mercoledì 26 ottobre 2016

LE SCADENZE FISCALI DEL MESE DI NOVEMBRE 2016

Di seguito il calendario di tutte le scadenze fiscali del mese di Novembre anno 2016


Continua a leggere...

Posizione di garanzia dell’amministratore di condominio e nullità della nomina

In caso di nullità della nomina dell’amministratore, egli, in virtù della effettiva presa in carico del bene giuridico, assume la posizione di garanzia richiesta dall’ordinamento ai fini della fondazione della sua responsabilità penale.

  • Introduzione
Nel presente scritto si analizza la questione della permanenza o meno in capo all’amministratore di condominio della posizione di garanzia – requisito per la sua responsabilità penale – nel caso in cui la nomina ex art. 1129 c.c. sia nulla. È anzitutto necessario delineare brevemente le nozioni di reato omissivo e di posizione di garanzia, per poi, sottolineata la natura omissiva della responsabilità dell’amministratore, soffermarsi sulle criticità rappresentate dalla nullità della nomina ed infine proporre una soluzione sulla base delle teorie formale e funzionale.
  • Il reato omissivo
La responsabilità omissiva si fonda sulla violazione di una norma-comando: al soggetto viene rimproverato di non avere tenuto la condotta doverosa comandata dalla norma. I reati omissivi si distinguono in omissivi propri e omissivi impropri (o commissivi mediante omissione). I primi sono reati di mera condotta: per l’integrazione della fattispecie incriminatrice non è necessario il verificarsi di un evento in senso naturalistico. Gli elementi costitutivi di questi reati sono: 1) la situazione tipica, ovvero la situazione fattuale descritta dalla norma; 2) la condotta omissiva del soggetto; 3) la possibilità di agire dello stesso. Classico esempio di reato omissivo proprio è l’omissione di soccorso (art. 593 c.p.): al soggetto è rimproverato, in presenza della situazione tipica, ad esempio il rinvenimento di una persona ferita (requisito 1), di non averle prestato soccorso (requisito 2), pur potendo (requisito 3). I secondi sono reati ad evento: per l’integrazione della fattispecie è necessario il verificarsi di un evento in senso naturalistico. Gli elementi costitutivi di questi reati sono: 1) l’obbligo giuridico di impedire l’evento o obbligo di garanzia; 2) la condotta omissiva del soggetto; 3) la realizzazione dell’evento in senso naturalistico; 4) la sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento; 5) la possibilità di agire del soggetto. Un esempio di reato omissivo improprio è l’omicidio per omissionem: (artt. 40 co. 2, 575 c.p.): al soggetto – si ponga, l’addetto all’azionamento dello scambio dei binari ferroviari al passaggio di un treno – è rimproverato, in presenza dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, cioè il deragliamento del treno (requisito 1), di non avere azionato lo scambio (requisito 2), pur potendo (requisito 5), cagionando così (requisito 4) la morte dei passeggeri (requisito 3).
  • La posizione di garanzia
Mentre i reati omissivi propri sono previsti da apposite norme, collocate nella parte speciale del codice penale, i reati omissivi impropri sono punibili sulla base di una operazione ermeneutica: le fattispecie incriminatrici di parte speciale, infatti (eccezion fatta per quelle che prevedono reati omissivi propri), sono costruite sul modello commissivo; grazie all’innesto su di esse dell’art. 40 co. 2 c.p. si ottengono le rispettive versioni omissive (almeno per quelle fattispecie suscettibili di essere convertite, certamente non lo sono quelle che riguardano reati di mera condotta, essendo come detto i reati omissivi impropri reati ad evento naturalistico). In virtù di questa funzione, l’art. 40 co. 2 c.p. può essere definito moltiplicatore di tipicità, in quanto rende penalmente rilevanti condotte non espressamente sanzionate. Sembra utile riportare il testo della disposizione da ultimo citata, ovvero l’art. 40 co. 2 c.p.: “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Può essere definita posizione di garanzia la situazione del soggetto all’interno dell’ordinamento gravato da un obbligo giuridico di impedire un evento. La responsabilità omissiva dell’amministratore di condominio.

  • La responsabilità penale dell’amministratore ha natura per lo più omissiva
Il mandatario della compagine condominiale, infatti, è gravato di molteplici obblighi di attivarsi; a titolo esemplificativo, basti pensare alle ipotesi di omicidio colposo e di lesioni colpose per non aver rimosso fonti di rischio insite nelle parti comuni ed alle ipotesi previste dal D.Lgs. 81/2008 in tema di sicurezza sul lavoro. In tutti questi casi l’amministratore è ritenuto responsabile per non avere tenuto la condotta doverosa comandata dalla norma, per non avere cioè adempiuto all’obbligo giuridico di impedire l’evento lesivo. La giurisprudenza ritiene che tale obbligo possa nascere da qualunque ramo del diritto, e quindi anche dal diritto privato, e specificamente da una convenzione che da tale diritto sia prevista e regolata, come è nel rapporto di rappresentanza volontaria intercorrente tra il condominio e l’amministratore (Cass. Pen. 2012 34147).
  • La nullità della nomina
L’art. 71 bis disp. att. c.c., introdotto dalla cosiddetta riforma del condominio, prevede precisi requisiti di professionalità e di onorabilità per potere svolgere l’attività di amministratore. Poiché tale norma è volta a salvaguardare gli interessi generali della collettività, la stessa deve ritenersi imperativa, ovvero non derogabile dalla autonomia privata; la sua inosservanza comporta inevitabilmente la nullità della nomina. Ciò trova conferma nell’art. 1138 co. 4 c.c., che indica tra le disposizioni inderogabili quelle che riguardano la nomina dell’amministratore. Ecco la questione: l’invalidità della fonte dell’obbligo giuridico impeditivo – ovvero la nullità della nomina – è di ostacolo al sorgere in capo all’amministratore di condominio della posizione di garanzia e, dunque, all’affermazione della sua responsabilità penale?
  • Criticità: teoria formale e funzionale
Occorre rilevare che esistono due distinte teorie della posizione di garanzia. La teoria formale si occupa di stabilire quali siano le fonti dell’obbligo di garanzia, rinvenendole nella legge, nel contratto, nella precedente azione pericolosa, nella negotiorum gestio. Si tratta di una teoria molto rigorosa e tassativa, rispettosa del principio di legalità, in quanto individua analiticamente le ipotesi in cui sussiste responsabilità, ma difetta nel proporre soluzioni adeguate nei casi in cui la fonte giuridica sia formalmente invalida. Sulla base di questa teoria, infatti, si deve concludere che l’amministratore, in caso di nullità della nomina, non può essere ritenuto penalmente responsabile dei fatti cagionati dalle sue omissioni, in quanto la fonte dell’obbligo di garanzia – la nomina, dunque il contratto – risulta viziata. La teoria funzionale non si occupa delle fonti formali dell’obbligo impeditivo, ma individua il fondamento della posizione di garanzia nella effettiva presa in carico del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Questa teoria si pone in tensione con il principio di legalità, ma si dimostra molto attenta all’effettivo rapporto tra soggetto gravato dall’obbligo impeditivo e bene tutelato. Stando a questa impostazione, l’amministratore di condominio, in caso di nullità della nomina, è responsabile dei fatti cagionati dalle sue omissioni, poiché, indipendentemente dai vizi formali del contratto, la effettiva presa in carico del bene giuridico tutelato dalla fattispecie che a seconda della situazione venga in considerazione è sufficiente per fondare la sua posizione di garanzia.
  • Conclusioni
Alla luce di quanto esposto, in considerazione del fatto che il novus normativo rappresentato dall’art. 71 bis disp. att. c.c. configura ed insiste sulla rilevanza sociale della posizione dell’amministratore di condominio all’interno del nostro ordinamento, sembra più aderente al dato positivo privilegiare la teoria funzionale e le sue conseguenze, tanto più che la dottrina e la giurisprudenza prevalenti – occupandosi in generale della bontà dell’una e dell’altra teoria – optano per quella qui proposta, mettendo in risalto l’aspetto concreto della gestione operativa. Si conclude pertanto affermando che, in caso di nullità della nomina dell’amministratore, egli, in virtù della effettiva presa in carico del bene giuridico, assume la posizione di garanzia richiesta dall’ordinamento ai fini della fondazione della sua responsabilità penale.

di Andrea Marostica
Avvocato
Continua a leggere...

Il mistero del sottotetto: Monsieur Mansart

Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può effettuarne la parziale trasformazione in terrazza di proprio uso esclusivo, purché risulti che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri condomini non siano privati della possibilità di farne uso.

Confesso la mia ignoranza, ma non sapevo che il termine “mansarda” fosse dovuto a Francois Mansart, architetto d’oltralpe che, nel Seicento, aveva imposto in Francia tale ambiente abitabile o, comunque, vivibile, di solito recuperato dal sottotetto dell’edificio; in effetti, alcuni quartieri della romantica Parigi presentano questo stile caratteristico con le finestre ad abbaino, dando vita ad un suggestivo paesaggio urbano.
Anche se tali unità immobiliari vengono comunemente intese come sinonimi, più tecnicamente, nel sottotetto, il tetto di copertura del fabbricato segue una linea inclinata, mentre, nella mansarda, tale linea, partendo dal centro e proseguendo verso l’esterno, ad un certo punto “piega” bruscamente verso il basso, passando da 45 gradi a verticale, creando, al di sotto del tetto, uno spazio più arioso, accogliente ed accessibile anche vicino i muri perimetrali.
Sotto il profilo giuridico, mantenendo l’indagine nell’alveo civilistico, va ricordato che, nell’impostazione del codice civile, il sottotetto non risultava compreso esplicitamente nell’elenco dei beni che, ai sensi dell’art. 1117 c.c., “sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo”, ed era comunemente escluso dalla nozione tecnica di tetto, in quanto costituito dalla struttura, avente normalmente funzione isolante (da freddo, caldo, umidità), posta appunto al di sotto del tetto e, al contempo, al di sopra del solaio di copertura dell’unità immobiliare sita all’ultimo piano dello stabile (sul versante dottrinale, in termini generali, SALCIARINI, in CELESTE - SALCIARINI, I beni comuni. L’individuazione e l’utilizzazione, Milano, 2009, 140; SPAGNUOLO, Sottotetto e lastrico solare, in Immob. & diritto, 2008, n. 6, 25; TORTORICI, Il sottotetto, in Immob. & proprietà, 2006, 22; BALZANI, Il sottotetto, in Arch. loc. e cond., 1994, 31).
Da tale prevalente funzione tesa a preservare dagli agenti atmosferici - tanto che veniva denominato anche camera d’aria, palco morto, intercapedine - svolta a favore della porzione di piano sottostante, derivava, di regola, la sua esclusione dal novero dei beni comuni; in altre ipotesi, veniva evidenziata la relazione materiale esistente tra cosa principale e cosa secondaria, attribuendo il dovuto rilievo al carattere differenziato del nesso “strutturale” fra il sottotetto medesimo e l’appartamento ad esso collegato da una scala, sicché, essendo una pertinenza della porzione di piano, il sottotetto veniva normalmente considerato di proprietà del medesimo titolare della porzione stessa.
Sul punto, va registrata una diversa prospettiva da parte della Riforma del 2013, la quale, al n. 2) del riformato art. 1117 c.c., ha espressamente inserito, tra i beni di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, “i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune” (si pensi a quei volumi, discretamente ampi e praticabili, che vengono utilizzati per permettere l’ingresso alle scale comuni o per allocarvi le macchine dell’ascensore, le pompe delle autoclavi, le centrali termiche e, in genere, quegli impianti che non possono ospitarsi in altri parti dell’edificio).
La legge n. 220/2012 ha forse voluto chiarire la natura di tale ambiente, atteso che, dall’entrata in vigore del codice civile del 1942, il relativo argomento si è rivelato oggetto di accesa discussione, anche perché oggetto di un discreto business edilizio.
Trattasi, infatti, di un bene molto “appetibile”, specie nei grandi centri urbani, attesa la possibilità che tale volume tecnico possa essere trasformato in mansarda abitabile - oltre che soffitta, deposito, stenditoio, ripostiglio e quant’altro - e ciò a prescindere da ogni conseguenza in ordine alla revisione delle tabelle millesimali e dalle considerazioni di carattere urbanistico di cui appresso (tra i contributi afferenti al previgente regime, si segnala, altresì, REZZONICO, La disciplina condominiale di soffitte, mansarde e sottotetti, in Arch. loc. e cond., 1986, 205).
In proposito, la risposta della giurisprudenza, specie di legittimità, è stata molto variegata in ordine all’appartenenza del locale sottotetto, risultando la netta contrapposizione, di solito, tra il proprietario dell’ultimo piano (o dell’unità immobiliare ivi posta) e gli altri condomini, tanto da farne, almeno per i non addetti ai lavori, un oggetto “misterioso” e quantomeno causando un certo disorientamento anche tra gli operatori del settore.
Ovviamente, il dilemma sull’assetto proprietario ha conseguenze pratiche di notevole spessore riguardo sia all’utilizzo dello stesso bene sia all’imputabilità delle relative spese di conservazione/manutenzione, anche se va riconosciuto che i pronunciamenti sul punto risentono delle peculiari situazioni dello stato dei luoghi sotteso alle fattispecie esaminate (in argomento, COSCETTI, Proprietà del sottotetto, in Riv. giur. edil., 2009, I, 1530; DE TILLA, Quando la proprietà del sottotetto è pertinenza dell’appartamento, in Immob. & diritto, 2005, n. 5, 32).
Ad esempio, in un caso concreto affrontato, di recente, dalla Suprema Corte - v. Cass. 12 agosto 2011 n. 17249, in Foro it., Rep. 2011, voce Comunione e condominio, n. 178 - i giudici di merito avevano dichiarato che l’ampia porzione di solaio sita al quinto piano di uno stabile era di proprietà del condomino-attore, condannando il convenuto al rilascio della medesima ed alla rimessione in pristino del vano di accesso a tale sottotetto.
Segnatamente, nella fattispecie affrontata da tale sentenza, era esatta la censura che, al fine di fornire la prova della proprietà esclusiva, non potessero in generale essere determinanti né le risultanze dell’eventuale regolamento di condominio, né l’eventuale inclusione del bene nelle tabelle millesimali, come proprietà esclusiva del singolo condomino - v. anche infra - ma la corte territoriale aveva anche considerato che la società costruttrice, ed unica originaria proprietaria, si era riservata la proprietà del sottotetto in questione in sede di costituzione del condominio, allorché, con il primo atto di compravendita, aveva proceduto ad alienare una delle unità immobiliari comprese nell’edificio, ritenendo questa riserva di proprietà del sottotetto confermata dal regolamento condominiale contrattuale e dalla tabella millesimale, espressamente richiamati nel primo atto di compravendita (in altri termini, era stata raggiunta la prova della proprietà del sottotetto in capo all’attore in base ad un regolare atto a titolo derivativo compiuto con il costruttore il quale, in sede di costituzione del condominio, se ne era riservata la proprietà).
Si è ribadito, in punto di diritto, che la natura del sottotetto di un edificio è, in primo luogo, determinata dai titoli e, solo in difetto di questi ultimi, non essendo lo stesso sottotetto compreso nel novero delle parti comuni dell’edificio essenziali per la sua esistenza - quali il tetto, il muro maestro, il suolo, ecc. - o necessarie all’uso comune, può ritenersi comune solo se esso risulti in concreto, per le sue “caratteristiche strutturali e funzionali”,oggettivamente destinato, anche solo potenzialmente, all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune (v. Cass., 19 dicembre 2002 n. 18091, in Notariato, 2003, 361; Cass. 11 maggio 2000 n. 6027, in Foro it., Rep. 2000, voce Comunione e condominio, n. 112).
In questa ipotesi, si applica la presunzione di comunione prevista dall’art. 1117 c.c., la quale opera ogni volta che, nel silenzio del titolo, il bene sia suscettibile, per le suddette caratteristiche, di utilizzazione da parte di tutti i comproprietari (v. Cass. 20 luglio 1999 n. 7764, in Giur. it., 2000, 730, con nota di BERGAMO; Cass. 19 novembre 1997 n. 11488, in Foro it., Rep. 1997, voce Comunione e condominio, n. 111; Cass. 15 maggio 1996 n. 4509, in Arch. loc. e cond., 1996, 719, la quale si è occupata del caso in cui il sottotetto era dotato di una comunicazione diretta con il vano scale comune e di un lucernario per l’accesso al tetto comune, destinazione che costituiva il fatto noto ex art. 2727 c.c. posto dalla legge a base della presunzione di comunione di cui sopra).
Lo stesso sottotetto deve, invece, considerarsi pertinenza dell’appartamento sito all’ultimo piano allorché assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere l’appartamento medesimo dal caldo, dal freddo e dall’umidità, tramite la creazione di una camera d’aria, e non anche quando abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo (v. Cass. 20 giugno 2002 n. 8968, in Arch. loc. e cond., 2002, 732; Cass. 15 giugno 1993 n. 6640, in Arch. loc. e cond., 1993, 727). In quest’altra ipotesi, il proprietario ha però diritto di utilizzarlo, in conformità delle norme urbanistiche vigenti, come deposito, stenditoio, ma anche come parte della sua abitazione: é il tipico caso del sottotetto con la pavimentazione formata da tavolati di legno, con altezza minima, senza ingresso dalle parti comuni ed al quale si può accedere unicamente dall’appartamento sottostante attraverso la creazione di un’apposita apertura.
In quest’ottica, il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può effettuarne la parziale trasformazione in terrazza di proprio uso esclusivo, purché risulti che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri potenziali condomini-utenti non siano privati di reali possibilità di farne uso (v. Cass. 4 febbraio 2013 n. 2500, in Foro it., Rep. 2013, voce Comunione e condominio, n. 202; Cass. 3 agosto 2012 n. 14107, in Arch. loc. e cond., 2013, 31, la quale sottolinea la raccomandazione che resti complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene).
Applicando i medesimi principi ma giungendo a diverse conclusioni, un’altra pronuncia del Supremo Collegio (v. Cass. 7 febbraio 1998 n. 1303, in Arch. loc. e cond., 1998, 385) ha premesso che il sottotetto di un edificio si considera una pertinenza dell’appartamento dell’ultimo piano quando assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere l’appartamento, e non anche quando abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione da parte di tutti i condomini come vano autonomo; in quest’ultima ipotesi, poiché il sottotetto non si comprende tra le parti comuni indicate dall’art. 1117 c.c. (vecchio testo), la sua appartenenza deve essere determinata in base al titolo, sicché, in mancanza, la proprietà comune si desume dalla “oggettiva destinazione all’uso comune”, peraltro anche in via soltanto potenziale (v., altresì, Cass. 29 ottobre 1992 n. 11771, in Riv. giur. edil., 1993, I, 1037; Cass. 18 ottobre 1988 n. 5668, in Foro it., Rep. 1988, voce Comunione e condominio, n. 41; Cass. 22 aprile 1986 n. 2824, in Riv. giur. edil., 1986, I, 745).
Nella specie, tale sentenza ha dato atto che il sottotetto, per l’altezza (variabile da mt. 2,20 al perimetro e mt. 3,00 alla mezzeria), per le dimensioni, per la finalità di passaggio obbligato per tutti i condomini per raggiungere i quattro terrazzi posti ai quattro angoli dell’edificio, in sintesi, per la struttura e per la funzione, non costituiva una mera camera d’aria destinata ad isolare e proteggere il piano sottostante, ma raffigurava un vano autonomo utilizzabile da tutti i partecipanti al condominio. 
Dal canto suo, Cass. 4 dicembre 1999 n. 13555 (in Rass. loc. e cond., 2000, 155) ha avuto modo di specificare che il discrimen sta nell’accertamento della circostanza per cui il suddetto sottotetto, per esser considerato pertinenza dell’appartamento all’ultimo piano ad esso direttamente sottostante, debba avere l’esclusiva “funzione di intercapedine coibente” per il medesimo, mentre, qualora le sue caratteristiche, dimensioni e funzioni evidenzino l’utilizzazione o anche la sola utilizzabilità del medesimo da parte di tutti i condomini - salvo sempre che risulti il contrario dal titolo - deve presumersi che esso rientri tra le parti comuni dell’edificio, ai sensi dell’art. 1117 c.c., in ragione dell’oggettiva destinazione all’uso e al godimento collettivi.
Dunque, l’ambiente ricavato sotto il tetto dell’edificio in condominio, in modo da formare una camera d’aria limitata, in alto, dalla struttura del tetto e, in basso, dal solaio che copre i vani dell’ultimo piano, assolve, di regola, ad una funzione isolante e protettiva di questi vani e, quando non risulti una diversa destinazione o non sia diversamente disposto dal titolo, non è, quindi, oggetto di comunione ma costituisce pertinenza dell’appartamento dell’ultimo piano.
Propende più per la condominialità del bene, invece, Cass. 18 marzo 1987 n. 2722 (in Arch. loc. e cond., 1987, 264), ad avviso della quale il sottotetto in oggetto, sia che assolva esclusivamente una funzione isolante a protezione dell’ultimo piano, costituendo pertinenza e, quindi, parte integrante dello stesso, sia che assolva anche altre funzioni oppure abbia dimensioni e caratteristiche tali da consentire l’utilizzazione come vano autonomo, la cui appartenenza va determinata solo in base ad un titolo, può considerarsi di proprietà comune se, per caratteristiche strutturali e funzionali, risulti, sia pure in via potenziale, oggettivamente destinato all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune (cui adde Cass. 5 aprile 1982 n. 2090, in Arch. loc. e cond., 1982, 231).
Interessante, poi, la precisazione offerta da Cass. 8 agosto 1986 n. 4970 (in Arch. loc. e cond., 1986, 624), per la quale, se il sottotetto assolve l’esclusiva funzione di isolare i vani dell’alloggio ad esso sottostanti, si pone in rapporto di dipendenza con i vani stessi cui serve da protezione e non può essere, pertanto, da questi ultimi separato senza che si verifichi l’alterazione del rapporto di complementarietà dell’insieme, conseguendone che, non essendo in tale caso il sottotetto idoneo ad essere utilizzato separatamente dall’alloggio sottostante cui accede, non è configurabile il possesso ad usucapionem dello stesso da parte del proprietario di altra unità immobiliare (in dottrina, SANTERSIERE, Appartamento all’ultimo piano del condominio. Pertinenza/usucapione del sottotetto, in Arch. loc. e cond., 2011, 680).
Da quanto sopra esposto deriva che, se il sottotetto è di proprietà condominiale, il suo utilizzo esclusivo da parte del proprietario dell’ultimo piano richiede il consenso unanime di tutti gli altri condomini, che possono anche decidere di venderlo all’interessato, ma è sufficiente l’opposizione di un singolo condomini per impedire sia l’utilizzo esclusivo che la vendita (in dottrina, ACCORDINO, Trasformazione del vano sottotetto in unità abitativa: nuove e vecchie problematiche, in Arch. loc. e cond., 2001, 424; BAIO, Trasformazione del sottotetto in unità abitativa e problemi condominiali, in Arch. loc. e cond., 1986, 589).
Qualora il singolo condomino, senza o contro la volontà degli altri condomini, si comporta di fatto come se fosse il proprietario del sottotetto e manifesti apertamente la volontà di utilizzarlo per sé e lo annetta al proprio appartamento, escludendo fisicamente gli altri condomini dal relativo uso, egli potrebbe usucapire il medesimo sottotetto trascorsi venti anni, a meno che gli altri condomini abbiano proposto un atto interruttivo o, meglio, una causa nei suoi confronti (si pensi ad un’azione possessoria per grave turbativa o per spoglio se il condomino, realizzando i lavori, consapevolmente alteri la preesistente situazione di fatto). 
In argomento, appare criticabile il recente decisum di Cass. 23 agosto 2007 n. 17928 (in Immob. & diritto, 2009, n. 1, 21, commentata da DE TILLA), secondo cui la presunzione legale di condominialità stabilita per i beni elencati nell’art. 1117 c.c., la cui elencazione non è tassativa, deriva sia dall’attitudine oggettiva del bene al godimento comune sia dalla concreta destinazione di esso al servizio comune, conseguendone che, per vincere tale presunzione, colui che rivendica la proprietà esclusiva del sottotetto ha l’onere di fornire la prova di tale diritto e, a tal fine, è necessario un titolo di acquisto dal quale si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione del bene, sicché non sarebbero state determinanti né l’eventuale inclusione del bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un singolo condomino, e neppure “le risultanze di un eventuale regolamento di condominio”.
Quest’ultima affermazione, nella sua assolutezza ossia senza ulteriori specificazioni, lascia alquanto perplessi: invero, a differenza del regolamento assembleare, il cui contenuto è limitato all’aspetto “gestorio” nelle materie predeterminate assegnate dal codice civile alla competenza dell’assemblea (art. 1138, comma 1, c.c.), il regolamento contrattuale, fondandosi sul consenso degli interessati a base dell’autonomia privata, può avere un contenuto estremamente vasto - ovviamente, con i limiti di cui al comma 4 del medesimo art. 1138 (“le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare … e in nessun caso possono derogare …”) - mirando soprattutto a disciplinare la titolarità ed il godimento delle cose comuni ed esclusive.
Se il regolamento riveste tale efficacia negoziale o convenzionale - oltre che contenere eventualmente le norme in ordine all’amministrazione lato sensu della cosa comune (disciplinando le materie specificatamente indicate nel citato comma 1), mediante una disciplina più stringente e puntuale - lo stesso, sul piano della “disposizione” delle situazioni di condominio e di proprietà esclusiva, può produrre incrementi o diminuzioni patrimoniali nell’àmbito condominiale: in questa prospettiva, il regolamento contrattuale può ben costituire “titolo” per l’individuazione dei beni facenti parte della comunione edilizia, operando vere e proprie riserve di proprietà in favore dell’iniziale proprietario circa beni altrimenti presunti comuni.
Ciò è stato evidenziato dalla giurisprudenza, ad esempio, riguardo agli spazi esistenti nel piano interrato, o per quanto concerne un’autorimessa o un cortile adiacente allo stabile (v., ex multis, Cass. 14 febbraio 1981 n. 908, in Foro it., 1981, I, 2495, con nota di FRANCARIO, sui locali destinati al servizio di portierato; Cass. 23 luglio 1994 n. 6884, in Arch. loc. e cond., 1995, 92, circa un locale sottostante al piano terreno; Cass. 6 dicembre 1991 n. 13160, in Riv. giur. edil., 1992, I, 580, sull’impianto di fognatura; Cass. 6 luglio 1984 n. 3966, in Vita notar., 1985, 161, commentata da TERZAGO, in ordine all’impianto di riscaldamento). Nella stessa lunghezza d’onda, sono da considerarsi di proprietà esclusiva di un singolo condomino, escludendone pertanto la “condominialità”, il lastrico solare o il tetto, indipendentemente dalla circostanza che i beni stessi siano compresi, ai sensi dell’art. 1117 c.c., tra quelli per i quali esiste la presunzione di comproprietà (v. Cass. 11 novembre 2002 n. 15794, in Riv. giur. edil., 2003, I, 917; Cass. 4 giugno 1992 n. 6892, in Arch. loc. e cond., 1992, 761).
Tale articolo, infatti, sancisce una presunzione iuris tantum di proprietà comune delle parti dell’edificio in condominio necessarie all’esistenza stessa di questo oppure destinate in modo permanente all’uso o al godimento comune, che può essere vinta dagli elementi contrari risultanti dal titolo, per tale intendendosi - oltre gli atti di acquisto delle unità immobiliari - il regolamento di condominio ad essi allegato o in essi richiamato, conosciuto ed accettato dagli acquirenti.
In particolare, il regolamento contrattuale può contenere l’inclusione esplicita tra le cose comuni, soggette sia alla comunione necessaria, sia alla correlata indivisibilità funzionale, sia all’inseparabilità pro quota dai trasferimenti delle proprietà esclusive, di cose determinate per le quali sia incerta la riconducibilità alla categoria delle cose comuni in regime di condominio; in tal caso, il regolamento contiene un atto negoziale di accertamento del rapporto di inerenza della cosa espressamente considerata con quelle comuni ex art. 1117 c.c., con l’effetto di individuare i limiti oggettivi delle proprietà esclusive e le corrispondenti quote sulle cose comuni, di escludere la separata disponibilità della cosa inclusa tra quelle comuni, e di prevenire controversie circa la distinta utilizzabilità della cosa stessa indipendentemente dall’esistenza di un valido titolo costitutivo di diritti sulla medesima nel contesto dei concorrenti diritti degli altri condomini.
Resta fermo che, per vincere in base al titolo la presunzione legale di proprietà comune delle parti dell’edificio condominiale indicate nell’art. 1117 c.c., non sono sufficienti il frazionamentoaccatastamento e la relativa trascrizione, eseguiti a domanda del venditore costruttore, della parte dell’edificio in questione, trattandosi di atto unilaterale di per sé inidoneo a sottrarre il bene alla comunione condominiale, dovendosi riconoscere tale effetto solo al contratto di compravendita, in cui la previa delimitazione unilaterale dell’oggetto del trasferimento sia stata recepita nel contenuto negoziale per concorde volontà dei contraenti (v. Cass. 18 aprile 2002 n. 5633, in Foro it., Rep. 2002, voce Comunione e condominio, n. 59), specificando, altresì, che non sono utilizzabili nemmeno i dati catastali, utili solo come concorrenti elementi indiziari di valutazione a fornire la prova richiesta (v. Cass. 15 giugno 2001 n. 8152, in Rass. loc. e cond., 2002, 276). 
Tornando al sottotetto, come si nota, la soluzione non è agevole nelle situazioni border line, ossia quando tale ambiente è raggiungibile non dalle scale ma attraverso botole, o se il medesimo sottotetto non è abbastanza ampio per essere giudicato autonomo ed essere, quindi, utile a tutti, oppure quando il bene risulta di dimensioni ridotte ma ospitante impianti condominiali (come, ad esempio, la caldaia dell’impianto di riscaldamento o la centralina dell’antenna della televisione condominiale).
Per risolvere la questione concernente l’assetto proprietario, dunque, bisogna valutare caso per caso e, a tal fine, la precisazione aggiunta dalla Riforma del 2013 non sembra di grande ausilio.
Problema connesso è se la trasformazione del sottotetto in abitazione debba comportare la revisione delle tabelle millesimali ai sensi dell’art. 69, comma 1, disp. att. c.c., specie riguardo al n. 2), allorché, per le mutate condizioni di parte dell’edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, “è alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell’unità immobiliare anche di un solo condomino” (così innovato a seguito della legge n. 220/2012).
Il nostro caso sarebbe rientrato tra le “innovazioni di vasta portata”, che compariva nel vecchio testo: se il significato del termine innovazione poteva riferirsi a qualsiasi intervento innovativo eseguito tanto sulle parti comuni dell’edificio tanto su quelle di proprietà esclusiva dei condomini - anche perché il legislatore si riferiva a mutamenti di una parte dell’edificio, senza operare distinzioni di sorta - le conseguenze si rivelavano più articolate, perché si trattava, al fine della revisione della c.d. tabella di proprietà, di verificare se l’innovazione de qua fosse di vasta portata e se l’alterazione interferisse “notevolmente” sul rapporto di valore originario; sembra, invece, opportuno modificare le c.d. tabelle di gestione, perché l’utilizzazione di un sottotetto come abitazione comporta un maggior uso di tutti i servizi condominiali che si estendono alle nuove unità abitative ancorché munite di impianti autonomi: infatti, anche i servizi di illuminazione scale, portierato, ascensore, acqua, pulizie, immondizie, ecc. vengono ad essere modificati dalla presenza di nuove entità (in dottrina, SALIS, Sottotetti abitabili e servizi comuni, in Riv. giur. edil., 1981, I, 71).
Un’altra interessante questione si è posta per chi ristruttura il sottotetto ad abitazione, cioè se debba o meno deve corrispondere l’indennizzo previsto dall’art. 1127 c.c.: si tratta di una somma di denaro, incassabile da ciascun condomino in caso di sopraelevazione, che il codice stabilisce pari al valore attuale dell’area da occupare con la nuova fabbrica, diviso per il numero di piani, ivi compreso quello da edificare e detratto l’importo della quota spettante al proprietario del sottotetto.
Al quesito hanno risposto gli ermellini, affermando che non si ha sopraelevazione in caso di mera trasformazione del sottotetto; in proposito, l’indennizzo de quo va corrisposto nella sola ipotesi di sopraelevazione realizzata mediante la costruzione di nuove opere (nuovi piani o nuove fabbriche) sull’area sovrastante il fabbricato, con conseguente innalzamento dell’originaria altezza dell’edificio, e non anche nel caso in cui il proprietario dell’ultimo piano apporti modificazioni soltanto interne al sottotetto - trasformandolo, come nella specie, in unità abitativa autonoma - contenute negli originari limiti strutturali delle parti dell’edificio sottostanti alla sua copertura (v. Cass. 24 ottobre 1998 n. 10568, in Riv. giur. edil., 1999, I, 435, con nota di GIVRI; Cass. 10 giugno 1997 n. 5164, in Foro it., Rep. 1997, voce Comunione e condominio, n. 139). In senso contrario, appare di recente propensa la magistratura di vertice - v., tra le altre, Cass. 18 novembre 2011 n. 24327, in Riv. notar., 2012, 637, commentata da MUSOLINO - ad avviso della quale l’indennità prevista dall’art. 1127 c.c. per la costruzione sopra l’ultimo piano dell’edificio è dovuta anche per la trasformazione di locali preesistenti, mediante incrementi delle superfici e delle volumetrie, “indipendentemente dall’altezza del fabbricato”, traendo fondamento dall’aumento proporzionale del diritto di comproprietà sulle parti comuni, conseguente all’incremento della porzione di proprietà esclusiva; e ciò sulla scia della pronuncia del supremo organo di nomofilachia - v. Cass. S.U. 30 luglio 2007 n. 16794, che può leggersi, tra le altre riviste, in Corr. giur., 2008, 650, con nota di IZZO - a tenore della quale, qualora il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio innalzi mura perimetrali, rifacendo il tetto e creando nuove unità abitative sostitutive delle precedenti soffitte esistenti, gli altri condomini del fabbricato hanno diritto a ottenere dal realizzatore la corresponsione dell’indennità di sopraelevazione di cui sopra, poiché l’indennizzo compete “a prescindere dal fatto che si siano realizzati nuovi piani o nuove fabbriche”, avendo l’indennità in questione natura sostanzialmente riparatoria, ed essendo essa finalizzata a compensare gli altri condomini della perdita derivante dalla diminuzione di valore di unità immobiliare della quale i predetti abbiano la proprietà.
Relativamente, infine, ai profili urbanistici, la giurisprudenza amministrativa - v. T.A.R. Campania 7 gennaio 2011 n. 16; T.A.R. Puglia 15 gennaio 2005 n. 143; T.A.R. Campania 17 giugno 2002 n. 3597 - è orientata nel senso di ritenere che i sottotetti, quando sono di altezza tale da poter essere suscettibili di abitazione o di assolvere a funzioni complementari (come quella, ad esempio, di deposito di materiali), devono essere computati ad ogni effetto sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza, non potendo essere annoverati tra i c.d. volumi tecnici.
In buona sostanza, la tipologia costruttiva e le dimensioni del manufatto realizzato in difformità rispetto al precedente titolo autorizzatorio, consistente nell’innalzamento del tetto e nella realizzazione di servizi, riflette con assoluta evidenza la sussistenza del contestato abuso che, in ragione dell’innegabile trasformazione edilizia del territorio che ad esso si riconnette, impone il previo rilascio di uno specifico permesso di costruire ad uso abitativo, che valga ad autorizzarne l’esecuzione (v., di recente, anche T.A.R. Lombardia 5 gennaio 2012 n. 38, che si pone in linea con Cons. Stato 7 febbraio 2011 n. 812).



