Di seguito il calendario di tutte le scadenze fiscali del mese di Luglio anno 2016
mercoledì 29 giugno 2016
REDDITOMETRO: l'acquisto fa scattare l'accertamento
L’acquisto di un’abitazione di lusso fa scattare l’accertamento tramite redditometro qualora il reddito del contribuente e gli apporti economici del coniuge non siano sufficienti a giustificare la spesa rispetto a quanto dichiarato.
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Sentenza Corte Cassazione 22.4.2016, n. 8126 - REDDITOMETRO
Svolgimento del processo
G.C. e G.R. proposero ricorso avverso avviso di accertamento irpef e ilor per l'anno d'imposta 1995.
L'accertamento, condotto con metodo sintetico, si fondava sulla capacità di spesa dimostrata dai contribuenti in ragione dell'acquisto d’un immobile, avvenuto nel 1996, al prezzo di 1.520.000.000.
L'adita commissione provinciale accolse il ricorso, e la decisione fu confermata, in esito all'appello dell'Agenzia, dalla commissione regionale.
Avverso la decisione di appello, l'Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione in due motivi.
I contribuenti resistono con controricorso e propongono un motivo di ricorso incidentale condizionato.
Motivi della decisione
La motivazione della sentenza impugnata, nel suo nucleo essenziale recita: "... anche effettuando un calcolo sommario, pare non equilibrato il rapporto economico tra le vendite e gli acquisti di immobili avvenuti nel periodo in esame specie con l’esborso consistente per 1.520/milioni. Tali perplessità emergono dal fatto che anche con il supporto della moglie, sulla base della documentazione economica esistente in atti, non è possibile rilevare la fonte reddituale che aveva permesso la compravendita dell'immobile senza dover utilizzare altri finanziamenti, quindi resta non definita l'effettiva consistenza economica dei ricorrenti.
Il Collegio giudicante ritiene, comunque, di dover decidere pur nell’incertezza della documentazione e dell'effettiva capacità economica dei contribuente, in analogia a quanto era stato fatto dai primi giudici di accogliere quanto era stato giudicato e pertanto, non avendo documentazione diversa si ritiene di confermare la precedente decisione".
La ricorrente Agenzia, con il primo motivo del ricorso principale, censura la decisione, nella prospettiva di cui all'art. 360, comma 1 n. 5, c.p.c., per contraddittorietà.
Con il secondo (subordinato) motivo, l'Agenzia denuncia violazione di legge, in particolare in relazione alla previsione di cui agli artt. 2 e 35, comma 3, d.lgs. 546, per non aver la commissione regionale considerato che, nella situazione data, il giudice tributario, quale giudice del rapporto (oltre che giudice dell'atto), non avrebbe dovuto limitarsi all'annullamento dell'accertamento, ma avrebbe dovuto procedere a determinare l’esatta misura del maggior reddito riferibile ai contribuenti.
Con l'unico motivo di ricorso incidentale condizionato, i contribuenti - deducendo violazione di legge, in relazione agli artt. 329, cpv., e 346 c.p.c. nonché 56 d.lgs. 546/1992 e 38, comma 4, d.p.r. 600/1973 - censurano la decisione impugnata per non aver rilevato il giudicato interno, formatosi, per acquiescenza, a causa della mancata impugnazione, da parte dell'Agenzia, dell'autonoma ratio della decisione di primo grado fondata sull'illegittimità dell'accertamento per mancanza di prova in merito al fatto che lo scostamento tra reddito presunto e reddito accertato si fosse verificato per più di un solo periodo d'imposta.
Il primo motivo del ricorso principale è fondato
La motivazione della decisione impugnata si rivela, invero, palesemente contraddittoria, giacché dal presupposto dell'inidoneità dei disinvestimenti effettuati e dell'apporto degli introiti della moglie a giustificare l'ingente spesa connessa ai riscontarti incrementi patrimoniali, anziché trarre la conclusione della legittimità (totale o, almeno, parziale) dell'accertamento, trae, invece, quella della sua infondatezza.
La fondatezza del primo motivo del ricorso principale, mentre esime dall'esame del secondo (solo subordinatamente proposto), comporta la necessità di delibare il ricorso incidentale dei ricorrenti, peraltro investente questione logicamente prioritaria.
Tale doglianza è, a sua volta, fondata, posto che dall'esame degli atti, consentito in questa sede in funzione della natura della censura emerge che, effettivamente, la decisione di primo grado recava un'autonoma ratio decidendi, basata sul presupposto dell'assenza di prova in merito alla circostanza che lo scostamento tra reddito presunto e reddito accertato si fosse verificato per più di un solo periodo d'imposta, non investita dall'appello dell'Agenzia e che, pertanto, ha dato luogo a giudicato interno non rilevato dal giudice di appello nonostante specifica eccezione degli appellati.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, s'impone l'accoglimento del ricorso incidentale dei contribuenti, con assorbimento di quello principale dell'Agenzia.
La sentenza impugnata va, dunque cassata senza rinvio, posto che, per il riscontrato giudicato interno, il processo di appello non poteva, ai sensi dell'art. 382, comma 3 ultima parte, essere proseguito.
Le spese del giudizio, compensate quanto al primo grado, vanno, in appello e nel presente giudizio di legittimità poste a carico dell'Agenzia soccombente, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso incidentale e dichiara assorbito quello principale; cassa senza rinvio la sentenza impugnata; compensa le spese del giudizio di primo grado e condanna l'Agenzia a rivalere i contribuenti delle spese dei giudizi di appello e di legittimità, liquidate, quanto al giudizio di appello, in complessivi e 1.500,00 e, quanto al giudizio di legittimità, in complessivi € 3.500,00, in entrambi i casi oltre spese forfettarie, nella misura del 15%, ed accessori dì legge.
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lunedì 27 giugno 2016
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 20 aprile – 23 maggio 2016, n. 10624
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 20 aprile – 23 maggio 2016, n. 10624
Presidente Mazzacane – Relatore Scarpa
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 29.9.2005 B.P. conveniva M.L.P. davanti al Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Dolo, esponendo di essere proprietaria di un immobile facente parte di un edificio bifamiliare sito in Oriago di Mira e che per accedere ai rispettivi garage occorreva transitare attraverso uno spazio comune ai proprietari delle due unità immobiliari. In tale spazio comune era stata eretta da essa ricorrente una tettoia sotto la quale parcheggiava le sue due autovetture. Sosteneva la ricorrente che M.L.P. aveva iniziato a parcheggiare la sua autovettura in modo da impedirle di accedere e di uscire dallo spazio sotto la tettoia. B.P. chiedeva, pertanto, che fosse ordinato alla P. di reintegrarla nel possesso dei due posti auto sotto la tettoia, inibendole di parcheggiare l’auto con modalità tali da impedire l’ingresso e l’uscita delle sue due autovetture. La ricorrente chiedeva anche la condanna della P. al risarcimento dei danni. Il Tribunale con sentenza del 17.6.2008 rigettava il ricorso, ritenendo che non fosse stato provato il possesso esclusivo da parte della P. dei posti auto sotto la tettoia. Avverso la sentenza di
primo grado B.P. proponeva appello e la Corte d’Appello di Venezia, con sentenza n. 250/2011 del 16/02/2011, accoglieva il gravame, ordinando a M.L.P. di astenersi dal parcheggiare in modo da impedire l’uscita dai posti auto che si trovano nello spazio comune sotto la tettoia. La Corte di Venezia affermava che, pur non potendosi ritenere pienamente provato il possesso esclusivo da parte della P. dei due posti auto sotto la tettoia (avendo alcun informatori riferito che vi parcheggiava anche la P.), era stato invece dimostrato che la P., quando entrambi i posti sotto la tettoia erano occupati, parcheggiava la sua auto sullo spazio scoperto in maniera da impedire la manovra di uscita ai veicoli posti nello spazio coperto.
M.L.P. ha proposto ricorso articolato in tre motivi. B.P. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso deduce violazione degli artt. 1170 e 1102 c.c. Si sostiene che non fosse stata raggiunta la prova del possesso esclusivo da parte della P. dei posti auto sotto la tettoia. Unico dato acquisito è il compossesso dell’area comune dove vengono parcheggiate le auto. L’errore della Corte di Venezia sarebbe consistito nell’aver ritenuto come lesione del possesso il parcheggio da parte della ricorrente in una zona di uso comune, non avendo rilievo che tale parcheggioconsista nel porre l’autovettura dietro quelle già sistemate sotto la tettoia.
Il secondo motivo censura ancora una violazione dell’art. 1102 c.c. Viene lamentato che non può sussistere turbativa del possesso ove un compossessore si limiti ad utilizzare la cosa comune per esercitare la propria facoltà di parcheggiare l’autovettura senza limitare il diritto altrui.
Il terzo motivo di ricorso allega l’insufficienza e contraddittorietà della motivazione della sentenza d’appello sotto il profilo dell’elemento soggettivo della turbativa ex art. 1170 c.c. (cd. animus turbandi).
Il quarto motivo critica l’insufficienza e contraddittorietà della motivazione in relazione all’onere probatorio ex art. 2697 c.c., sempre con riguardo alla prova dell’elemento soggettivo dell’azione di mantuenzione.
I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione e risultano infondati.
Va premesso che dalla sentenza impugnata risulta che B.P. avesse proposto un’azione di spoglio per la reintegra nel possesso dei due posti auto sotto la tettoia, laddove la Corte d’Appello di Venezia ha ravvisato una molestia possessoria nella circostanza che la P. parcheggiasse la sua autovettura in maniera da impedire l’entrata e l’uscita dai posti auto siti sotto la tettoiastessa. L’aver disposto la cessazione della turbativa anziché la reintegrazione nel possesso rientra nell’esercizio del potere di interpretazione della domanda spettante al giudice, senza aver con ciò, peraltro, mutato gli elementi obiettivi fissati dalla P., dato che la mera turbativa costituisce un “minus” rispetto allo spoglio e nella domanda di reintegrazione nel possesso è ricompresa o implicita quella di manutenzione dello stesso (cfr. Cass. 1111112011, n. 23718).
Nella giurisprudenza di questa Corte, si intende che la disposizione dell’art. 1102 comma 2, c.c., secondo la quale il partecipante alla comunione non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso, impedisce al compossessore, che abbia utilizzato la cosa comune oltre i limiti della propria quota, non solo l’usucapione ma anche la tutela possessoria del potere di fatto esercitato fino a quando questo non si riveli incompatibile con l’altrui possesso (Cass. 25/11/1995, n. 12231). Le concrete modalità di godimento della cosa comune, desumibili dall’art. 1102 c.c., assurgono, dunque, a possibile contenuto di una posizione possessoria tutelabile contro tutte le attività con le quali uno dei compossessori comproprietari unilateralmente introduca una modificazione che sopprimao turbi il compossesso degli altri (Cass. 2110711988, n. 4733). In tal senso, la Corte d’Appello di Venezia, con soluzione non oggetto di espressa censura in questa sede, ha inteso verificare la legittimità del fatto denunciato dalla P., nei limiti in cui ciò sia consentito nel giudizio possessorio, alla luce dell’art. 1102 c.c., e cioè non con riguardo al possesso esclusivo dell’area coperta dalla tettoia, ma con riferimento al compossesso dell’intero spazio comune antistante le proprietà esclusive.
Il parcheggio di autovetture su di un’area può, del resto, certamente costituire legittima manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del suolo (Cass. 28/04/2004, n. 8137).
Ed allora, va ritenuto, sulla base di quanto accertato dalla Corte d’appello, che la P. avesse comunque provato quantomeno un compossesso dell’area di sosta comune, nonché una concreta modalità di godimento della stessa, peraltro non incompatibile col paritario possesso della P., consistente nel parcheggiare le proprie autovetture al di sotto della tettoia. Tale modalità di godimento della cosa comune è tutelabile contro le attività della P., compossessore comproprietaria, la quale, parcheggiando la propria autovettura in maniera da bloccare l’accesso o l’uscita dei veicoli dall’area coperta della tettoia, unilateralmenteturba il compossesso della P.. L’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto, ai sensi dell’art. 1102 c.c. (pur essendo, in sede di azione di spoglio o manutenzione, le relative ragioni petitorie invocabili soltanto ad colorandam possessionem); al duplice divieto di alterarne la destinazione e di impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa stessa secondo il loro diritto. Pertanto, deve considerarsi che la condotta del comproprietario, consistente nell’occupazione – mediante il parcheggio della propria autovettura – di una porzione del cortile comune in modo da impedire ad altro comproprietario di fare accesso o di uscire dalla rispettiva area di sosta, configura un abuso (ovvero, nella specie, una turbativa del possesso), poiché preclude agli altri comproprietari (e compossessori) di partecipare all’utilizzo dello spazio comune, ostacolandone il libero e pacifico godimento ed alterando l’equilibrio tra le concorrenti ed analoghe facoltà (cfr. Cass. 24/02/2004, n. 3640).
Sono altresì infondati il terzo ed il quarto motivo di ricorso, anch’essi da esaminare congiuntamente, in quanto entrambi inerenti alla sussistenza dell’elemento soggettivo della molestia possessoria.
Va premesso che la dedotta insussistenza dell’animus turbandi in capo alla P. è questione di cuinon vi è cenno nella sentenza impugnata, sicché la parte ricorrente, per escludere che la stessa venisse intesa come censura nuova, e perciò inammissibile, avrebbe dovuto allegare l’avvenuta deduzione di tale questione innanzi al giudice di merito, nonché indicare in quale specifico atto del giudizio precedente vi avesse fatto riferimento. L’accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo, ai fini della configurabilità della molestia possessoria, costituisce, del resto, un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione logica e sufficiente. Va comunque detto che la Corte di Venezia ha accertato come la condotta molestatrice della P. fosse stata non isolata, né episodica, essendo durata circa un anno; e che la stessa Corte di merito ha anche escluso che esistesse un esplicito accordo tra le parti, nel senso che l’attuale ricorrente avrebbe lasciato le chiavi della sua auto all’interno della stessa o nel vano caldaia comune per consentirne lo spostamento, ove di ostacolo ai veicoli della P.. Ai fini della configurabilità della molestia possessoria, allora, basta la volontarietà del fatto che determina la diminuzione del godimento del bene da parte del possessore, nonché la consapevolezza che esso è oggettivamente idoneo a modificarne o limitarnel’esercizio, non occorrendo che sia dimostrato il perseguimento, da parte dell’agente, del fine specifico di molestare il soggetto passivo, né la consapevolezza dell’autore dell’aggressione di aver violato la norma posta a tutela del pieno e libero esercizio del possesso (cfr. Cass. 01/12/2000, n. 15381; e di recente Cass. 07/01/2016, n. 107).
Consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di cassazione vengono regolate secondo soccombenza e liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrenti le spese sostenute in questo giudizio, che liquida in complessivi € 2.200,00 , di cui € 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
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Parcheggiare nell’area comune è turbativa del possesso: sentenza N.10624/16
Parcheggiare nell'area comune impedendo l’accesso agli altri comproprietari è turbativa del possesso.
Il comportamento del condomino che occupa una parte del cortile comune posteggiandovi al propria autovettura in modo tale da impedire ad altri di accedere o uscire dalla rispettiva area di sosta costituisce turbativa di possesso.
Questo quanto stabilito dalla Seconda sezione civile della Suprema corte con sentenza numero 10624/16; in detta sentenza viene evidenziato come l'uso della cosa comune da parte di ciascun condomino sia soggetto, ai sensi dell'articolo 1102 del codice civile, al duplice divieto di alterarne la destinazione d’uso e di impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa stessa secondo il loro diritto.
Pertanto occupare, mediante il parcheggio della propria autovettura, una porzione del cortile comune in modo tale da impedire ad altro comproprietario di accedere od uscire dalla rispettiva area di sosta configura un abuso, nella fattispecie una turbativa del possesso, in quanto “impedisce agli altri comproprietari di partecipare all'utilizzo dello spazio comune, ostacolandone il libero e pacifico godimento ed andando ad alterare l'equilibrio originario esistente tra le concorrenti ed analoghe facoltà”.
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SHOCK Amministratori di condominio: qualcosa non torna!
In un recente articolo su “Il Sole 24 Ore”, datato 1/6/2016, si sono analizzate le dichiarazioni dei redditi dei professionisti per l’anno 2015, confrontando i dati e le variazioni dal 2014/2013 (Fonte MEF).
Tra i professionisti che hanno avuto il maggior calo del reddito dichiarato ci sono i Laboratori di analisi cliniche con un meno 24,80% e gli amministratori di condominio con uno sconfortante secondo posto a meno 10,80%.
Ma, leggendo i numeri, la domanda sorge spontanea: come è possibile che siano 10.626 gli amministratori di condominio che hanno fatto la propria dichiarazione dei redditi?
E’ bene infatti ricordare come da alcuni studi sui numeri relativi agli amministratori esistenti sul territorio nazionale, gli amministratori che gestiscono almeno uno stabile siano circa 250.000 mentre, così come risulta dai codici fiscali attribuiti agli stabili in condominio, emersi dai modelli 770 che ogni condominio è obbligato a presentare all’Agenzia delle Entrate, gli amministratori che gestiscono più stabili, circa 35.000 siano gli amministratori di condominio che esercitano l’attività in maniera professionale.
E’ bene infatti ricordare come da alcuni studi sui numeri relativi agli amministratori esistenti sul territorio nazionale, gli amministratori che gestiscono almeno uno stabile siano circa 250.000 mentre, così come risulta dai codici fiscali attribuiti agli stabili in condominio, emersi dai modelli 770 che ogni condominio è obbligato a presentare all’Agenzia delle Entrate, gli amministratori che gestiscono più stabili, circa 35.000 siano gli amministratori di condominio che esercitano l’attività in maniera professionale.
ANACI ha, unica tra tutte le associazioni di categoria, un bilancio certificato da una primaria Società di Revisione e recentemente ha pubblicato il dato ufficiale di 8.395 iscritti alla data del 31/12/2015.
I conti non tornano, è evidente e la trasparenza e cristallinità nei confronti del fisco, a quanto pare, è lontana dal venire!
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DISTRUGGERE NIDI DI RONDINE E’ REATO PENALE
Spesso capita come in occasione di cantieri o dell’esecuzione di lavori di manutenzione al condominio venga chiesto e proposto di eliminare i nidi delle rondini presenti nell’edificio.
E’ bene ricordare come le rondini, i loro nidi, le uova ed i nidiacei siano protetti dalla legge nr. 157/92 e dall’articolo 635 del codice penale che ne vieta l’uccisione e la distruzione.
Eventuali segnalazioni in merito alla distruzione, o al tentativo di distruggere i nidi delle rondini vanno fatte al Corpo Forestale dello Stato chiamando il numero 1515.
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ESATTA DEFINIZIONE DI LAVORO STRAORDINARIO: Sentenza 132 del 6/6/2016
SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE IN MERITO ALLA ESATTA DEFINIZIONE DI STRAORDINARIO
La Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 132 depositata il 6 giugno 2016, ribadisce che il lavoro straordinario prestato in un giorno festivo è solo quello che eccede il normale orario di servizio giornaliero e non l'orario settimanale.
Questa interpretazione fornita dall'art. 1, comma 476 della Legge n. 147/2013 (Stabilità 2014) con riferimento all'art. 10, comma 3, del DPR 11 settembre 2007, n. 170, e all'articolo 11, comma 8, del DPR 13 giugno 2002, n. 163, trova applicazione anche per il passato.
Sentenza N. 132 del 6 giugno 2016: definizione di lavoro straordinario
SENTENZA N. 132
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 476, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2014), promosso dal Consiglio di Stato, quarta sezione giurisdizionale, nel procedimento vertente tra Sgrò David ed altri e il Ministero della giustizia, con ordinanza del 27 aprile 2015, iscritta al n. 197 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2016 il Giudice relatore Giulio Prosperetti.
Ritenuto in fatto
1.– Il Consiglio di Stato, quarta sezione giurisdizionale, con ordinanza del 27 aprile 2015, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 476, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2014), che così dispone: «L’articolo 10, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 11 settembre 2007, n. 170, e l’articolo 11, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 2002, n. 163, si interpretano nel senso che la prestazione lavorativa resa nel giorno destinato al riposo settimanale o nel festivo infrasettimanale non dà diritto a retribuzione a titolo di lavoro straordinario se non per le ore eccedenti l’ordinario turno di servizio giornaliero. Sono fatti salvi gli effetti delle sentenze passate in giudicato alla data di entrata in vigore della presente legge».
2.– Il giudice a quo ha riferito che i ricorrenti, tutti agenti del Corpo di polizia penitenziaria, per periodi di tempo più o meno lunghi tra il 2004 ed il 2012 avevano prestato attività lavorativa in giorni festivi o da destinare al riposo settimanale ed avevano chiesto, con trentasei separati ricorsi, al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia il compenso per le ore di straordinario prestate, nonché il risarcimento del danno da usura psicofisica patito ovvero, in via subordinata, la determinazione di una indennità supplementare, dovuta in base agli accordi sindacali di categoria.
3.– Secondo quanto evidenziato dal giudice rimettente le pretese avanzate in via principale in primo grado dai ricorrenti traevano sostegno da un indirizzo interpretativo del Consiglio di Stato, in base al quale il disagio subito per aver prestato attività lavorativa in una giornata deputata al riposo settimanale non è sufficientemente compensato dalla speciale indennità prevista dalla contrattazione collettiva e recepita con decreti del Presidente della Repubblica (in particolare quantificata dall’art. 10, comma 3, del d.P.R. 11 settembre 2007, n. 170, recante «Recepimento dell’accordo sindacale e del provvedimento di concertazione per il personale non dirigente delle Forze di polizia ad ordinamento civile e militare – quadriennio normativo 2006-2009 e biennio economico 2006-2007» in euro 5 all’ora, elevato ad euro 8 all’ora dall’art. 15, comma 4, del d.P.R. 16 aprile 2009, n. 51, recante «Recepimento dell’accordo sindacale per le Forze di polizia ad ordinamento civile e del provvedimento di concertazione per le Forze di polizia ad ordinamento militare, integrativo del decreto del Presidente della Repubblica 11 settembre 2007, n. 170, relativo al quadriennio normativo 2006-2009 e al biennio economico 2006-2007») che, in base all’espresso dato normativo, serve a compensare la sola ordinaria prestazione di lavoro giornaliero e non assorbe il compenso dovuto per il lavoro straordinario. Ad avviso del Consiglio di Stato il computo di quest’ultimo deve essere effettuato facendo riferimento alle ore eccedenti l’orario di servizio di 36 ore lavorative settimanali, di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 170 del 2007 (cosiddetto criterio di computo “orizzontale”) e non all’eccedenza oraria del solo giorno di riferimento (cosiddetto criterio di computo “verticale”) e l’istituto non va confuso con il “riposo recupero” di cui all’art. 11, comma 5, della legge 15 dicembre 1990, n. 395 (Ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria) – che spetta in ogni caso poiché serve a far recuperare al lavoratore il riposo settimanale di cui non ha fruito – e con il “riposo compensativo”, previsto dagli accordi sindacali quale modalità, alternativa alla monetizzazione, di compensazione del lavoro straordinario.
4.– Il TAR Lombardia, presso cui erano stati incardinati i giudizi di primo grado, aveva rigettato le pretese di pagamento dei ricorrenti, discostandosi dall’indirizzo interpretativo del Consiglio di Stato ritenuto incompatibile con quello espresso dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con la sentenza 6 ottobre 1998, n. 9895, per cui il lavoro prestato il settimo giorno consecutivo, quando è rispettata la cadenza di un giorno di riposo settimanale, non è ontologicamente qualificabile come lavoro straordinario. Pertanto il TAR aveva concluso che, allo svolgimento del normale orario di lavoro nel giorno festivo, deve far seguito un giorno di recupero, rimanendo impregiudicata la questione, da risolvere in sede di contrattazione collettiva, circa l’entità della retribuzione supplementare che compensa la “penosità” del lavoro prestato in una giornata generalmente destinata al riposo.
5.– In secondo grado si era costituito il Ministero della giustizia chiedendo il rigetto degli appelli e la conferma delle sentenze impugnate sulla base della intervenuta norma, sospettata di incostituzionalità, che interpretava le disposizioni dei decreti di recepimento della contrattazione collettiva nel senso ritenuto dal TAR Lombardia.
6.– Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione alla Corte ribadendo il proprio precedente orientamento in ordine al computo dello straordinario e ritenendo l’illegittimità costituzionale dello ius superveniens; sotto il profilo della rilevanza ha segnalato che la portata retroattiva della norma, che si autodefinisce interpretativa, ne avrebbe comportato l’applicazione nel giudizio a quo, con conseguente reiezione delle pretese attoree da ritenersi, viceversa, fondate in base all’orientamento fino ad allora seguito dallo stesso giudice rimettente.
7.– In ordine al presupposto della non manifesta infondatezza, il giudice a quo ha denunciato la portata innovativa e non interpretativa della norma impugnata poiché essa è intervenuta su disposizioni aventi ad oggetto la disciplina della indennità da lavoro festivo e avrebbe introdotto una disposizione nuova, relativa alla modalità per il calcolo del lavoro straordinario, non ricavabile in alcun modo dalla lettura del testo originario.
8.– Il carattere dichiaratamente retroattivo della previsione, derivante dal suo autoqualificarsi norma interpretativa, comporterebbe, ad avviso del giudice a quo, la violazione dell’art. 3 Cost. poiché la portata retroattiva di una norma, quando non sia riconducibile alla natura interpretativa di essa, deve essere sorretta da un’adeguata indicazione di motivi imperativi di interesse generale che ne giustifichino l’adozione.
9.– Nella specie il motivo imperativo di interesse generale non può essere ricondotto, secondo l’ordinanza di rimessione, alla mera volontà di evitare un ingente esborso per le casse pubbliche, derivante dall’esito sfavorevole per la pubblica amministrazione del contenzioso in base all’orientamento espresso dal Consiglio di Stato, così che l’effetto retroattivo della disposizione, che opera una consistente limitazione del diritto alla retribuzione equa e proporzionata, tutelato a livello costituzionale dall’art. 36 Cost., risulta privo di ragionevole ed adeguata giustificazione.
10.– Un ulteriore profilo di illegittimità è stato individuato dal giudice a quo nella violazione dell’art. 6 della CEDU le cui disposizioni, nell’interpretazione loro attribuita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, integrano, per costante giurisprudenza costituzionale, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, nella parte in cui impone al legislatore di conformarsi ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
11.– In particolare, tale obbligo non sarebbe stato rispettato poiché i principi di preminenza del diritto e del processo equo, consacrati nell’art. 6 della CEDU e alla cui logica risponde la preclusione ad adottare norme retroattive idonee a condizionare le situazioni processuali in corso, possono essere incisi solo in presenza di ragioni imperative di interesse generale che risultano assenti nella fattispecie all’esame.
12.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato deducendo l’infondatezza della questione e la legittimità della norma impugnata, la cui adozione sarebbe ragionevole poiché volta a dirimere il dibattito sviluppatosi in seno alla giurisprudenza amministrativa tra quella di primo grado e quella di secondo grado nel senso innanzi indicato.
13.– La natura interpretativa della norma in questione, d’altronde, sarebbe confermata, a parere della difesa statale, dal tenore letterale dell’art. 10 del d.P.R. n. 170 del 2007 (norma generale per il personale di tutte le Forze di polizia), che, nel caso di attività lavorativa prestata in giorno destinato al riposo settimanale ovvero nel festivo infrasettimanale, mantiene fermo il diritto al recupero e precisa che l’indennità da corrispondere al lavoratore compensa la sola ordinaria prestazione di lavoro giornaliero. Quest’ultimo riferimento renderebbe controversa la questione della modalità di calcolo dell’orario di lavoro per il riconoscimento del diritto al pagamento della retribuzione per il lavoro straordinario. La disposizione censurata sarebbe, dunque, opportunamente intervenuta per chiarire il dettato normativo, operando, peraltro, in maniera coerente con la restante regolamentazione della materia e, in particolare, con la previsione dell’art. 11 della legge n. 395 del 1990. Quest’ultimo, infatti, con riferimento al personale del Corpo di polizia penitenziaria distingue il monte orario settimanale, specificamente menzionato al comma 1 e ripartito in turnazioni giornaliere, dall’attività che dà diritto al compenso per lavoro straordinario che, al comma 2, viene individuata in quella prestata “in eccedenza all’orario” da intendersi riferito ad un orario diverso da quello menzionato al comma 1 e coincidente con quello di servizio giornaliero.
14.– Altresì infondati, a parere dell’Avvocatura generale dello Stato, sarebbero i profili relativi all’art. 36 Cost., dovendo l’equità e la proporzione della retribuzione essere valutate globalmente, e all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, essendosi registrato un notevole contrasto nell’ambito della giurisprudenza amministrativa, il cui orientamento non è affatto consolidato, che legittima l’intervento normativo effettuato per dirimere l’incertezza interpretativa senza interferire nell’amministrazione della giustizia salvaguardata dall’irretrattabilità dei giudicati già formatisi.
Considerato in diritto
1.– Il Consiglio di Stato, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 476, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2014).
Detta norma dispone che l’art. 10, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 11 settembre 2007, n. 170, recante «Recepimento dell’accordo sindacale e del provvedimento di concertazione per il personale non dirigente delle Forze di polizia ad ordinamento civile e militare – quadriennio normativo 2006-2009 e biennio economico 2006-2007», e l’art. 11, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 2002, n. 163, recante «Recepimento dello schema di concertazione per le Forze armate relativo al quadriennio normativo 2002-2005 ed al biennio economico 2002-2003», che recepiscono gli accordi sindacali di due successivi quadrienni relativi al personale delle forze di polizia «si interpretano nel senso che la prestazione lavorativa resa nel giorno destinato al riposo settimanale o nel festivo infrasettimanale non dà diritto a retribuzione a titolo di lavoro straordinario se non per le ore eccedenti l’ordinario turno di servizio giornaliero. Sono fatti salvi gli effetti delle sentenze passate in giudicato alla data di entrata in vigore della presente legge».
Le norme regolamentari, di origine contrattuale, cui si riferisce la suddetta disposizione di interpretazione autentica prevedono con identica formulazione che «Fermo restando il diritto al recupero, al personale che per sopravvenute inderogabili esigenze di servizio sia chiamato dall’amministrazione a prestare servizio nel giorno destinato al riposo settimanale o nel festivo infrasettimanale è corrisposta un’indennità di € 5,00 [successivamente aumentata ad € 8,00] a compensazione della sola ordinaria prestazione di lavoro giornaliero» (art. 10, comma 3, del d.P.R. n. 170 del 2007 e art. 11, comma 8, del d.P.R. n. 163 del 2002). Inoltre, l’art. 11 comma 3, secondo periodo, del d.P.R. 163 del 2002, dispone che «Le ore eccedenti l’orario di lavoro settimanale che non siano state retribuite devono essere recuperate mediante riposo compensativo entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui sono state effettuate, tenendo presenti le richieste del personale e fatte salve le improrogabili esigenze di servizio».
2.– In proposito, il giudice rimettente ritiene che alla disposizione in esame non possa essere attribuita natura interpretativa con la conseguente portata retroattiva, in quanto la definizione del criterio di computo del lavoro straordinario festivo (oggetto della norma interpretativa) avrebbe carattere innovativo, incidendo su istituti giuridici diversi, quali il riposo recupero e il diritto all’indennità compensativa del lavoro giornaliero (oggetto delle norme interpretate).
Inoltre, il rimettente ritiene che la norma censurata violerebbe i menzionati parametri costituzionali per contrasto col principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) con riferimento all’art. 36 Cost., in quanto la sua retroattività, non adeguatamente supportata da una evidente giustificazione, inciderebbe in maniera irragionevole sul diritto ad una retribuzione equa e proporzionata al lavoro svolto.
3.– Il Consiglio di Stato ritiene, difatti, che il disagio subito dal lavoratore, per aver prestato attività lavorativa in una giornata deputata al riposo settimanale, non è sufficientemente compensato dalla speciale indennità prevista dalla contrattazione collettiva come recepita dal d.P.R. 11 settembre 2007, n. 170 e dal d.P.R. 13 giugno 2002, n. 163. Il lavoro festivo, infatti, secondo il giudice a quo, dovrebbe essere compensato quale lavoro straordinario (che si aggiunge all’indennità per lavoro festivo) per l’attività prestata nel giorno ordinariamente destinato al riposo settimanale, tutte le volte che è stato superato l’orario normale di 36 ore settimanali.
4.– La questione non è fondata.
Il Consiglio di Stato ha inteso compensare, qualificandolo come straordinario, quel lavoro festivo non recuperato con un ulteriore giorno di riposo (che nella specie, secondo la normativa collettiva recepita nell’art. 10, comma 4, del d.P.R. n. 170 del 2007, poteva essere fruito nelle quattro settimane successive). Il problema interpretativo consisteva pertanto nello stabilire se il lavoro svolto in giorno festivo andasse retribuito quale straordinario con il superamento su base settimanale delle 36 ore, a prescindere dalla fruizione del riposo recupero.
La norma interpretativa interviene sugli artt. 10 del d.P.R. n. 170 del 2007 e 11 del d.P.R. n. 163 del 2002 che regolano l’orario di lavoro del personale delle forze di polizia e che determinano l’orario settimanale in 36 ore.
Le disposizioni oggetto dell’interpretazione, cioè il comma 3 dell’art. 10 del d.P.R. n. 170 del 2007 e il comma 8 dell’art. 11 del d.P.R. n. 163 del 2002, disciplinano i benefici connessi all’attività prestata nei giorni deputati al riposo settimanale o nel giorno festivo infrasettimanale, prevedendo il diritto al recupero e alla corresponsione di un’indennità, a compensazione della sola ordinaria prestazione di lavoro giornaliero.
In tali norme, oggetto dell’intervento interpretativo, non viene espressamente menzionato il lavoro straordinario, come rilevato dall’ordinanza di rimessione, ma, essendo previsto il compenso per la sola prestazione ordinaria, il lavoro straordinario viene evocato proprio in quanto escluso.
5.– Il trattamento da riservare alle ore di lavoro prestate oltre l’orario ordinario era suscettibile di una duplice possibilità interpretativa: facendo riferimento alla durata dell’orario di lavoro di 36 ore settimanali di cui al comma 1 dei suddetti articoli, il parametro di computo delle ore di straordinario sarebbe stato settimanale, mentre, valorizzando il termine «giornaliero», utilizzato dai commi 3 e 8, rispettivamente, degli artt. 10 e 11 suindicati, il parametro dell’orario risulterebbe riferito solo alle ore eccedenti il servizio prestato nella giornata festiva.
L’intervento legislativo ha, quindi, una reale portata interpretativa, avendo esso avuto il compito di dirimere un’incertezza (si veda Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 7 giugno 2011, n. 12318) e di fissare uno dei possibili significati da attribuire alla norma originaria, e cioè che il lavoro straordinario prestato in giorno festivo è solo quello che eccede il normale orario di servizio giornaliero e non l’orario settimanale.
6.– Questa Corte si è ripetutamente espressa nel senso che «va riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo» (sentenza n. 424 del 1993). Ed ha chiarito che «il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore» (ex plurimis: sentenze n. 314 del 2013, n. 15 del 2012, n. 271 del 2011, n. 209 del 2010).
Inoltre, questa Corte ha anche più volte affermato che il divieto di retroattività della legge, pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica, non è stato elevato a dignità costituzionale (salvo la previsione dell’art. 25 Cost. per la materia penale) per cui, allorquando «una norma di natura interpretativa persegua lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore», non è precluso al legislatore di emanare norme retroattive (sentenza n. 150 del 2015).
D’altronde, la questione, come rilevato da questa Corte nelle più recenti sentenze rese in materia, non è tanto quella di verificare se la norma censurata abbia carattere effettivamente interpretativo e sia perciò retroattiva ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva, bensì di accertare se la retroattività della legge trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e sia, altresì, sostenuta da adeguati motivi di interesse generale (ex multis, sentenze n. 69 del 2014 e n. 264 del 2012).
7.– La disposizione interpretativa, nel caso in questione, appare coerente con l’assetto complessivamente dato alla regolazione del lavoro festivo nel settore in esame, secondo la disciplina collettiva recepita nei citati decreti. Al riguardo occorre del resto evidenziare che la specificità del settore in esame è stata tenuta presente dal legislatore laddove, con l’art. 2, comma 2, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), ha disposto che nell’ambito, tra l’altro, delle strutture penitenziarie e di quelle destinate per finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica, le disposizioni contenute nel decreto stesso non trovano applicazione in presenza di particolari esigenze inerenti al servizio espletato come individuate con apposito decreto interministeriale.
L’assetto normativo in esame si fonda sulla previsione (accanto all’indennità per la maggiore penosità del lavoro svolto in un giorno deputato al riposo settimanale o nel festivo infrasettimanale) del diritto al recupero del giorno di riposo entro il periodo previsto dalla contrattazione collettiva.
Va evidenziato, peraltro, che l’eventuale mancato rispetto del giorno di riposo non è oggetto del presente giudizio, mentre il lavoro straordinario, ove non retribuito, dà diritto ad un riposo compensativo.
Tale quadro regolatorio appare coerente con l’ordinamento, che consente l’alternatività tra la compensazione e la monetizzazione del lavoro straordinario, fermo il diritto al recupero del giorno di riposo come previsto dalla normativa collettiva.
8.– Relativamente al richiamo dell’art. 36 Cost. effettuato dal rimettente, questa Corte osserva che tale diposizione è stata menzionata non come parametro direttamente violato, ma solo quale elemento funzionale al sindacato di ragionevolezza. Resta, pertanto, assorbito il suo esame in merito al profilo dell’adeguatezza della retribuzione.
9.– Venendo, quindi, alla questione di illegittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. nella parte in cui impone al legislatore di conformarsi ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, il Consiglio di Stato ritiene che tale obbligo non sarebbe stato rispettato poiché il principio di preminenza del diritto e quello del processo equo, consacrati nell’art. 6 della CEDU, sarebbero stati incisi dalla norma retroattiva censurata, idonea a condizionare le situazioni processuali in corso.
Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo è precluso, infatti, al legislatore di interferire nella determinazione giudiziaria di una controversia, tranne il caso in cui ricorrano impellenti motivi di interesse generale (sentenza 14 febbraio 2012, Arras ed altri contro Italia; sentenza 31 maggio 2011, Maggio ed altri contro Italia; sentenza 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia; sentenza 10 giugno 2008 Bortesi ed altri contro Italia;) che, con specifico riferimento alle norme nazionali interpretative, questa Corte, già con la sentenza n. 1 del 2011, ha affermato che possono essere identificati, tra l’altro, nella necessità di «ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore», al fine di «porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata» (in tal senso la sentenza della Corte richiama le seguenti pronunce della Corte EDU: sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society contro Regno Unito; sentenza 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas, OGEC Saint-Pie X e Blanche de Castille e altri contro Francia). Tale giurisprudenza è stata confermata in successive pronunce e da ultimo con sentenza n. 150 del 2015 che ha statuito che la norma censurata «avendo natura interpretativa, ha operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, limitandosi a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l'esercizio di tale potestà deve attenersi, definendo e delimitando la fattispecie normativa oggetto della medesima (sentenza n. 170 del 2008), proprio al fine di assicurare la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico (sentenza n. 209 del 2010)».
10.– Nella specie la corrispondenza della disposizione censurata al contenuto della disciplina originaria si giustifica in relazione al dato letterale e cioè al fatto che l’indennità per lavoro festivo compensa la sola ordinaria prestazione di lavoro giornaliero; la previsione risulta così coerente con l’assetto complessivo del trattamento retributivo del lavoro prestato in giornata festiva, il quale favorisce la fruizione del riposo compensativo rispetto alla monetizzazione della prestazione effettuata.
La preclusione posta dalla Corte europea, del resto, è correlata all’esigenza di tutela del legittimo affidamento ingenerato nei consociati, che nel caso in esame non può ritenersi effettivamente ricorrente, stante la riscontrata ambiguità di formulazione del dettato normativo.
11.– Di qui, pertanto, la non fondatezza anche della censura sollevata in riferimento all’art. 117 Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 476, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2014), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Consiglio di Stato con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 aprile 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giulio PROSPERETTI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2016.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
Assistenza in favore di persone con grave disabilità prive di sostegno familiare - Legge 22/6/2016, n.112
La legge 22/6/2016, n.112, che è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 146 del 24 giugno 2016 ed è entrata in vigore il giorno successivo, prevede anche misure relative alla residenzialità e al co-housing a favore delle persone con disabilità grave, che coinvolgono l’attività delle Cooperative di abitanti, le quali potranno offrire tutto il loro supporto in collaborazione con le Cooperative sociali, sanitarie e di lavoro e servizi.
Si riportano, pertanto, in appresso le norme di interesse per il settore abitativo.
Come noto, il provvedimento introduce misure di assistenza, cura e protezione in favore delle persone con "disabilità grave" prive di sostegno familiare, in quanto mancanti di entrambi i genitori o poiché gli stessi non sono in grado di fornire l'adeguato sostegno genitoriale, e agevola le erogazioni di soggetti privati e la costituzione di trust nonché di vincoli di destinazione di beni immobili e mobili registrati e di fondi speciali in favore di queste persone.
L’art. 3 istituisce il Fondo per l'assistenza alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con una dotazione di 90 milioni di euro per il 2016, di 38,3 milioni per il 2017 e di 56,1 milioni annui a decorrere dal 2018. Il Fondo è ripartito fra le Regioni con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del provvedimento in esame, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro della salute, previa intesa in sede di Conferenza unificata.
Lo stesso decreto stabilisce i requisiti per l'accesso alle misure di assistenza, cura e protezione a carico del Fondo. Le Regioni definiscono i criteri per l'erogazione dei finanziamenti, la verifica dell'attuazione dell'attività svolte e le ipotesi di revoca dei finanziamenti medesimi.
L’art. 4 fornisce indirizzi in tema di destinazione delle risorse del Fondo nazionale che saranno tra l’altro finalizzate a:
- attivare e potenziare programmi di intervento per il supporto alla domicialiarità in abitazioni o gruppi-appartamento che riproducano le condizioni abitative e relazionale della casa familiare e che tengano anche conto delle nuove tecnologie, al fine di impedire l’isolamento delle persone disabili;
- realizzare, ove necessario e comunque in via residuale, nell’interesse delle persone stesse, interventi per la permanenza temporanea in una soluzione abitativa extrafamiliare per far fronte ad eventuali situazioni di emergenza;
- realizzare interventi innovativi di residenzialità per le persone con disabilità grave volti alla creazione di soluzioni alloggiative di tipo familiare e di co-housing, che possono comprendere il pagamento degli oneri di acquisto, di locazione, di ristrutturazione di messa in opera degli impianti e delle attrezzature necessari al funzionamento degli alloggi;
- sviluppare programmi di accrescimento della consapevolezza, di abilitazione e di sviluppo delle competenze per la gestione della vita quotidiana e per il raggiungimento del maggior livello di autonomia possibile da parte delle persone medesime.
Al finanziamento dei programmi e degli interventi possono concorrere le Regioni, gli enti locali, gli organismi del terzo settore nonché altri soggetti di diritto privato.
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LA TRASPARENZA DELLE QUALIFICHE PROFESSIONALI IN EUROPA
1. Gli Stati membri notificano alla Commissione un elenco delle professioni regolamentate specificando le attività contemplate da ogni professione e un elenco delle tipologie regolamentate di istruzione e formazione, e di formazione con una struttura particolare, di cui all'art.11, lettera C) punto II), nel loro territorio entro il 18 gennaio 2016. Le eventuali modifiche apportate a tali elenchi sono notificate senza indebito indugio alla Commissione. La Commissione sviluppa e tiene aggiornata una banca dati accessibile al pubblico delle professioni regolamentate, ivi compressa una descrizione generale delle attività che rientrano in ciascuna professione.
2. Entro il 18 gennaio 2016 gli Stati membri notificano alla Commissione l'elenco delle professioni per le quali è necessaria una verifica preliminare delle qualifiche ai sensi dell'art. 7 paragrafo 4. Gli Stati membri forniscono alla Commissione una giustificazione specifica per l'inserimento in tale elenco di ciascuna di queste professioni.
3. Gli Stati membri valutano se i requisiti stabiliti nel loro ordinamento giuridico per limitare l'accesso a una professione o il suo esercizio ai possessori di una specifica qualifica professionale, inclusi l'impiego di titoli professionali e le attività professionali autorizzate in base a tale titolo, indicati all'art. come requisiti, sono compatibili con i seguenti principi:
a) i requisiti non devono essere direttamente o indirettamente discriminatori sulla base della nazionalità o del luogo di residenza;
b) i requisiti devono essere giustificati da una motivo imperativo di interesse generale,
c) i requisiti devono essere tali da garantire il raggiungimento dell'obiettivo perseguito e non vanno al di la di quanto e necessario per raggiungere tale obiettivo.
4. il paragrafo 1 si applica inoltre alle professioni regolamentate di un o Stato membro da un'associazione o un'organizzazione ai sensi dell'art. 3, paragrafo 2 e agli eventuali requisiti in materia di adesione a tali organizzazioni o associazioni.
5. Entro il 18 gennaio 2016, gli Stati membri trasmettono alla Commissione le informazioni sui requisiti che intendono mantenere e sui motivi per ritenere detti requisiti conformi al disposto del paragrafo 3. Gli Stati membri trasmettono informazioni sui requisiti successivamente introdotti e sui motivi per ritenere detti requisiti Conformi al paragrafo 3 entro sei mesi dall'adozione della misura.
6. Entro il 18 gennaio 2016 e successivamente ogni due anni, gli Stati membri presentano una relazione concernente i requisiti che sono stati eliminati o resi meno rigidi.
7. La Commissione trasmette le relazioni di cui al paragrafo 6 agli altri Stati membri e questi presentano le loro osservazioni entro un termine di sei mesi. Durante questo periodo di sei mesi, la Commissione consulta le parti interessate, compresi i professionisti interessati.
8. La Commissione presenta una relazione di sintesi, basata sulle informazioni inviate dagli Stati membri, al gruppo di coordinatori istituito con la decisione 2007/172/CE della Commissione del 19 marzo 2007, che istituisce un gruppo di coordinatori per il riconoscimento delle qualifiche professionali che può formulare osservazioni in merito a detta relazione.
9. Alla luce delle osservazioni di cui al paragrafo 7 e 8 la Commissione presenta, entro il 18 gennaio 2017, le proprie conclusioni definitive al Parlamento Europeo e al Consiglio, eventualmente accompagnate da proposte di nuove iniziative.
- RICONOSCIMENTO QUALIFICHE PROFESSIONALI IN EUROPA
- LA TRASPARENZA DELLE QUALIFICHE PROFESSIONALI IN EUROPA
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- IL SISTEMA DI CERTIFICAZIONE DELLE COMPETENZE
- LE PROFESSIONI NON REGOLAMENTATE
- IL RUOLO DELL'AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO IN EUROPA
- IL SISTEMA NAZIONALE DI CERTIFICAZIONE DELLE COMPETENZE
- L'ALBO UNICO dei CONSULENTI FINANZIARI (Legge stabilità 28 dicembre 2015,n. 208)
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RICONOSCIMENTO QUALIFICHE PROFESSIONALI IN EUROPA
L'art. 59 della Direttiva europea 2005/36/CE (Con le modifiche della Direttiva 2013/55/UE) sul riconoscimento delle qualifiche professionali del 7 settembre 2005 assicurava la consultazione di esperti dei gruppi professionali interessati (con l'assistenza di un Comitato di riconoscimento delle qualifiche stesse) fornendo una relazione motivata. Tale nuovo articolo evidenziava diversi aspetti:
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IL RUOLO DELL'AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO IN EUROPA
Nel "Piano nazionale di riforma delle professioni" è il momento di inserire il ruolo dell'amministratore di condominio a tutela dei soggetti che gli attribuiscono l'incarico, affinché sia possibile verificare preventivamente il possesso dei requisiti stabiliti dall'art. 71 bis delle Disposizioni di attuazione del codice civile in applicazione del citato art. 3 D.lgs. 16 gennaio 2013, n. 13 (Sistema nazionale di certificazione delle competenze) ed assicurare trasparenza in materia di requisiti formativi previsti negli Stati membri come base di riconoscimento automatico per le professioni settoriali.
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IL SISTEMA NAZIONALE DI CERTIFICAZIONE DELLE COMPETENZE
1. ln linea con gli indirizzi dell'Unione europea, sono oggetto di individuazione e validazione e certificazione le competenze acquisite dalla persona in contesti formali, non formali o informali, il cui possesso risulti comprovabile attraverso riscontri e prove definiti nel rispetto delle linee guida di cui al comma 5.
2. L'ente titolato può individuare e validare ovvero certificare competenze riferite alle qualificazioni ricomprese, per i rispettivi ambiti di titolarità di cui all'articolo 2, Comma 1, lettera f), in repertori codificati a livello nazionale o regionale secondo i criteri di referenziazione al Quadro europeo delle qualificazioni, o a parti di qualificazioni fino al numero totale di competenze costituenti l'intera qualificazione. Fatto salvo quanto disposto dal presente decreto, per quanto riguarda le università si fa rinvio a quanto previsto dall'articolo 14, comma 2 della legge 30 dicembre 2010, n. 240.
3. Sono oggetto di certificazione unicamente le competenze riferite a qualificazioni di repertori ricompresi nel repertorio nazionale di cui all'articolo 8, fatto salvo quanto previsto all'articolo 11.
4. II sistema nazionale di certificazione delle competenze opera nel rispetto dei seguenti principi:
- l'individuazione e validazione e la certificazione delle competenze si fondano sull'esplicita richiesta della persona e sulla valorizzazione del suo patrimonio di esperienze di vita, di studio e di lavoro. Centralità della persona e volontarietà del processo richiedono la garanzia, per tutti i cittadini, dei principi di semplicità, accessibilità, trasparenza, oggettività, tracciabilità, riservatezza del servizio, correttezza metodologica, completezza, equità e non discriminazione;
- i documenti di validazione e i certificati rilasciati rispettivamente a conclusione dell'individuazione e validazione e della certificazione delle competenze costituiscono atti pubblici, fatto salvo il valore dei titoli di studio previsto dalla normativa vigente;
- gli enti pubblici titolari del sistema nazionale di certificazione delle competenze, nel regolamentare e organizzare i servizi ai sensi del presente decreto, operano in modo autonomo secondo il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale e nel rispetto dell'autonomia delle istituzioni scolastiche e delle università, organicamente nell'ambito della cornice unitaria di coordinamento interistituzionale e nel dialogo con il partenariato economico e sociale;
- il raccordo e la mutualità dei servizi di individuazione e validazione e certificazione delle competenze si fonda sulla piena realizzazione della dorsale unica informativa di cui all'articolo 4, Comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92, mediante la progressiva interoperatività delle banche dati centrali e territoriali esistenti e l'istituzione del repertorio nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali;
- l'affidabilità del sistema nazionale di certificazione delle Competenze si fonda su un condiviso e progressivo sistema di indicatori, strumenti e standard di qualità su tutto il territorio nazionale.
- alla identificazione degli indicatori, delle soglie e delle modalità di controllo, valutazione e accertamento degli standard minimi di cui al presente decreto, anche ai fini dei livelli essenziali delle prestazioni e della garanzia dei servizi;
- alla definizione dei criteri per l'implementazione del repertorio nazionale di cui all'articolo 8, anche nella prospettiva del sistema europeo dei crediti per l'istruzione e la formazione professionale, e per l'aggiornamento periodico, da effettuarsi almeno ogni tre anni;
- alla progressiva realizzazione e raccordo funzionale della dorsale informativa unica di cui all'articolo 4, comma 51, della Regge 28 giugno 201 2, n. 92.
Il comitato organizza periodici incontri con le parti economiche e sociali al fine di garantire informazione e partecipazione nelle fasi di elaborazione delle linee guida, anche su richiesta delle parti stesse.
6. Le linee guida di cui al comma 5 sono adottate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione e il Ministro dell'economia e delle finanze, sentito il Ministro per lo sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza unificata a norma dell'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e sentite le parti economiche e sociali.
Una eventuale azione contrattuale di risarcimento danni nei confronti dell'amministratore per "mala gestio" invocando gli obblighi imposti dall'art. 1710 C.C. (diligenza del mandatario) in ipotesi di mancata presentazione della dichiarazione del sostituto d'imposta, non può essere esperita in quanto il contratto di mandato con l'amministratore è da considerarsi nullo perché concluso in violazione di legge (l'ar t. 71 bis) e l'art. 1227 c.c. stabilisce comunque che il risarcimento non è dovuto per i danni che si potevano evitare usando la ordinaria diligenza.
La responsabilità dell'amministratore di condominio è di natura contrattuale in quanto con il "cliente" condominio si instaura un contratto di lavoro autonomo stabilito normativamente, una figura nuova dell'amministratore non più come semplice mandatario, con compiti e responsabilità anche di natura pubblica, che travalicano la natura contrattuale del rapporto con i condomini. Una evoluzione della figura dell'amministratore: dalla diligenza del buon padre di famiglia alla diligenza professionale qualificata. Il crescente grado cli organizzazione professionale ed i numerosi obblighi della legislazione speciale soprattutto in tema di sicurezza impongono l'adozione di un criterio più rigido.
Diligenza qualificata ai sensi dell'art.1176 c.c. comma 2 che richiede di uniformare il proprio modello di condotta attraverso un adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente necessari in relazione alla natura dell'attività esercitata, volto all'adempimento della prestazione dovuta e ad evitare eventi dannosi.
Occorre fare appello allarticolo 1176 c.c. ai sensi del quale nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di una attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata.
La diligenza esigibile dal professionista nell'adempimento delle obbligazioni assume nell'esercizio delle sue attività e una diligenza speciale e rafforzata, di contenuto tanto maggiore quanto più sia specialistica e professionale la prestazione richiesta.
La figura dell'amministratore di condominio nel nostro ordinamento non si esaurisce nell'aspetto contrattuale delle prerogative d'ufficio visto che, non solo il codice civile, ma anche numerose leggi speciali gli imputano il dovere di impedire che il modo di essere dei beni condominiali provochi danni a terzi.
La verifica dei requisiti anzidetti da parte di un ente terzo (ancora indicato dall'art. 71 Disp. att. c.c., ma inesistente) potrebbe assicurare una forma di pubblicità finalizzata a rendere conoscibili attraverso sistemi informatici alcune rilevanti notizie riguardanti la vita del condominio nonché la tutela di interessi generali per assicurare all'utente la capacità tecnica e professionale dell'amministratore (senza oneri a carico dello Stato).
Forse lo strumento giuridico attraverso il quale si è gestita gran parte del patrimonio immobiliare, è entrato in crisi; difficoltà di costituzione dell'organo deliberante in funzione del numero dei soggetti che hanno diritto alla convocazione, il contenzioso crescente e la necessità di interventi straordinari di manutenzione. Di fronte alla difficoltà di convocazione dell'assemblea ed alla scarsa attendibilità dei risultati, l'intervento dell'organo assembleare si riduce sempre di più, l'esigenza di realizzare opere urgenti e di conservare omogeneità alla gestione consiglia interventi sul piano amministrativo volti a sopperire ad inerzie e remore legato alle situazioni soggettive dei singoli partecipanti.
Assume quindi maggior rilievo la figura dell'amministratore come elemento centrale di una coerente gestione, come destinatario di un rapporto fiduciario che finisce per coinvolgere una parte degli stessi diritti individuali. C'è da chiedersi quindi se l'istituto condominiale che ha la sua matrice nell'attribuzione dei tradizionali diritti dominicali ai partecipanti offra in concreto quella copertura che i proprietari hanno diritto di attendersi per ottenere un utile godimento dei servizi ed impianti senza troppe perdite di tempo.
La professionalità degli amministratori connessa alla possibilità di verifica dei requisiti relativi e l'individuazione di principi contabili analoghi a quelli societari (nuovo art. 1130 bis c.c.) consente di affidare all'amministratore poteri superiori a quelli attuali senza depauperare l'assemblea condominiale delle scelte amministrative di fondo secondo le tematiche generali che sono le sole affrontabili da un organo collettivo non permanente, di complessa convocazione e di altrettanto complessa gestione.
Sembra quindi arrivato il momento di distinguere tra la figura tradizionale dell'amministratore pater familias, gestore alla buona dell'edificio, ed il professionista polivalente in sintonia con le nuove ed amplissime funzioni e responsabilità, con la possibile distinzione anche dal punto di vista normativo, tra amministratore-mandatario ed amministratore-professionista.
La distinzione potrebbe essere riferita ad una diversa consistenza dell'immobile con la valutazione di opportuni indicatori (numero dei condomini o meglio delle unità immobiliari, importo rendiconto spese ordinarie). La soluzione da individuare (legislativamente) è lo spostamento dell'asse portante della gestione condominiale al di fuori della tradizionale sede assembleare, con poteri propositivi nell'interesse della collettività rappresentata alla quale occorre riservare opportune garanzie.
A partire quindi da una certa dimensione e con un determinato grado di complessità occorre ipotizzare il ricorso allo schema societario (finalmente ne è stato adottato il bilancio) attribuendo ad un ben individuato "consiglio di condomini" un ruolo specifico e ben determinato nella formazione della volontà dell'organo di gestione.
Amministratore quindi non solo con tutti i requisiti dell'art. 71 bis disp. att. c.c., ma controllato da un organismo interno, Con modalità da definire con grande attenzione, analogamente a quanto da tempo previsto dal codice civile per l'ambito societario che individua "tutte le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale" (il consiglio di condominio e già previsto dal secondo comma dell'art. 1130-bis della legge n. 220/2012).
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