumori assumano una portata
più circoscritta - come nel caso di specie in cui
un solo vicino si era lamentato del disturbo - le
ragioni della persona o delle persone disturbata
potevano essere fatte valere in sede civile, azionando
i diritti derivanti dai rapporti di vicinato.
Tali principi erano stati affermati anche da Cass.
pen. 5 febbraio 1998 n. 1406, ad avviso della quale, in tema di disturbo delle occupazioni e
del riposo delle persone, i rumori e gli schiamazzi
vietati, per essere penalmente sanzionabile la
condotta che li produce, debbono incidere sulla
tranquillità pubblica - essendo l’interesse specificamente
tutelato dal legislatore quello della
pubblica tranquillità sotto l’aspetto della pubblica
quiete, la quale implica, di per sè, l’assenza
di cause di disturbo per la generalità dei consociati
- di guisa che gli stessi devono avere tale
“potenzialità diffusa”, nel senso che l’evento di
disturbo abbia la potenzialità di essere risentito
da un numero indeterminato di persone, pur se,
poi, in concreto soltanto alcune persone se ne
possano lamentare.
Ne consegue che la contravvenzione in esame non
sussiste allorquando i rumori arrechino disturbo
ai soli occupanti di un appartamento, all’interno
del quale sono percepiti, e non ad altri soggetti
abitanti nel condominio in cui è inserita detta
abitazione o nelle zone circostanti: infatti, in tale
ipotesi non si produce “il disturbo, effettivo o
potenziale, della tranquillità di un numero indeterminato
di soggetti”, ma soltanto di quella di
definite persone, sicché un fatto del genere può
costituire, se del caso, illecito civile, come tale
fonte di risarcimento di danno, ma giammai assurgere
a violazione penalmente sanzionabile.
Al contempo, però, si è statuito che, ai fini della
configurabilità del reato di cui all’art. 659 c.p., la
potenzialità lesiva dei rumori non deve incidere su
di un numero rilevante di persone, ma è sufficiente
che arrechi “disturbo alla generalità di coloro che
sono o si trovano a diretto contatto con il luogo
ove i rumori si verificano”, come gli occupanti di
tutto un condominio o di parte notevole dello stesso
(v. Cass. pen. 23 settembre 1986 n. 9726).
In quest’ottica, si è ritenuta integrata la contravvenzione
di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone nell’organizzazione di feste
e cerimonie all’interno dello scantinato di un edificio
condominiale che si protraevano per ore con
schiamazzi, rumori e abuso di strumenti sonori,
idonei a diffondersi all’interno ed all’esterno dello
stabile con pregiudizio della tranquillità di un numero
indeterminato di persone (v. Cass. pen. 17
maggio 2010 n. 18517: nella specie, il frastuono
determinato dalle feste, che avevano frequenza
bisettimanale, era tale da far vibrare le strutture
murarie del fabbricato e da impedire di tenere
conversazioni normali o di ascoltare la televisione
negli altri appartamenti di esso).
Non sempre il soggetto che subisce le immissioni
rumorose moleste mantiene, però, la calma.
In un caso concreto, deciso da Cass. pen. 14 maggio
2002 n. 27625, si è (per fortuna) esclusa la
sussistenza del reato nella condotta di un imputato,
al quale era stato contestato di aver reiteratamente
recato disturbo al gestore ed ai frequentatori
di un bar, mediante una “serie ripetute di
forti colpi sul pavimento della propria abitazione”,
sovrastante il predetto esercizio pubblico,
nelle ore di massima frequentazione dello stesso.
Invero, perché sussista la contravvenzione di cui
all’art. 659, comma 1, c.p., occorre la prova della
“diffusività” del rumore, da valutarsi con riferimento
all’àmbito spaziale di propagazione delle
emissioni sonore, prescindendo dal novero delle
persone occasionalmente o potenzialmente presenti
nel luogo interessato dalle emissioni stesse;
pertanto, ove detto luogo risulti circoscritto ad
una singola unità di un complesso condominiale,
senza attitudine ad ulteriore propagazione verso
altre unità abitative dello stesso condominio o
verso ambiti ad esso esterni, deve ritenersi irrilevante
il numero dei soggetti contingentemente
convenuti in detto luogo e disturbati dalla condotta
del soggetto agente.
di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione