martedì 29 novembre 2016

GRAVI IRREGOLARITA' FISCALI: reato penale per l'Amministratore

Il Decreto Legislativo N.158/2015 del 24/09/2015, in vigore dal 22/10/2015, che ha riformato il Regime delle Sanzioni Tributarie, ha introdotto all’Art. 10-bis il Reato Penale in caso di omesso versamento delle ritenute indicate nella dichiarazione modello 770. L’articolo 10- bis, infatti, è stato così modificato:
"E’ punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo di imposta".
Dal 22 ottobre 2015, pertanto, l’Amministratore incorrerà in un reato di natura penale, in caso di omesso versamento di ritenute superiori ad € 150.000,00, nel caso in cui tali ritenute siano indicate nel modello 770, mentre prima di tale data il reato penale scattava solo nel caso in cui le stesse risultassero da certificazione rilasciata ai sostituiti.
A fornire questa precisazione è la terza sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n.48302 depositata in data 16 novembre 2016.
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L’assemblea del supercondominio può revocare l’amministratore?

Il Tribunale di Milano dichiara nulla per difetto di competenza assembleare la deliberazione dei rappresentanti di un supercondominio che aveva revocato l’amministratore. La soluzione però contrasta col generale principio di simmetria tra potere di nomina e facoltà di revoca.

  1. Il Tribunale di Milano, con sentenza del 30 agosto 2016, ha dichiarato la nullità della deliberazione resa dall’assemblea dei rappresentanti di un “supercondominio” volta alla revoca dell’amministratore di quest’ultimo, affermando che la revoca dell’amministratore non rientra tra le attribuzioni previste dall’art. 67, comma 3, disp. att., codice civile (il quale si riferisce espressamente alla “gestione ordinaria della parti comuni a più condominii” ed alla “nomina dell’amministratore”). Del pari, decide il Tribunale di Milano, l’assemblea dei rappresentanti del supercondominio non può procedere alla nomina del revisore dei conti ex art. 1!30 bis codice civile. Il Tribunale di Milano arriva alla sua conclusione argomentando: dalla natura eccezionale dell’art. 67 disp. att. c.c.; dalla qualificazione della delibera di revoca dell’amministratore come atto di straordinaria amministrazione, per il quale non sussistono ragioni di derogare alla partecipazione unanime di tutti i partecipanti; dall’irrilevanza del dato normativo contenuto nel comma 4 dell’art. 1136 c.c., che parifica le deliberazioni che concernono la nomina e la revoca dell’amministratore ai fini del quorum necessario per l’approvazione; dall’irrilevanza del dato normativo contenuto nell’art. 1129, comma 10, c.c., secondo cui l’assemblea convocata per la revoca dell’amministratore delibera pure in ordine alla nomina del nuovo amministratore; dall’irrilevanza della considerazione che la nomina di un nuovo amministratore non richieda la previa formale revoca dell’amministratore.
  2. Il dato normativo che regola la questione è contenuto nell’ art. 67, comma 3, disp. att. c.c., introdotto dalla legge n. 220/2012, che dispone: “Nei casi di cui all’articolo 1117-bis del codice, quando i partecipanti sono complessivamente più di sessanta, ciascun condominio deve designare, con la maggioranza di cui all’articolo 1136, quinto comma, del codice, il proprio rappresentante all’assemblea per la gestione ordinaria delle parti comuni a più condominii e per la nomina dell’amministratore. In mancanza, ciascun partecipante può chiedere che l’autorità giudiziaria nomini il rappresentante del proprio condominio. Qualora alcuni dei condominii interessati non abbiano nominato il proprio rappresentante, l’autorità giudiziaria provvede alla nomina su ricorso anche di uno solo dei rappresentanti già nominati, previa diffida a provvedervi entro un congruo termine. La diffida ed il ricorso all’autorità giudiziaria sono notificati al condominio cui si riferiscono in persona dell’amministratore o, in mancanza, a tutti i condomini”. La premessa dell’eccezionalità di questa norma, da cui parte il Tribunale di Milano, è senza dubbio corretta.
L’art. 1117-bis c.c. definisce il cosiddetto “supercondominio” con riferimento all’ipotesi in cui più unità immobiliari o più edifici o più condomini abbiano parti comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c. (si pensi al viale d’ingresso, all’impianto centrale per il riscaldamento, al parcheggio, ai locali per la portineria o per l’alloggio del portiere, ecc.). Il principio generale elaborato dalla giurisprudenza, prima del sopravvenire dell’art. art. 67, comma 3, disp. att. c.c. voluto dalla Riforma del 2012, affermava che le disposizioni dettate dall’art. 1136 c.c. in tema di convocazione, costituzione, formazione e calcolo delle maggioranze dovessero identicamente applicarsi pure con riguardo agli elementi reale e personale del supercondominio, rispettivamente configurati da tutte le unità abitative comprese nel complesso e da tutti i proprietari (Cass. 8 agosto 1996, n. 7286) Essendo le norme concernenti la composizione ed il funzionamento dell’assemblea inderogabili pure dall’autonomia privata (artt. 1136 e 1138, comma 4, c.c.), neppure un regolamento, per così dire, “contrattuale” avrebbe potuto validamente stabilire che l’assemblea di un “supercondominio” fosse composta dagli amministratori dei singoli condomini, anziché da tutti i comproprietari degli edifici che lo compongono, non potendosi di stabilire limiti alle norme che tutelano le minoranze negli organi collegiali, né fare in modo che la volontà maggioritaria, in tal modo espressa, non corrisponda a quella dei condomini (Cass. 28 settembre 1994, n. 7894; Cass. 13 giugno 1997, n. 5333; Cass. 6 dicembre 2001, n. 15476).
Poiché il nuovo comma 3 dell’art. 67 disp. att. c.c. ha posto due deroghe alle regole sulla composizione e sul funzionamento dell’assemblea dei partecipanti ad un supercondominio, disponendo che, se questi sono complessivamente più di sessanta, siano ora i rappresentanti obbligatoriamente designati da ciascun condominio a prendere le decisioni sulla gestione ordinaria delle parti comuni e sulla nomina dell’amministratore, e trattandosi di deroghe che comprimono le facoltà ed i poteri inerenti alla partecipazione dei singoli all’organo collegiale, le stesse non potranno che essere considerate quali norme di diritto singolare, e perciò oggetto soltanto di stretta interpretazione. Non può tuttavia condividersi la soluzione raggiunta dal Tribunale di Milano giacchè, se l’assemblea dei rappresentanti dei condomìni del supercondominio ha, ex lege, il potere di nominare l’amministratore di quest’ultimo, essa non può non avere anche il potere di revocarlo. Se si fa divieto all’assemblea dei rappresentanti del supercondominio di revocare l’amministratore in carica, si espropria la stessa dell’attribuzione, ad essa legislativamente ormai spettante, di nomina del nuovo amministratore. Sicchè appare coerente, oltre che imposto dal carattere fiduciario del rapporto che si instaura tra assemblea nominante ed amministratore nominato, riservare all’organo collegiale tanto la competenza alla designazione, quanto, in forza del principio del “contrarius actus”, ovvero del principio di normale simmetria tra potere di nomina e potere di revoca, la competenza alla revoca del mandatario dapprima incaricato.
La Corte di Cassazione ha avuto occasione ancora di recente di affermare che la nomina di un nuovo amministratore del condominio non richiede neppure la previa formale revoca dell’amministratore in carica, atteso che, dando luogo l’investitura ad un rapporto di mandato, essa comporta automaticamente, ai sensi dell’art. 1724 c.c., la revoca di quello precedente (Cass. 18 aprile 2014, n. 9082; Cass. 9 giugno 1994, n. 5608). L’assemblea del supercondominio dovrà, pertanto, potersi convocare per la revoca dell’amministratore in carica e per deliberare in ordine alla nomina del nuovo amministratore. Se le si volesse impedire di procedere alla revoca, non le si potrebbe certamente impedire di procedere alla nuova investitura, ed appare formalistico, oltre che illogico, definire invalida la deliberazione assembleare che esplicitamente revochi il precedente amministratore ed invece valida quella che, limitandosi accortamente a nominare il suo successore, comporti soltanto per implicito il medesimo effetto estintivo del vecchio mandato.

di Antonio Scarpa
Consigliere della Corte di Cassazione
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IMMOBILE IN LEASING: per illeciti commessi dall'utilizzatore il condominio può agire nei confronti del concedente?

In caso di utilizzo dell'immobile in leasing il condominio può chiamare in giudizio anche il concedente per gli illeciti commessi dall'utilizzatore.

Tribunale di Roma, Sent. 2 agosto 2016 n.15542

Il Tribunale di Roma applica anche al leasing un criterio già pacifico in materia di locazione: per gli illeciti commessi dal conduttore nell'utilizzo delle parti comuni può essere convenuto in giudizio non solo il conduttore stesso ma anche il locatore dell'immoblle, che è tenuto a vigilare sulla sua condotta e sul rispetto delle norme del regolamento.
Come è noto il leasing, oggi disciplinato da più atti normativi, costituisce un contratto atipico riconducibile in sostanza alla locazione.
Il leasing consente all'utilizzatore di utilizzare il bene oggetto di leasing, che resta in proprietà del concedente.
Nella realtà condominiale il concedente riveste la qualità di condomino mentre l'utilizzatore ha in sostanza i diritti e gli obblighi del conduttore.
E' dunque applicabile anche al godimento in leasing il principio della legittimazione passiva concorrente fra concedente (proprietario) e utilizzatore (assimilabile al conduttore) per gli illeciti che quest'ultimo compia in violazione delle regole condominiali, con la conseguenza che anche il concedente risponde al condominio per gli illeciti dell'utilizzatore.


di Carlo Patti
consulente legale
ANACI Roma
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La normativa sugli ascensori ed il relativo adeguamento degli ascensori esistenti

Dalla norma UNI EN 81 - 80 contemplata dal Decreto del Ministro dello sviluppo economico n. 108/2009 del 23/7/2009. La sentenza C. Cass. n. 13358/2016.

La cultura della sicurezza nella materia di ascensori non soffre di conflitti di giurisdizione tra il giudice ordinario e quello amministrativo poiché l’attività di omologazione di un impianto di ascensore e di controllo sul suo funzionamento costituisce prestazione di servizio pubblico resa in confronto di un soggetto determinato.

La differenza tra norma tecnica italiana e regola dell’arte europea. Occorre notare che la legge n. 317 del 21/6/1986, attuazione della direttiva n. 83/189/CEE relativa alla procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni, definisce (art. 1):
  • norma una specifica tecnica approvata da un organismo riconosciuto ed abilitato ad emanare atti di normalizzazione, la cui osservanza non sia obbligatoria ed appartenente ad una delle categorie: norme internazionali, norme europee, norme nazionali;
  • regola tecnica: una delle specifiche tecniche o uno degli altri requisiti la cui osservanza è obbligatoria per la commercializzazione o l’utilizzazione di un prodotto sul territorio nazionale e le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri intese a vietare la fabbricazione, la commercializzazione o l’utilizzazione di un prodotto.
Occorre notare che una norma tecnica in materia di ascensori è la norma UNI – EN 81 – 80 (contenente le regole di sicurezza per la costruzione e l’installazione di ascensori limitatamente agli ascensori preesistenti e le regole per il miglioramento della sicurezza degli ascensori per passeggeri e degli ascensori per passeggeri e merci preesistenti ), originante da lavoro triennale del gruppo di lavoro (WG) 10 del CEN/TC10 ed approvata nel settembre 2003, la quale non è una norma armonizzata secondo la direttiva ascensori poiché si occupa degli ascensori esistenti, mentre la direttiva 95/16/CE si occupa di ascensori nuovi.
Altre norme tecniche sono costitute dalla serie EN 81 contenente: la UNI EN 81/1/2199 contemplante n. 74 situazioni di pericolo negli ascensori esistenti, la UNI EN 81 – 1 per gli ascensori elettrici, la UNI EN 81 – 2 per gli ascensori idraulici, la UNI EN 81 –28 contemplante i teleallarmi per passeggeri. Il ricorso alla norma tecnica è determinante per valutare la diligenza nell’adempimento del debitore nelle obbligazioni aventi ad oggetto lo svolgimento di un’attività professionale secondo quanto disposto dall’articolo 1176, secondo comma, del codice civile. Tale constatazione appare evidente laddove si rifletta che il contenuto dell’obbligazione consiste nelle tecniche proprie dell’attività specializzata e, pertanto, il grado di diligenza del debitore, esperto in un’attività professionale, appare più elevato della diligenza del buon padre di famiglia, poiché qui occorre operare il riferimento al risultato specifico che comporta l’obbligazione assunta.
Ne consegue che gli interventi di adeguamento dell’ascensore alla normativa dell’Unione europea, essendo diretti al conseguimento di obiettivi di sicurezza della vita umana e incolumità delle persone, onde proteggere efficacemente gli utenti e i terzi, attengono all’aspetto funzionale dello stesso, ancorché riguardino l’esecuzione di opere nuove, l’aggiunta di nuovi dispositivi, l’introduzione di nuovi elementi strutturali.
La cultura della sicurezza nella materia di ascensori non soffre di conflitti di giurisdizione tra il giudice ordinario e quello amministrativo poiché l’attività di omologazione di un impianto di ascensore e di controllo sul suo funzionamento costituisce prestazione di servizio pubblico resa in confronto di un soggetto determinato, in rapporto al quale è configurabile un rapporto d’utenza. Inoltre tale attività impegna non un potere discrezionale dell’amministrazione, ma solo la sua discrezionalità tecnica, sicché, in relazione ad essa, sorgono nel privato posizioni di diritto soggettivo per cui spetta al giudice ordinario conoscere della domanda di risarcimento del danno proposta dal privato nei confronti della pubblica amministrazione (ISPESL, Ministero della Sanità, Azienda ASL, Comune) a seguito del comportamento asseritamente “contra ius” da questa posto in essere nel procedere all’omologazione di un impianto di ascensore installato a servizio di un immobile condominiale, nell’eseguirne le verifiche periodiche ed, infine, nell’inibirne il funzionamento. A tal riguardo la Suprema Corte afferma i seguenti principi:
  • l’omologazione ed il controllo degli impianti di ascensore costituiscono un servizio pubblico reso dalla pubblica amministrazione nell’ambito del servizio sanitario nazionale (l. n. 1415 del 24/10/1942, art. 6, lettera n, della legge n. 833 del 23/12/978);
  • le domande proposte contro i soggetti privati, inerenti ai comportamenti da essi tenuti, sia per quanto attiene alla progettazione dell’edificio in rapporto all’impianto di ascensore sia per quanto riguarda le successive trasformazioni, attengono tutte a rapporti tra privati né vengono in rilievo quanto a questi profili, per cui la loro attività è equiparata a quella della pubblica amministrazione agli effetti della giurisdizione e quindi ricadono anch’esse nella giurisdizione del giudice ordinario.
In accordo a tali principi il mancato rispetto della norma tecnica da parte del soggetto obbligato all’installazione, vendita, manutenzione degli ascensori e degli impianti ad essi relativi comporterà l’applicazione delle seguenti norme del codice civile. - l’art. 1175 che impone al debitore ed al creditore di operare secondo le regole di correttezza e di buona fede;
  • l’art. 1218 stabilente la responsabilità del debitore il quale è tenuto a risarcire il danno laddove non esegua esattamente la prestazione dovuta, qualora non provi che l’inadempimento o il ritardo siano stati determinati dall’impossibilità della prestazione derivante da causa al medesimo non imputabile;
  • gli articoli 1667 e seguenti per i quali permane la responsabilità civile del terzo responsabile alla conduzione dell’impianto nei confronti del proprietario per lo svolgimento del subappalto (qualora sia consentito dal contratto e non sia espressamente vietato oppure sia stato effettuato senza l’autorizzazione del committente contro l’espresso divieto dell’art. 1656) secondo le regole generali del contratto di appalto;
  •  l’art. 2050 il quale afferma che chiunque cagiona ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati (quale è quella relativa agli ascensori), è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno; - l’art. 2224 il quale consente al creditore, qualora il prestatore d’opera non proceda all’esecuzione dell’opera secondo le condizioni del contratto e a regola d’arte, di stabilire un congruo termine entro il quale il debitore deve conformarsi a tali condizioni che, se trascorre inutilmente, consente al primo di recedere dal contratto, salvo il diritto al risarcimento del danno.
Il Codice del consumo contenente norme sulla sicurezza dei prodotti.
Il Codice del consumo, il d.lgs. 6/9/2005 n. 206 (emanato ai sensi dell’art. 7 della legge 29/7/2003 n. 229 e pubblicato su GU n. 235 del 8/10/2005), contiene i seguenti principi rilevanti:
  • il produttore (art. 104) immette sul mercato solo prodotti sicuri;
  • un prodotto (art. 117) è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze tra cui il modo di presentazione, l’uso del prodotto, il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione;
  • il difetto di conformità ( art. 129, ultimo comma) che deriva dall’imperfetta installazione del bene di consumo è equiparato al difetto di conformità del bene quando l’installazione è compresa nel contratto di vendita ed è stata effettuata dal venditore o sotto la sua responsabilità. Tale equiparazione si applica anche nel caso in cui il prodotto, concepito per essere installato dal consumatore, sia da questo installato in modo non corretto a causa di una carenza delle istruzioni di installazione.
  • si afferma (art. 105) che un prodotto è definito sicuro:
  1. si presume che un prodotto sia sicuro, per quanto concerne i rischi e le categorie di rischi disciplinati dalla pertinente normativa nazionale quando è conforme alle norme nazionali non cogenti che recepiscono le norme europee, i cui riferimenti siano stati pubblicati dalla Commissione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee;
  2. per quanto concerne gli aspetti disciplinati dalla pertinente normativa nazionale, quando in mancanza di disposizioni comunitarie specifiche che ne disciplinano la sicurezza, è conforme alle normative nazionali specifiche dello Stato membro nel cui territorio è commercializzato, che sono stabilite nel rispetto del trattato, in particolare degli articoli 28 e 30 e che fissano i requisiti cui deve rispondere il prodotto sul piano sanitario e della sicurezza per poter essere commercializzato;
  3.  in circostanze diverse da quelle sopra riferite la conformità di un prodotto all’obbligo generale di sicurezza è valutata tenendo in particolare conto, se esistenti, i seguenti parametri sussidiari:
- le norme nazionali non cogenti che recepiscono norme europee diverse da quelle sopra citate;
- le norme in vigore nello Stato membro in cui il prodotto è commercializzato;
- le raccomandazioni della Commissione relative ad orientamenti sulla sicurezza dei prodotti;
- i codici di buona condotta in materia di sicurezza dei prodotti vigenti nel settore interessato;
- gli ultimi ritrovati della tecnica;
- la sicurezza che i consumatori possono ragionevolmente attendere.

Pertanto l’art. 105 del Codice del consumo innova la serie delle fonti giuridiche italiane e quindi in tale materia prevede il seguente ordine: la carta costituzionale italiana, le direttive europee comprensive delle norme armonizzate, la legislazione nazionale (leggi, decreti legge, decreti legislativi), la normativa regolamentare (decreti del presidente della repubblica e decreti ministeriali), i provvedimenti di autonomia, di autotutela e di autotarchia delle pubbliche amministrazioni (circolari e risoluzioni), le norme tecniche volontarie (norme UNI – EN, norme UNI – EN - ISO e norme UNI o CEI), gli usi e le prassi tecnologici. L’esplicito riferimento agli ultimi ritrovati della tecnica ed alla sicurezza attesa dagli utenti quali residuali parametri di riferimento della sicurezza del prodotto consente di ritenere definitivamente superato l’indirizzo dottrinario tradizionale il quale, con evidenti nostalgie di un passato storico autarchico, nazionalistico ed assolutamente autoreferente, afferma che ogni disposizione comunitaria, per essere vigente in Italia, necessiti la sua ricezione nel nostro ordinamento giuridico mediante l’esclusivo ricorso allo strumento legislativo del nostro Parlamento. Appare opportuno notare che i riferimenti agli ultimi ritrovati tecnologici e all’aspettativa della sicurezza da parte dei consumatori rappresentano, a loro volta, degli usi tecnologici che hanno una giuridica rilevanza non solo per gli interessi rispettivamente rappresentati e sicuramente meritevoli di tutela, ma anche perché la loro menzione consente di evitare una cristallizzazione della ricerca scientifica. Infatti la stessa procede adottando il metodo empirico del “provare e riprovare” inventato da Galileo Galilei e che non può essere definito una volta per tutte in quanto ogni innovazione tecnologica ne introduce una successiva in un continuo ed infinito divenire. E’ la soluzione per complessità per la quale la risoluzione di un problema implica necessariamente la formulazione di uno successivo e quindi il diritto non può bloccare tale movimento infinito con definizioni apodittiche e definitivamente conclusive come avvenuto in passato con il metodo medievale scolastico. In definitiva trattasi di una vera e propria clausola generale di salvaguardia tecnologica stabilita per evitare che disposizioni normative strette ed inderogabili rendano superfluo lo sviluppo tecnologico con la conseguenza di porre l’Europa in uno stato di obiettivo svantaggio di fronte alla concorrenza dei produttori statunitensi, cinesi ed indiani i quali pongono proprio la ricerca scientifica avanzata a fondamento dello sviluppo delle loro economie in modo da aumentare il loro prodotto interno lordo in misura notevolmente superiore al nostro.

I Decreti del 26/10/2005 e del 16/1/2006 del Ministero delle attività produttive relativi al miglioramento della sicurezza degli ascensori.
Il decreto emanato il 26/10/2005 dal Ministero delle attività produttive ( pubblicato nella GU n. 265 del 14/11/2005) riguarda il miglioramento della sicurezza degli ascensori installati negli edifici i civili precedentemente alla data di entrata in vigore della direttiva 95/16/Ce. Il decreto impone di adeguare tali impianti, sia pure attraverso lo scaglionamento temporale dei lavori, descritto all’articolo 2, a secondo del grado di pericolosità dei rischi accertati, alla norma europea UNI EN 81- 80 contenente l’elenco dei 74 rischi maggiormente ricorrenti.
Il decreto del 16/1/2006 (pubblicato sulla GU n. 27 del 2/2/2006), del medesimo Ministero, recepisce nel nostro ordinamento la predetta norma UNI EN 81- 80 con la conseguenza giuridica di rendere immediatamente obbligatoria la sua adozione al fine di garantire la pubblica incolumità.
A tal riguardo può chiedersi se le norme armonizzate europee possano rivestire i principi essenziali di sicurezza e le caratteristiche fondanti le disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di sicurezza sopra sanzionate (con il ricorso alla nota struttura della norma penale in bianco contenente soltanto la sanzione e riguardante invero una fattispecie aperta al progresso tecnologico) . In merito la dottrina afferma che in campo penale la disapplicazione di una norma che si risolva in una operazione “in malam partem” è incompatibile con l’art. 25 della Costituzione sia perché una direttiva di per sé non può creare obblighi a carico di un soggetto, né può avere l’effetto di per sé, e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per l’attuazione della direttiva, di determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni. Osservasi inoltre che le direttive anche qualora prevedano sanzioni per il soggetto inottemperante riservano alla libera scelta dei Parlamenti degli Stati membri di stabilire se le pene previste abbiano, all’interno del singolo ordinamento, le caratteristiche della sanzione penale oppure amministrativa (con il pagamento di una somma pecuniaria).
A diversa conclusione non perviene la giurisprudenza di legittimità la quale afferma che la normativa di sicurezza non comprende, quale genus, sia la species delle norme antinfortunistiche sia quelle delle norme di igiene sul lavoro poiché tali due categorie sono ontologicamente distinte e separate. Tale orientamento dottrinale, tuttavia, non tiene conto del caso in cui una norma armonizzata europea venga recepita all’’interno del nostro ordinamento, come nel caso sopra esaminato, e assuma una rilevanza giuridica obbligatoria per la sua adozione nei luoghi di lavoro secondo quanto previsto dall’art. 6 del d.lgs. n. 626/1994 il quale, in definitiva, prevede l’adozione delle misure di sicurezza secondo la migliore scienza ed esperienza del singolo momento storico. D’altro canto tale norma diviene il parametro di riferimento per l’adozione di tutte le misure idonee previste per evitare il danno secondo quanto è previsto, nel codice civile in materia di fatti illeciti, dagli articoli 2049 (responsabilità dei padroni e dei committenti), 2050 (responsabilità per l’esercizi odi attività pericolose), 2051 (danno cagionato da cose in custodia). La dottrina afferma l’applicabilità di tali norme nell’ambito condominiale e le definisce capisaldi della responsabilità oggettiva civile che importa l’inversione dell’onere della prova della responsabilità del danno dal danneggiato (come prevede l’art. 2043 nella responsabilità aquiliana) al danneggiante il quale deve provare di avere adottato tutte le cautele idonee e tecnicamente possibili per evitare il verificarsi del danno. Inoltre la norma UNI EN 81- 80 costituisce l’insieme delle cautele che il datore deve adottare nelle misure generali di tutela previste dall’art. 3 del d.lgs. n. 626/1994 e che costituiscono suoi precisi obblighi ai sensi del successivo art. 4. A tal proposito appare pletorico affermare che nel caso in cui il mancato rispetto della norma tecnica cagioni una situazione di pericolo e di danno alla persona da cui derivi una lesione personale o la morte di un soggetto utilizzatore dell’ascensore, secondo i principi generali del codice penale in materia di reati colposi e di contravvenzioni, nei confronti dei soggetti garanti dell’installazione, della funzionalità e della manutenzione dell’impianto sono ravvisabili le fattispecie dei reati di lesioni personali aggravate (articoli 590 e 582 del codice penale) oppure dell’omicidio colposo (art. 589del codice penale). Invero la mancata adozione della norma tecnica in tali ipotesi costituirà oggetto della colpa specifica che sarà contestata nel capo di imputazione al reo da parte della pubblica accusa e che costituirà oggetto di giudizio da parte del giudice.

L’operatività immediata della norma UNI EN 81- 80 e la conseguente impraticabilità della manovra d’emergenza sull’ascensore da parte del custode del condominio.
Nei confronti del DM 26/10/2005 è stata proposta un’istanza di sospensiva che è stata respinta dal Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio sulla base della considerazione che per la sua piena operatività il predetto decreto prevede (art. 2, comma 5) l’emanazione, entro sessanta giorni di un decreto del Direttore generale dello sviluppo produttivo e competitività contenente le modalità di svolgimento delle verifiche e i criteri generali delle prescrizioni di adeguamento. Pertanto il giudice amministrativo non ha inteso sospendere l’efficacia di un provvedimento immediatamente non produttivo di effetti giuridici. Tuttavia da tale reiezione dell’istanza non appare ermeneuticamente corretto inferire la conseguenza per cui l’intera nuova normativa sugli ascensori sia attualmente sospesa. Invero da un lato non appare decisivo ricavare un principio interpretativo univoco da parte di posizioni soccombenti al vaglio del giudice adito, di talchè una sconfitta si tramuti inopinatamente in repentina vittoria, dall’altro notasi che la predetta norme UNI EN 81 -80 vive di vita autonoma e propria, rispetto alla citata vicenda giudiziaria, poiché il DM 16/1/2006 non risulta impugnato, è un decreto autonomo e non forma oggetto neppure incidentale della questione svolta nel corso del predetto giudizio.
Le conseguenze della vigenza della norma tecnica appaiono rilevanti in merito alla attuale impraticabilità della manovra d’emergenza sull’ascensore da parte del custode del condominio. La verifica degli ascensori disciplinata dal DPR 3/4/1999 n. 162 si distingue nelle due seguenti categorie:
  • l’ordinaria o periodica, da effettuarsi ogni biennio, la quale è diretta (art. 13, comma terzo) ad accertare se le parti dalle quali dipenda la sicurezza dell’impianto sono in condizioni di efficienza, se i dispositivi di sicurezza funzionano regolarmente e se è stato ottemperato alle prescrizioni eventualmente impartite in precedenti verifiche: tali operazioni sono eseguite dal manutentore sotto la vigilanza del verificatore;
  • la straordinaria che deve essere compiuta, a spese del proprietario, allorquando la verifica ordinaria ottiene un verbale di verifica negativo (art. 14, comma primo) ed è effettuata su richiesta degli interessati (il proprietario o il suo legale rappresentante) che la richiedono ai verificatori dopo avere rimosso le cause che hanno determinato l’esito negativo della verifica precedente; oppure deve esser effettuata in seguito ad incidenti di notevole importanza, anche se non sono seguiti da un infortunio, comunicati dal proprietario o dal suo legale rappresentante al comune il quale, da parte sua dispone immediatamente il fermo dell’impianto (art. 14, comma secondo). In tali casi l’ascensore può essere rimesso in servizio solo per l‘esito della verifica è positivo.
L’art. 15, comma secondo, (manutenzione) del DPR 30/4/1999 n. 162 stabilisce che il manutentore provvede anche alla manovra di emergenza dell’ascensore che, in caso di necessità, può essere effettuata anche da personale di custodia istruito per questo scopo.
I contratti collettivi di categoria prevedono (art. 20, comma primo, n.7 CCNL) l’aggiornamento dei lavoratori – custodi sulla salute e sulla sicurezza, la formazione (art. 43 ) sulla prevenzione antinfortunistica e sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, nonché (art. 19, comma quarto, lettera l del CCNL 1/12/2003 – 31/12/2006)” il compito di intervenire in casi di emergenza sull’impianto di ascensore ai fini di sbloccare la cabina, portarla al piano e aprire la porta, onde consentire l’allontanamento delle persone; l’affidamento di questa mansione può avvenire soltanto previo specifico corso di formazione che dovrà essere effettuato in conformità allo schema approvato dall’Organismo Paritetico Nazionale di cui all’art. 4 dell’Accordo 17/4/1997 (all. n. 6); tale conformità dovrò risultare da apposito provvedimento emanato dall’O.P.N.. Il costo del corso sarà a carico del datore di lavoro. Tale compito verrà svolto dai lavoratori incaricati durante l’orario di lavoro e, limitatamente a quelli che usufruiscono dell’alloggio di servizio, durante le ore di reperibilità, nonché quando gli stessi si trovino comunque presso i fabbricato, anche fuori degli orari di lavoro di cui sopra, il lavoratore potrà intervenire oppure provvederà a dare l’allarme, facendo attivare gli Organismi competenti. Il lavoratore sarà coperto da un’assicurazione per danni verso terzi procurati nelle manovre ai riallineamento, mediante estensione della polizza globale fabbricati. Per le prestazioni di cui sopra è dovuta l’indennità di cui alle tabelle da A ad A- quater dell’art. 117”
A tal riguardo osservasi che fin dal 1981 la giurisprudenza (C. Cass. Civile, Sent. L, n. 6387 del 1/12/1981) prevedeva l’obbligo dell’assicurazione per i lavoratori adibiti a tali mansioni sulla base della presunzione di pericolosità delle attività indicate dall’art. 1 del DPR 30/6/1965 n. 1124 riguardanti per i custodi la piccola manutenzione dell’ascensore, l’intervento in caso di allarme, il controllo degli impianti di illuminazione, l’esecuzione di pulizie nei locali all’interno dei quali è installato l’impianto termico. La norma UNI EN 81 –80, resa efficace in Italia con il decreto 16/1/2006, è autonoma dal Decreto 26/10/2005 non soltanto perché è contenuta in un differente atto normativo, ma poiché lo stesso decreto non subordina ad alcun termine la sua entrata in vigore in Italia e neppure all’emanazione del decreto direttoriale previsto dall’art. 2, comma quinto, del decreto 26/10/2005. Infatti il decreto 16//1/2006 afferma che allo stato attuale si ravvisa …”l’opportunità di provvedere alla diffusione della norma UNI EN 81 –80”che trova il suo fondamento nelle seguenti considerazioni:
  • nel livello di sicurezza degli ascensori esistenti inferiore allo stato dell’arte odierno;. - nelle nuove tecnologie e aspettative sociali le quali hanno condotto a quello che è lo stato dell’arte odierno in materiali sicurezza;
  • nell’aumento della durata della vita e nella legittima aspettativa delle persone disabili ad accessi e progettazioni adeguati alle loro esigenze;
  • nella necessità di fornire un mezzo sicuro di trasporto verticale per i disabili e per le persone anziane non accompagnate;
  • nella constatazione della diminuzione della presenza del personale di servizio fisso degli ascensori e dei custodi degli stabili per cui è importante fornire le misure di sicurezza rilevanti per il recupero di persone rimaste intrappolate;
  • nella constatazione della maggior lunghezza del ciclo di vita degli ascensori rispetto agli altri mezzi di trasporto con la conseguenza per cui il progetto di un ascensore, le sue prestazioni e la sicurezza possono rimanere indietro rispetto alla tecnologia moderna;
  • nell’osservazione per la quale se gli ascensori esistenti non verranno portati allo stato dell’arte in termini di sicurezza il numero degli infortuni aumenterà specialmente in quegli edifici nei quali ha accesso il pubblico;
  • nel rilievo dell’affermazione del principio della libertà di movimento delle persone all’interno dell’Unione europea con la conseguenza per la quale è sempre più difficile familiarizzare con le diverse installazioni sia per gli utenti che per le persone autorizzate.
La norma UNI EN 81 –80 cataloga le varie situazioni di pericolo, distinguendole nelle categorie alto, medio e basso, fornisce le opportune azioni correttive, consente la messa in sicurezza graduale dell’ascensore e si rivolge alle autorità nazionali, ai proprietari, alle ditte di manutenzione. La lista dei pericoli significativi, contenente la valutazione e la richiesta della riduzione del rischio, è divisa in 74 parametri contemplanti, ad esempio, le limitazioni alle persone disabili ( punto 5.2.1), l’inadeguatezza dei dispositivi di blocco alle porte (punto 5.5.2), l’insicurezza del dispositivo di blocco della porta di piano (punto 5.7.7), la mancanza di un dispositivo di chiusura automatica delle porte scorrevoli (punto 5.7.9), il collegamento non adeguato delle porte di piano ( punto 5.7.10), nessuna o l’inadeguata protezione del motore del macchinario (punto 5.15.2). Assai importanti sono le seguenti disposizioni relative all’intervento di sicurezza per estrarre le persone intrappolate all’interno degli ascensori:
  • lo sbloccaggio di emergenza di una porta di piano deve essere possibile soltanto usando un dispositivo speciale (per esempio una chiave triangolare secondo quanto previsto dalla EN 81-1:1998, 7.7.3.2, oppure dalla EN 81-2: 1998, 7.7.3.2; misure aggiuntive devono essere applicate in conformità alla norma EN 81 71 negli edifici che possono subire atti vandalici o dove può verificarsi un “surfing” sull’ascensore ( punto 5.7.8.1);
  • l’ascensore deve essere fornito di un sistema di manovra di emergenza in conformità con la EN 81
  • 1: 1998, 12.5, per gli ascensori elettrici oppure con la EN 81 – 2:1998, 12.9., per gli ascensori idraulici; tutti questi sistemi di emergenza devono essere forniti di istruzioni che siano chiaramente esposte come definito nella EN 81-1:1998, 16.3.1, oppure nella EN 81-2:1998, 16.3.1 (punto 5.12.2);
  • prima di rimettere in servizio un ascensore dopo avere effettuato delle modifiche esso deve essere sottoposto a controlli e a prove secondo quanto previsto nella EN 81 –1: 1998, appendice B”, oppure nella EN 81 –2: 1998, appendice E.2, oppure in regolamenti nazionali; le modifiche fatte su uno specifico componente possono avere conseguenze sulla sicurezza o sul funzionamento di altri componenti ad esso associati. Quindi i controlli e le prove dopo la modifica non devono essere limitati solo ai componenti modificati, ma devono comprendere anche i componenti e i sistemi che possono esserne influenzati (punto 6);
  • si deve fornire tutta la documentazione rilevante per quei componenti che vengono cambiati e completati secondo il punto 5 della UNI EN 81 -80 inerente ai requisiti di sicurezza ed alle misure di prevenzione (punto 7).
Infine con riferimento a tali quattro punti occorre notare che allorquando si interviene, anche con la procedura di emergenza, su di un ascensore è sempre necessaria l’effettuazione di una particolare verifica (ulteriore ed autonoma rispetto a quelle ordinarie e straordinarie previste dagli articoli 13, comma terzo e 14, comma primo del DPR n. 162/1999) la quale può essere svolta unicamente dai soggetti abilitati e previsti dagli articoli 1 e 2 della legge 5/3/1990 n. 46, ovvero dai manutentori, verificatori ed installatori degli ascensori iscritti nell’albo ad essi relativo e tenuto presso le Camere di commercio territorialmente competenti con esclusione di ogni altro soggetto il quale se intervenisse, in tali casi, sull’ascensore comunque commetterebbe il reato previsto e punito dall’articolo 348 c.p. (esercizio abusivo della professione sanzionato con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da euro 103 a 516 ) come affermato dalla giurisprudenza in più occasioni.
E’ evidente che non ricorre l’ipotesi di reato predetto, in quanto i medesimi agiscono in adempimento di un dovere e pertanto la loro condotta integra la causa di giustificazione prevista dall’articolo 51 del codice penale (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere), nei confronti del personale di soccorso pubblico appartenente alle Forze dell’Ordine, ai Vigili del Fuoco, alle organizzazioni di pronto intervento della sanità pubblica i quali intervengano per soccorrere i soggetti che abbiano riportato delle lesioni nell’uso degli ascensori o che siano rimaste chiuse, per varie cause, all’interno dei medesimi.
Sono abilitate (art. 2 della legge 5/3/1990 n. 46) all’installazione, trasformazione, ampliamento e manutenzione degli impianti indicati nell’art. 1 della legge 5/3/1990 n. 46 le imprese iscritte:
- nel registro delle ditte del r.d. 20/9/1934 n. 2001; - nell’albo provinciale delle imprese artigiane di cui alla legge 8/8/1985 n. 443.

Le predette imprese che dimostrino la loro iscrizione nei predetti albi almeno da un anno dalla data di entrata in vigore della l. 46/1990 hanno diritto ad ottenere il riconoscimento dei requisiti tecnico – professionali previa la presentazione di una domanda (art. 5 della l. 46/1990). L’esercizio di tali attività è, inoltre, subordinato (artt. 3, 4, 5 della legge 46/1990) al possesso dei requisiti tecnico – professionali (laurea in materia tecnica, diploma di scuola secondaria, diploma di scuola secondaria superiore in materia tecnica, attestato di formazione professionale, prestazione svolta alle dipendenze di un’azienda del settore per un periodo non inferiore a tre anni ) il cui accertamento viene espletato per le imprese artigiane dalle Commissioni provinciali per l’artigianato, per tutte le altre imprese da una commissione nominata dalla Giunta della Camera di commercio, le quali rilasciano il certificato di riconoscimento dei requisiti professionali ( art. 3 del DPR 6/12/1991 n. 447). Per la progettazione degli impianti (art. 6 della l.46/1990, art. 4 del DPR 6/12/1991 n. 447) è obbligatoria la redazione del progetto da parte di professionisti iscritti negli albi professionali, nell’ambito delle rispettive competenze. Al termine dei lavori (art. 9 della l. 46/1990 e 7 del DPR 447/1991, norme oggi sostituite dall’art. 7 del D.M. Sviluppo Economico 22/1/2008 n. 37) l’impresa installatrice deve rilasciare al committente la dichiarazione di conformità (redatta sulla base del modello predisposto con decreto 20/2/1992 del Ministero dell’Industria, del commercio e dell’artigianato) degli impianti realizzati nel rispetto delle norme previste dall’art. 7 della l. 46/1990. Il Sindaco (art. 11 della l. 46/1990 e art. 24 del DPR 380/2001) rilascia il certificato di abitabilità o di agibilità dopo aver acquisito anche la dichiarazione di conformità o il certificato di collaudo degli impianti installati. La dichiarazione (art. 13 della l. 46/1990) deve essere depositata presso lo sportello unico del comune entro trenta giorni dalla conclusione dei lavori qualora il nuovo impianto sia installato in un edificio per il quale è già stato rilasciato il certificato di abitabilità, mentre nel caso di rifacimento parziale di impianti il progetto e la dichiarazione di conformità o il certificato di collaudo, ove previsto, si riferiscono alla sola parte degli impianti oggetto dell’opera di rifacimento.

Il Decreto del Ministro dello Sviluppo Economico n. 108/2009 del 23/7/2009 relativo all’adeguamento degli ascensori esistenti alla norma Uni En 81 - 80.
I commentatori che hanno fino ad oggi negato l’immediata applicabilità della norma Uni En 81 - 80, nonostante la sua pubblicazione sulla GU n. 27 del 2/2/2006, sostenevano come principale ed unica argomentazione di tale assunto la mancata adozione di un decreto ministeriale di attuazione della normativa introdotta dai decreti del 26/10/2005 e del 16/1/2006 del Ministero delle attività produttive, anch’essi relativi al miglioramento della sicurezza degli ascensori.
Tale affermazione è oggi definitivamente superata dall’emanazione del Decreto del Ministro dello Sviluppo Economico n. 108/2009 del 23/7/2009 (pubblicato su GU n. 189 del 17/8/2009) relativo all’adeguamento degli ascensori esistenti alla norma Uni En 81 - 80 che rivolto a tutte le categorie professionali interessate, a vario titolo, all’adeguamento allo stesso livello di sicurezza tutti gli ascensori in esercizio in Italia attesa la vetustà di una parte rilevante dei medesimi.
Il sistema di controllo (art. 2) coinvolge direttamente il proprietario od il legale rappresentante dell’impianto che, a partire dall’entrata in vigore del decreto, in occasione della prima verifica sull’impianto già programmata dall’organismo notificato, dalla ASL o dall’Ispettorato del Lavoro, richiede l’effettuazione di una visita straordinaria finalizzata “ad un’analisi delle situazioni di rischio presenti nell’impianto” secondo le regole della buona tecnica e consistenti nelle norme UNI e le norme europee che garantiscono un livello di sicurezza equivalente come le norme Uni En 81 - 80. Le verifiche straordinarie debbono essere attuate entro i seguenti termini perentori decorrenti dalla data di entrata in vigore del decreto:
  • due anni per gli ascensori installati prima del 15/11/1964;
  • 3 anni per gli ascensori installati prima del 14/10/1979;
  • 4 anni per gli ascensori installati prima del 9/4/1991;
  • 5 anni per gli ascensori installati prima del 24/6/1999.
Le prescrizioni per operare gli interventi di adeguamento degli impianti hanno ( art. 3) termini quinquennali o decennali dal momento dell’effettuazione dell’analisi dei rischi a secondo della situazione riscontrata nell’impianto e descritte nelle tabelle A, B, C, del decreto. Inoltre le situazioni di rischio riportate nella tabella C possono essere eliminate in occasione di interventi di modernizzazione successivi di significativa entità.
Gli oneri delle verifiche e dei costi di adeguamento degli impianti sono a carico dei rispettivi proprietari e il decreto afferma (artt. 4 e 5) le seguenti impegnativa dichiarazioni di responsabilità:
  • gli enti responsabili delle verifiche devono accertare, nel corso delle ispezioni successive, l’avvenuto adeguamento degli impianti al decreto ed in caso in cui venga l’inottemperanza, l’ente ne comunica l’esito negativo al competente ufficio comunale peri provvedimenti di competenza e informa il proprietario dell’impianto e/o l’amministratore del condominio e la ditta di manutenzione;
  • il proprietario dell’impianto di ascensore o il suo legale rappresentante sono responsabili della corretta esecuzione degli interventi di adeguamento previsti dal decreto e nel rispetto delle esecuzioni tecniche previste dall’analisi del rischio oppure da quelle indicate dalla norma di buona tecnica.
Le valutazioni contemplate dalla norma Uni En 81 – 80 e relative alle misure per assicurare l’accessibilità dei disabili, contro gli atti vandalici e per assicurare un comportamento sicuro in caso di incendio sono (art.6) oggetto di specifica valutazione in funzione delle esigenze degli utilizzatori e dell’ambiente in cui l’impianto è installato e dell’adozione di tali misure è responsabile il proprietario che dovrà valutare quali adottare e richiedere la relativa verifica all’organismo notificato. Infine di notevole rilievo per la tutela della pubblica incolumità è l’affermazione dell’art. 5, comma secondo, del decreto per cui in caso di mancata esecuzione degli interventi di adeguamento della sicurezza prescritti dall’organismo notificato o dalla ASL o dall’ispettorato del lavoro, l’impianto ascensore non può essere messo in esercizio.

L’installazione dell’ascensore secondo la sentenza C.Cass. n. 13358/2016. 
La ristrutturazione degli immobili comporta modifiche consistenti che interessano anche impianti tecnologici invasivi quali gli ascensori ed a tal proposito è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13358/2016 (Sez. 2 Civ., ud. 15.3.2016, dep. 28.6.2016). Il caso trattato riguardava l’installazione di un ascensore all’interno di un cortile di un fabbricato realizzato senza rispettare le distanze legali di una proprietà vicina. Il proprietario dell’ascensore sosteneva che l’opera era stata legittimamente realizzata secondo le norme della legge 9.1.1989 n. 13 contenente disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere negli edifici privati. In particolare tale legge contiene l’art. 3 il quale al primo comma afferma che le opere possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi anche per i cortili e le chiostrine interne ai fabbricati o comuni o di uso comune. Il successivo comma secondo sostiene che sussiste l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli artt. 873 e 907 del codice civile nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune.
La sentenza n. 13358/2016 ha rigettato il ricorso del proprietario dell’ascensore affermando che se è vero che il primo comma dell’art. 3 della legge n. 13/1989 contempla, oltre ai cortili comuni o in uso comune a più fabbricati anche i cortili interni, indipendentemente dalla proprietà degli stessi, tale principio non consente di accogliere la sua domanda poiché nel caso trattato ricorre il disposto del secondo comma dell’art. 3 citato in quanto nel corso dei gradi precedenti del giudizio era stato accertato che la costruzione dell’ascensore non coinvolgeva una proprietà comune alla controparte nel giudizio. Il conseguente principio di diritto consiste nell’affermare non solo che non è condominiale il cortile in cui è stata installata la colonna dell’ascensore, ma anche che non è condominiale, ovvero non appartiene al medesimo fabbricato del convenuto, la muratura perimetrale a cui detta colonna si appoggiava.


di Giulio Benedetti
Sostituto Procuratore Generale Corte d’Appello di Milano
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QUANDO IL RISTORANTE EMETTE ODORI NAUSEABONDI

Il ristorante che emette odori nauseabondi risponde del reato di “getto pericoloso di cose”


L’imputato, nell’esercizio dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, aveva provocato l’emissione nell’atmosfera di “fumi e vapori nauseabondi”, al punto da determinare estremo disagio in tutti i condomini dello stabile, che erano costretti a tenere le finestre chiuse.

Le immissioni intollerabili (di varie specie) all’interno dell’edificio urbano occupano da sempre i primi posti nella hit parade delle cause condominiali.
Se gli inconvenienti correlati a fumi, calori, odori, vapori, e quant’altro, trovano la loro tutela civilistica nell’àmbito del disposto dell’art. 844 c.c., il versante penale ha coinvolto soprattutto il reato di cui all’art. 674 c.p., rubricato “getto pericoloso di cose” (che, prima facie, richiama l’idea di un qualcosa che cala dall’alto, laddove curiosamente le suddette emissioni tendono nella maggior parte … a salire).
Ad ogni buon conto, tale reato, inquadrato nelle contravvenzioni concernenti “l’incolumità pubblica”, punisce, con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda di euro 206,00, “chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte ad offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti”.
In termini generali, si è avuto modo di precisare che, ai fini della configurabilità del suddetto reato, non si richiede che la condotta contestata abbia cagionato un “effettivo nocumento”, essendo sufficiente che essa sia idonea ad offendere, imbrattare o molestare le persone (v. Cass. pen. 13 gennaio 2015 n. 971; Cass. pen. 22 dicembre 2005 n. 46846); al contempo, però, non costituisce molestia, idonea ad integrare lo stesso reato, la mera circostanza di arrecare alle persone “preoccupazione generalizzata ed allarme” circa eventuali danni alla salute da esposizione ad emissioni inquinanti. Inoltre, tra le emissioni di gas, vapori o fumo atte ad offendere o imbrattare o molestare persone rientrano “tutte le sostanze volatili” che emanano odori provocanti disturbo, disagio o fastidio alle persone (v. Cass. pen. 20 gennaio n. 2377).
La contravvenzione di cui sopra, poi, non è configurabile quando l’offesa, l’imbrattamento o la molestia abbiano ad oggetto esclusivamente cose e non “persone” (v. Cass. pen. 10 giugno 2010 n. 22032: nella specie, lo sversamento di liquami, provocato dal cattivo funzionamento di un depuratore consortile, aveva causato danni solo a colture private, senza riverberi negativi sui consorziati).
Infine, il reato previsto dall’art. 674 c.p. non prevede due distinte ed autonome ipotesi di reato ma un reato unico, in quanto la condotta consistente nel provocare emissioni di gas, vapori o fumo rappresenta una species del più ampio genus costituito dal “gettare” o “versare” cose atte ad offendere, imbrattare o molestare persone (v. Cass. pen. 17 ottobre 2011 n. 37495).
La fattispecie concreta recentemente decisa da Cass. pen. 1° luglio 2015 n. 27562, attinente proprio alla realtà condominiale, ci offre lo spunto per affrontare funditus tali tematiche.
I giudici di merito avevano confermato la condanna alla pena (ritenuta congrua ed adeguata) di 10 giorni di arresto, nonché al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, essendo emerso dalle risultanze processuali che l’imputato, nell’esercizio dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, aveva provocato l’emissione nell’atmosfera di “fumi e vapori nauseabondi”, al punto da determinare estremo disagio (nausea e senso di vomito) in tutti i condomini dello stabile, che erano costretti a tenere le finestre chiuse.
L’imputato ricorreva per cassazione - per quel che qui rileva - denunciando, con il primo motivo, la violazione dell’art. 649 c.p.p.: il ricorrente era stato tratto a giudizio per aver provocato, nell’esercizio di un’attività di ristorazione (bar-pizzeria), emissioni di vapori e fumo, come accertato in una determinata data; peraltro, le date indicate nel capo di imputazione non corrispondevano all’effettivo tempus commissi delicti, riferendosi esse al controllo operato dagli agenti di Polizia; tali fatti erano stati già giudicati con una precedente sentenza irrevocabile, per cui si era violato il principio del ne bis in idem; trattandosi di una pizzeria funzionante ininterrottamente, l’illegittima emissione di gas, vapori, fumi, connessa all’esercizio di attività economiche e legata al ciclo produttivo, si configurava come reato permanente, non potendosi ravvisare la commissione di distinti reati per ogni singola emissione.
Con il secondo motivo, il ricorrente denunciava la violazione degli artt. 81 e 674 c.p.:
invero, da tutti gli accertamenti disposti dall’Arpa era emerso il buon funzionamento delle attrezzature poste in essere per la riduzione e prevenzione degli odori e dei fumi (impianto di areazione e deodorizzazione dei fumi prodotti); l’attività di ristorazione ricadeva, ai sensi dell’art. 272 del d.lgs. n. 156/2006, nell’elenco delle attività in deroga che non necessitavano di autorizzazione; peraltro, uniformandosi all’attestato protocollo rilasciato dalla Regione, era disponibile all’installazione di una canna fumaria, con superamento di almeno un metro il colmo di tetti, ma dai condomini dello stabile era stato impedito di realizzare detto accorgimento, sicché non poteva attribuirsi al ricorrente alcuna responsabilità in ordine al reato ascritto.
I giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto il suddetto ricorso “manifestamente infondato”.
Quanto all’eccepita violazione del principio del ne bis in idem, non c’è dubbio che - come più volte ribadito dalla magistratura di vertice - la contravvenzione prevista e punita dall’art. 674 c.p., quando abbia per oggetto l’illegittima emissione di gas, vapori, fumi atti ad offendere o imbrattare o molestare le persone, connessa all’esercizio di attività economiche e legata al ciclo produttivo, assuma il carattere della “permanenza”, non potendosi ravvisare la consumazione di definiti episodi in ogni singola emissione di durata temporale non sempre individuabile.
Peraltro - ad avviso di Cass. pen. 24 maggio 2012 n. 19637 - il carattere continuativo del reato di getto pericoloso di cose, che ha natura permanente, non si identifica con la “ripetitività giornaliera” delle emissioni moleste, essendo sufficiente che esse si protraggano, senza interruzioni di rilevante entità, per un apprezzabile lasso di tempo a cagione della duratura condotta colpevole del soggetto agente. Ne consegue che, se la sentenza di primo grado abbia accertato la permanente attualità dell’attività produttiva in termini non diversi da quelli del momento della contestazione, quanto a strumenti di produzione, la permanenza nel reato deve ritenersi cessata con la pronuncia di detta sentenza (v., ex multis, Cass. pen. 10 agosto 1995 n. 9293).
Il ricorrente ha omesso, però, di considerare che la sentenza passata in giudicato aveva ad oggetto fatti commessi fino ad una certa data; trattandosi di contestazione “chiusa”, la permanenza doveva ritenersi, quindi, cessata (già prima della sentenza) alla data indicata nell’imputazione, mentre i fatti per cui si procede risultano accertati in un secondo momento; siamo, quindi, in presenza, di una condotta successiva che, come tale, non può essere coperta dal precedente giudicato.
In ordine al secondo motivo, si è ricordato che, per il reato di cui all’art. 674 c.p., l’evento di “molestia” provocato dalle emissioni di gas, fumi o vapori è apprezzabile a prescindere dal superamento di eventuali limiti previsti dalla legge, essendo sufficiente il superamento del limite della normale tollerabilità ex art. 844 c.c. (v. Cass. pen. 26 settembre 2012 n. 37037; Cass. pen. 27 settembre 2011 n. 34896; cui adde, più di recente, Cass. pen. 3 novembre 2014 n. 45230, in materia di emissioni moleste “olfattive”: nella specie, è stata ritenuta penalmente rilevante la condotta dell’imputato che, non provvedendo ad adeguata pulizia dei recinti in cui custodiva i propri cani e del cortile circostante, mantenendovi a lungo le deiezioni degli animali, aveva provocato “esalazioni maleodoranti” in grado di arrecare molestie ai condomini confinanti; d’altronde, il reato di getto pericoloso di cose è configurabile anche in presenza di una condotta omissiva che può essere integrata dall’omessa custodia di animali qualora sia derivato il versamento di feci animali atte ad offendere, imbrattare o molestare persone, v. Cass. pen. 31 luglio 2008 n. 32063: fattispecie nella quale gli escrementi liquidi di alcuni cani, lasciati incustoditi dal proprietario sul balcone, si riversavano nell’appartamento sottostante).
È comunque necessario - aggiungono gli ermellini - che venga accertato, in modo rigoroso, il limite in questione, e sul punto i giudici di merito hanno ampiamente argomentato in ordine al superamento di siffatta normale tollerabilità, essendosi accertato che l’imputato, nell’esercizio dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, avesse provocato l’emissione di fumi e vapori nauseabondi; che l’emissione fosse “nauseabonda” ed atta a molestare era stato direttamente constatato anche dagli agenti della Polizia municipale (uno dei quali, addirittura, nel corso del sopralluogo, veniva colto da un attacco di nausea).
In argomento, si è affermato che, ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 674 c.p., in tema di getto pericoloso di cose, la sussistenza dell’emissione di gas, vapori e fumi derivanti da una canna fumaria, atti ad offendere, molestare o imbrattare i vicini, dipende dal superamento dei limiti della normale tollerabilità, con conseguente pericolo per la salute pubblica, la cui tutela costituisce la ratio dell’incriminazione (v. Cass. pen. 21 dicembre 2006 n. 42213, relativamente ad una pizzeria).
Orbene, il ricorrente, anziché censurare siffatte argomentazioni, ha riproposto doglianze in fatto (in ordine al buon funzionamento dell’impianto di areazione e deodorizzazione), oppure irrilevanti (quanto al mancato consenso da parte dei condomini all’installazione di una canna fumaria).
In particolare, sotto il primo aspetto, anche di recente Cass. pen. 23 marzo 2015 n. 12019 ha ribadito che il reato di getto pericoloso di cose è configurabile anche in presenza di immissioni olfattive provenienti da un impianto “munito di autorizzazione” per le emissioni in atmosfera, essendo sufficiente il superamento del limite della normale tollerabilità previsto dall’art. 844 c.c.
In senso contrario, va registrato, però, un altro indirizzo giurisprudenziale, secondo cui il reato di getto pericoloso di cose non è configurabile qualora le emissioni provengano da un’attività regolarmente autorizzata o da un’attività prevista e disciplinata da atti normativi speciali, e siano contenute nei limiti previsti dalle leggi di settore o dagli specifici provvedimenti amministrativi che le riguardano, il cui rispetto implica una presunzione di legittimità del comportamento (v. Cass. pen. 18 novembre 2010 n. 40849; Cass. pen. 15 aprile 2009 n. 15707) In proposito, si è puntualizzando che, all’inciso “nei casi non consentiti dalla legge”, deve riconoscersi un valore rigido e decisivo, tale da costituire una sorta di spartiacque tra il versante dell’illecito penale, da un lato, e dell’illecito civile, dall’altro; in particolare, la clausola “nei casi non consentiti dalla legge”, contemplata nell’art. 674 c.p., non è riferibile alla condotta di getto o versamento pericoloso di cose di cui alla prima parte della norma citata, ma esclude il reato solo per le emissioni di gas, vapori o fumo che sono specificamente consentite attraverso limiti tabellari o altre determinate disposizioni amministrative (v. Cass. pen. 17 aprile 2009 n. 16286).
Relativamente ai confini rispetto alla fattispecie civilistica, la stessa Corte regolatrice - v. Cass. pen. 9 marzo 2006 n. 8299 - ha puntualizzato che, ai fini della configurabilità del suddetto reato, l’espressione “nei casi non consentiti dalla legge” costituisce una precisa indicazione circa la necessità che tale emissione avvenga in violazione delle norme che regolano l’inquinamento atmosferico; allorché, pur essendo le emissioni contenute nei limiti di legge, abbiano arrecato e arrechino fastidio alle persone, superando la normale tollerabilità, si applicheranno le norme di carattere civilistico contenute nell’art. 844 c.c.; non è, pertanto, configurabile il reato di cui all’art. 674 c.p. quando le emissioni provengano da un’attività regolarmente autorizzata e siano inferiori ai limiti previsti dalle leggi speciali in materia di inquinamento atmosferico.
Appare comunque preferibile l’orientamento più rigoroso - di cui sono espressione, tra le altre, Cass. pen. 15 aprile 2009 n. 15734; Cass. pen. 19 giugno 2007 n. 23796 - per il quale il reato di getto pericoloso di cose è integrabile indipendentemente dal superamento dei valori limite di emissione eventualmente stabiliti dalla legge, in quanto anche un’attività produttiva autorizzata può procurare molestie alle persone, “per la mancata attuazione dei possibili accorgimenti tecnici” idonei ad eliminarle o contenerle.
Resta il fatto che, in tema di getto pericoloso di cose, qualora trattasi di emissioni di fumi, gas o vapori atti ad offendere o molestare le persone, la prova del superamento del limite di tollerabilità deve essere determinata di volta in volta dal giudice, anche mediante dichiarazioni testimoniali, con riguardo sia alle condizioni dei luoghi e alle attività normalmente svolte in un determinato contesto produttivo, sia al sistema di vita e alle correnti abitudini della popolazione nell’attuale momento storico (v. Cass. pen. 13 ottobre 2007 n. 38073, in una fattispecie in cui l’emissione di fumi, promananti dalla canna fumaria e prodotti dall’impianto di riscaldamento dell’imputato, investiva l’abitazione di alcuni vicini di casa provocando loro molestia; Cass. pen. 28 settembre 2007 n. 35489, in un’ipotesi concreta di emissioni di monossido di carbonio e fumi provocati da un impianto termico centralizzato condominiale, di cui era stata accertata la presenza all’interno dell’appartamento di un condomino).
Riguardo alle turbative provenienti dalla canna fumaria poste a servizio di esercizi commerciali ubicati nello stabile condominiale, si può riportare quanto notato dai supremi giudici penali - v. Cass. pen. 26 maggio 2005 n. 19898 - secondo i quali, ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 674 c.p., è sufficiente che il fatto commesso sia idoneo alla produzione degli eventi negativi previsti dalla norma; d’altronde, si richiede che tali effetti siano cagionati contra legem, e pertanto il parametro di legalità va individuato nel contenuto del provvedimento amministrativo all’esercizio di una determinata attività lavorativa, ma laddove l’autorizzazione non sia richiesta, si deve avere come punto di riferimento il criterio della “stretta tollerabilità” piuttosto che quello contenuto nella disposizione civilistica dell’art. 844 c.c., che consente immissione entro i limiti della “normale tollerabilità”.
Come è agevole notare, al pari del disposto di cui all’art. 844 c.p.c. (“immissioni”), il quale, con il tempo, ha ricevuto un’applicazione alquanto difforme rispetto agli obiettivi prefissati al momento della sua entrata in vigore (1942), limitati essenzialmente alla tutela della proprietà fondiaria ma poi estesi a dirimere i conflitti sui temi della tutela ambientale e del diritto alla salute, così anche l’art. 674 c.p. (“getto pericoloso di cose”), concepito nel 1930 per punire chi gettava o versava in luogo pubblico cose idonee a sporcare o colpire i passanti, è divenuto successivamente, a fronte della lacuna normativa al riguardo, uno dei più importanti strumenti giuridici per la lotta contro l’inquinamento atmosferico inteso lato sensu, odori sgradevoli inclusi.

di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione
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L’aggio di Equitalia è incostituzionale?

Appare assolutamente ingiustificata la fissazione della misura dei compensi di riscossione a carico del contribuente nella percentuale fissa del 9% delle somme riscosse nel caso in cui il pagamento sia effettuato oltre 60 giorni dalla notifica della cartella di pagamento, anziché in misura corrispondente ai costi del servizio.

Sulla costituzionalità o meno dell’aggio esattoriale, negli anni scorsi, la Corte Costituzionale si è pronunciata con la sentenza n. 480 del 22-30 dicembre 1993 e con l’ordinanza n. 147 del 26 maggio 2015, dichiarando in entrambi i casi la manifesta inammissibilità delle eccezioni sollevate dai contribuenti in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, così come sollevate dalla Commissione Tributaria di primo grado di Catania e dalle Commissioni Tributarie Provinciali di Torino e di Latina.
Il problema, però, si è riproposto, giustamente, per l’importanza dell’argomento, soprattutto in un momento di crisi economica come l’attuale, con le ordinanze del 07 luglio 2014 della Commissione Tributaria Provinciale di Roma (in Gazzetta Ufficiale del 13 aprile 2016) e della Commissione Tributaria Provinciale di Milano del 23 novembre 2015 (in Gazzetta Ufficiale del 27 aprile 2016).

In particolare:
  • la Commissione Tributaria Provinciale di Roma – Sez 65 - ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 del decreto legislativo n. 112/1999 Testo Unico delle disposizioni concernenti il sistema della remunerazione per la riscossione dei tributi per contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione;
  • la Commissione Tributaria Provinciale di Milano – Sez. 29 – ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 del D.Lgs. n. 112/1999, Testo Unico delle disposizioni concernenti il sistema della remunerazione per la riscossione dei tributi, per contrasto con gli artt. 3, 53 e 97 della Costituzione.
In proposito, il giudice tributario osserva che il contribuente ha ritenuto illegittimo il compenso di riscossione richiesto nella cartella di pagamento impugnata a titolo di remunerazione del servizio svolto da Equitalia S.p.A. Detto compenso, ai sensi dell’art. 17 del decreto legislativo n. 112/1999 è pari ad una percentuale dell’importo iscritto a ruolo da determinarsi, per ogni biennio, con decreto ministeriale e che attualmente è fissato nella misura del 4,65% dal decreto ministeriale 17 novembre 2006.
Originariamente il pagamento dell’importo controverso era richiesto al debitore solo in ipotesi di mancato pagamento della somma dovuta entro i termini di scadenza della cartella di pagamento; con le modifiche introdotte dal decreto-legge n. 262/2006 detto esborso è stato generalizzato, essendo dovuto anche se il contribuente provvede al pagamento nei termini, di modo che, se l’adempimento è tempestivo, il compenso ammonta al 4,65% delle somme iscritte a ruolo, se invece il pagamento avviene oltre i termini, il compenso aumenta in una misura pari al 9% (oggi ridotto all’8%, ma il problema non cambia).
Da ciò deriva che, a parità di servizio offerto, l’importo del compenso relativo differisce a seconda del valore della lite, in contrasto con l’art. 3 della Carta costituzionale, talché la misura della remunerazione non risulta vincolata all’esercizio di specifiche attività da parte dell’agente della riscossione, come sarebbe ragionevole, ma unicamente all’importo delle somme iscritte a ruolo.
Il giudice tributario, poi, condivide le osservazioni svolte dal contribuente circa l’illegittimità dell’applicazione del regime descritto con riferimento a fatti imponibili che risalgono ad un periodo d’imposta precedente rispetto alla data di entrata in vigore della normativa in questione (3 ottobre 2006), introdotta dall’art. 2 del decreto legge n. 262/2006. Ciò per la ragione che, da un lato, si ritiene debba operare nel caso di specie il principio di irretroattività delle novelle che introducano pene più gravi per i contribuenti, dall’altro determinandosi la discriminatoria conseguenza che, a fronte di identici fatti imponibili, all’identico periodo d’imposta riferibili, quanto all’obbligo di corresponsione del compenso nella misura stabilita dal mutato tasso percentuale o di quello precedentemente in vigore, i contribuenti si troverebbero di fatto in balia del mero arbitrio dell’amministrazione finanziaria, in grado di unilateralmente incidere su detta misura in dipendenza del momento della notificazione dell’intimazione di pagamento.
Sicché i criteri indicati conducono ad una inevitabile distorsione dell’intero sistema fiscale anche sotto il profilo dell’art. 53 della Costituzione, tale sistema essendo di fatto lasciato all’arbitrio delle agenzie, con la conseguenza che la previsione dei compensi nella misura minima del 4,65%, non collegata ad alcuna capacità contributiva, paventa un danno sia diretto, privando i contribuenti del diritto di dosare la propria contribuzione in base al reddito, scegliendo l’intensità delle proprie prestazioni lavorative, sia indiretto, determinando una conseguente sfiducia nel sistema fiscale e ostacolando il libero esercizio delle arti e dei mestieri.
Sotto il profilo dell’art. 97 della Costituzione, ossia del buon andamento della P.A., la frattura con il dettato costituzionale si verifica nel momento in cui il compenso risulti dovuto in assenza di una qualsiasi attività dell’agente della riscossione, a detrito tanto del principio amministrativistico dell’imparzialità e della trasparenza delle scelte della P.A., quanto del principio di natura civilistica della corrispettività delle prestazioni.
La questione di legittimità costituzionale involge, dunque, l’art. 17, comma 1, decreto legislativo n. 112/1999 per contrasto con l’art. 3 della Costituzione per violazione del principio di eguaglianza del cittadino di fronte alla legge laddove il compenso viene legato al valore della lite anziché alle prestazioni effettivamente svolte; con l’art. 53 per violazione del principio di capacità contributiva essendo prevista quale compenso per l’attività di riscossione una percentuale fissa sulle somme iscritte a ruolo e con l’art. 97 della Costituzione, la normativa difettando di quei criteri di trasparenza e correlazione con l’attività richiesta e congruità con i costi medi di gestione del servizio, corollari necessari del principio di buon andamento sancito dall’art. 97 della Costituzione. In punto di non manifesta infondatezza della questione, il giudice tributario ricorda che la Corte Costituzionale con la sopra citata sentenza n. 480 del 30 dicembre 1993 ha stabilito che la misura dell’aggio deve ritenersi ragionevole (e quindi costituzionalmente legittima) se essa è contenuta in un importo minimo e massimo che non superi di molto la soglia di copertura del costo della procedura. Nello stesso senso, Consiglio di Stato 29 gennaio 2008, n. 272.
Per cui, condividendo i dubbi del contribuente, il giudice tributario ritiene, giustamente, che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, come modificato dall’art. 32, comma 1, lettera a) del decreto legge 29 novembre 2008, n.185, convertito dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, in vigore dal 29 novembre 2008, per contrasto con gli articoli 3, 53 e 97 della Costituzione, sia rilevante in quanto esso non può essere definito in assenza di una risoluzione della questione di legittimità costituzionale e che tale questione non sia manifestamente infondata alla luce delle considerazioni suesposte.
In punto di non manifesta infondatezza della questione, il giudice tributario rileva che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 480 del 30 dicembre 1993 ha già stabilito che la misura dell’aggio deve ritenersi ragionevole (e quindi costituzionalmente legittima) se essa è contenuta in un importo minimo e massimo che non superi di molto la soglia di copertura del costo della procedura.
Il giudice tributario ritiene che la norma debba essere nuovamente valutata sotto un altro profilo. Appare assolutamente ingiustificata la fissazione della misura dei compensi di riscossione a carico del contribuente nella percentuale fissa del nove per cento delle somme riscosse nel caso in cui il pagamento sia effettuato oltre sessanta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, anziché in misura corrispondente ai costi del servizio di riscossione.
I dubbi in ordine alla ragionevolezza della misura dell’aggio sono alimentati, oltre che dalla considerazione che la legge non fissa un importo massimo prestabilito dello stesso, anche dalla constatazione che l’agente, nell’ambito della nuova procedura di riscossione delle somme risultanti dagli atti di cui alla lett. a) dell’art. 29, comma 1, del d.l. n. 78 del 2010, non avrà più neppure l’onere di notificare la cartella di pagamento senza aggravio di relativi costi.
Se a ciò si aggiunge che, a seguito dell’abrogazione a decorrere dal 26 febbraio 1999 dell’obbligo del non riscosso come riscosso (art. 2, comma 1, decreto legislativo 22 febbraio 1999, n. 37), l’agente della riscossione non subisce più alcun danno patrimoniale da riparare per effetto dell’inadempimento del contribuente e che il servizio di riscossione coattiva non è più gestito da concessionari privati, ma da un ente pubblico economico, emergono con chiarezza i profili di dubbia legittimità costituzionale dell’attuale disciplina sul punto. Le considerazioni contenute nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, sul costo del servizio pubblico di riscossione, tanto più inducono il giudice tributario a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, del decreto legislativo n. 112/1999.
Nella sentenza n. 59/1987 la Corte Costituzionale ritenne che la scelta del legislatore, seppure discrezionale, non può sottrarsi al sindacato sotto il profilo del buona andamento secondo i canoni della non arbitrarietà e della ragionevolezza della disciplina rispetto al fine indicato nell’art. 97, primo comma, della Costituzione, di tal che, in sede di giudizio sulla legittimità costituzionale delle leggi, la violazione del principio di buon andamento dell’amministrazione può essere invocata allorché si assuma l’arbitrarietà o la manifesta irragionevolezza della disciplina impugnata rispetto al fine indicato nell’art. 97, primo comma, Costituzione (Corte Costituzionale n. 10/1980): per modo che sempre emergono profili di irragionevole applicazione dell’aggio di riscossione anche sugli interessi di mora, sol che si consideri che l’agente della riscossione, in relazione agli importi non pagati tempestivamente dal contribuente, non ha anticipato alcuna somma all’erario.

In sintesi si ripete che:
  • il giudice tributario rileva che la prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, 1° comma, del decreto legislativo n. 112/1999 è rilevante e non manifestamente infondata atteso che il pagamento dell’aggio è stabilito in misura fissa anziché in misura corrispondente ai costi effettivi del servizio di riscossione;
  • l’irrazionalità normativa deriva dalla circostanza che detta misura non assicura che la gestione del servizio sia volta soltanto alla copertura dei costi;
  • il dubbio di incostituzionalità si consolida poi laddove viene configurato l’obbligo del pagamento pur in assenza di specifici criteri di determinazione del costo di tale servizio;
  • l’obbligo dell’aggio può ritenersi ragionevole e coerente allorché la misura corrisponda al costo effettivo della prestazione, mentre deve ritenersi ingiusto, penalizzante e costituzionalmente illegittimo per l’assenza di un tetto minimo e massimo alla misura dei compensi;
  • tale sistema fa risaltare l’incostituzionalità della previsione di una qualche forma di riequilibrio per effetto del d.l. n. 201/2011;
  • la disciplina previgente appare quanto mai irragionevole poiché il compenso di riscossione costituisce il corrispettivo di una specifica prestazione di servizi: deve ritenersi del tutto arbitraria la determinazione della misura di tale compenso a carico del contribuente nella percentuale fissa del nove per cento (oggi otto per cento) delle somme iscritte a ruolo, non essendo quest’ultima in alcun modo ancorata ai costi effettivi e giustificati di gestione sostenuti dall’agente della riscossione (e ciò contrasta con l’art. 97 della Costituzione per la manifesta irrazionalità).
La questione di legittimità costituzionale involge, dunque, l’art. 17, 1° comma, del decreto legislativo n. 112/1999 per contrasto con l’art. 3 per la violazione del principio di eguaglianza del cittadino di fronte alla legge laddove il compenso viene correlato al valore della lite e con l’art. 97 relativo al principio di buon andamento della P.A., difettando di quei criteri di trasparenza e correlazione con l’attività richiesta e congruità con i costi medi di gestione del servizio (che rappresentano i corollari necessari del principio di buon andamento sancito dall’art. 97, primo comma, Costituzione), per manifesta illogicità.
Mentre l’impossibilità di accedere a correttivi interpretativi “costituzionalmente orientati” tanto più rende necessario l’approdo della questione all’esame di costituzionalità.
Se infatti tra i poteri del giudice tributario vi è quello, riconosciuto dall’art. 7, comma 5, del decreto legislativo n. 546/92, di disapplicare un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, cionondimeno, detto potere non può estendersi a norme di rango ordinario, per cui il doveroso tentativo di individuare una interpretazione della norma costituzionalmente corretta non offre altra soluzione se non quella di un intervento del giudice delle leggi per l’impossibilità di individuare una interpretazione adeguatrice che possa correggere (in sede interpretativa ed applicativa) l’art. 17 del decreto legislativo n. 112/1999.
Alla luce di tutto quanto sopra esposto, è consigliabile che i contribuenti ed i difensori tributari eccepiscano l’incostituzionalità dell’aggio oppure, nelle controversie pendenti in tema di riscossione, chiedano la sospensione dei giudizi in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale.
Anche se non si può fare una previsione sull’orientamento della Corte, bisogna rilevare che non sarà cosa facile salvare l’aggio e riconoscerne la costituzionalità, malgrado l’espediente dell’inammissibilità.

di Maurizio Villani
Avvocato Tributarista in Lecce 
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COME RECUPERARE I CREDITI CONDOMINIALI ATTRAVERSO IL DECRETO INGIUNTIVO

RECUPERARE I CREDITI CONDOMINIALI ATTRAVERSO IL DECRETO INGIUNTIVO

La tendenza dei condomini di sottrarsi al pagamento delle spese comuni, a torto ritenute estranee alla sfera privata, è costume noto, così come è provato il disinteresse degli stessi per le conseguenze che tale comportamento determina sulla collettività. Questo fenomeno è divenuto negli ultimi anni, in ragione della crisi finanziaria, ancora più evidente e ciò ha portato gli amministratori, sempre più di frequente, a ricorrere a mezzi forzosi per il recupero di morosità sempre più consistenti.
Alla base delle insolvenze, quindi, vi sono sostanzialmente due fattori: la contingente difficoltà economica e la errata cognizione del concetto di bene comune, che porta a ritenere che gli effetti negativi del mancato mantenimento in efficienza di quanto non sia di proprietà esclusiva, non abbia alcuna ricaduta nella sfera personale. Ed è assai difficile fare comprendere, a chi si pone in questa posizione, che tale opinione non porta da nessuna parte, o meglio, che questo modo di intendere la vita condominiale non può che danneggiare, irrimediabilmente, anche i propri interessi, poiché il valore economico della proprietà esclusiva è inscindibilmente collegato a quello della proprietà comune.

Dossier Condominio
di Adriana Nicoletti
Avvocato del Foro di Roma


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IL RENDICONTO ED IL PREVENTIVO: PRESUPPOSTI INDEFETTIBILI PER L'ESPERIBILITA' DELL'AZIONE INGIUNTIVA


In via preliminare - viste le obiezioni e le domande che spesso, nell'ambito della professione, mi sono state rivolte - penso sia utile affrontare un primo aspetto della questione, ovvero quello indicato dall'art. 63, co.1 disp.att.c.c., concernente lo stato di ripartizione delle spese approvato dall'assemblea, quale presupposto essenziale per ottenere un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo. Per esperienza diretta, infatti, molti clienti, lamentando la redazione di bilanci in modo non intellegibile, chiedono se sia possibile non pagare. La risposta immediata, ovviamente, non può che essere negativa, poiché dal momento in Cui il bilancio e stato regolarmente approvato dallassemblea e la delibera non e stata impugnata nei termini di Cui all’art. 1137 c.c. si consolida, in Capo al condomino, l'obbligo del pagamento della quota di sua pertinenza, con il rispetto dei termini indicati nello stato di riparto. Oggi più che mai, é necessario che l’amministratore, come previsto dall’art.1130 bis c.c. (new entry dalla Legge n. 220/2012) predisponga un rendiconto, che contenga le voci di entrata e di uscita e tutti i dati concernenti la situazione patrimoniale del Condominio espressi in modo da consentirne una immediata verifica da parte dei condomini. Là dove, nel passato, la giurisprudenza, pur affermando che i bilanci condominiali non dovevano rivestire le forme rigorose richieste per i rendiconti delle società, aveva essa stessa già dichiarato che era per essi sufficiente una forma tale da rendere intellegibili le voci di entrata e di uscita con la relativa ripartizione (per tutte Cats. 23 gennaio 2007, n. 1405). Inoltre, per consentire una migliore e più completa conoscenza della situazione contabile e finanziaria dell'Ente, l'amministratore dovrà inviare, in una con l'avviso di convocazione, una nota sintetica ma esplicativa della gestione condominiale nella quale, al bisogno, potrà preventivamente spiegare anche i passaggi più complessi del rendiconto. In tal modo i Condomini non potranno più giustificare le proprie morosità prendendo a giustificazione l'asserita complessità dei rendiconti. Malgrado la legge 220/2012 per la prima volta, abbia stabilito in sei mesi dalla chiusura dell'esercizio il termine entro il quale l’amministratore e tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme erogate (art. 1129, co. 9, c.c.), cosi divenute esigibili, va detto che la norma, per questo specifico profilo, sembrerebbe avere un ambito di applicazione limitato al solo rendiconto o bilancio consuntivo.

In realtà - come emerge dalla costante giurisprudenza - e pacifico che l'amministratore, anche sulla base del solo preventivo e della relativa ripartizione, e legittimato a richiedere al giudice di pace (per crediti fino ad euro 5.000,00) oppure al Tribunale territorialmente competenti l'emissione di un decreto ingiuntivo. La ratio di tale legittimazione é più che evidente. Infatti, anche di fronte ad una pianificazione delle spese future, non si possono tollerare ritardi nei pagamenti che potrebbero di fatto rallentare o bloccare la gestione della vita condominiale. A tale fine basti solo pensare ai preventivi che riguardano i pagamenti delle spese di gestione del riscaldamento che, se non versati alle regolari scadenze, potrebbero determinare una sofferenza nelle tasche del condominio con il rischio di una sospensione di erogazione delle forniture.A fronte di un codificato dovere dell’amministratore di agire in giudizio nei confronti dei morosi che, in caso di inerzia, e considerato irregolarità tale da determinare la revoca dal mandato (art. 1129, co. 12, n. 7), il legislatore ha consentito all'assemblea di decidere se dispensarlo da tale onere (art. 1129, co. 9, c.c.). La norma e tutta da interpretare. Non è stato indicato, infatti, il quorum deliberativo (anche se e presumibile che sia quello indicato dall'art.  36, com. 3) ed e stata lasciata, come doveva essere stante la discrezionalità dell'organo assembleare, libertà di individuare, caso per caso, le condizioni che possano portare alla dispensa nei confronti dell’amministratore. Ciò potrebbe avvenire, ad esempio, nel caso in cui il credito del condominio fosse tanto esiguo da rendere non conveniente ricorrere all'autorità giudiziaria se le spese legali (che in ogni caso il condominio deve pagare al proprio legale e salvo il regresso del primo nel confronti del debitore) dovessero superare la somma da incassare; oppure nel caso di richiesta del debitore rivolta all'assemblea di rinviare temporaneamente la riscossione del credito a fronte di una offerta di adempimento rateizzato ed ancora quando, accertatolo stato di totale incapienza (anche di beni immobiliari) del condomino moroso sia antieconomico procedere nei suoi confronti. In tale ultimo caso, tuttavia, é evidente che la situazione del debitore debba essere sempre monitorata in attesa del momento opportuno per agire in giudizio.
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