di Alberto Celeste
Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione
Continua a leggere...

venerdì 21 ottobre 2016

Gestione & Amministrazione: Capacità relazionali e gestionali del gestore immobiliare

Il rispetto dovremmo impararlo da bambini, prima in famiglia e poi a scuola. E’ alla base delle relazioni umane e del vivere in società: senza non si potrebbe condividere niente e la vita sociale non potrebbe esistere. Il dizionario Treccani definisce il rispetto come il “Sentimento che porta a riconoscere i diritti, il decoro, la dignità e la personalità stessa di qualcuno, e quindi ad astenersi da ogni manifestazione che possa offenderli […]
E’ la definizione più calzante di una parola abusata e poco compresa e sentita. Il rispetto parte dal principio che, nonostante siamo diversi, ognuno di noi merita il riconoscimento da parte degli altri di quello che è.
Il rispetto è una qualità a doppio senso: per ottenerlo, dobbiamo darlo. Non possiamo pretenderlo dagli altri senza impegnarci in prima persona. Per mettere in pratica comportamenti rispettosi dell’altro e dell’ambiente che ci circonda, dobbiamo anche imparare a comunicare nel modo giusto i nostri disagi e le nostre sofferenze, senza aggredire l’altro, costruendo un dialogo che sia sinceramente comunicativo.
Purtroppo, spesso sentiamo che la nostra dignità viene calpestata e, a volte, senza rendercene conto calpestiamo e feriamo quella di altri. Raramente si manca di rispetto intenzionalmente. Il più delle volte non ce ne rendiamo proprio conto. Siamo troppo presi dalle nostre cose, dai nostri problemi, concentrati su noi stessi per accorgerci che stiamo mancando di rispetto. Ma ce ne rendiamo facilmente conto quando siamo noi a non essere rispettati. 
Il rispetto, come il suo contrario, riguarda quindi le relazioni fra le persone. Se siamo fra amici, familiari o conoscenti che hanno interessi e idee uguali alle nostre è nel nostro e loro interesse mantenere dei buoni rapporti, è presumibile che il rispetto sia più facile. Inoltre l’affetto che proviamo per le persone che ci circondano sublima le differenze e fa soprassedere alle manchevolezze che in altri non tolleriamo.
La situazione cambia quando il contesto è forzato e le relazioni sono obbligate dalla vicinanza abitativa o lavorativa e il rispetto riguarda il rapporto con il collega della scrivania accanto, o quello in catena di montaggio o la commessa del negozio dove lavoro. 
Ma ancora più difficili ed esasperate possono diventare le relazioni tra i condomini, nelle quali la mancanza di rispetto e le accuse reciproche al riguardo sono più una regola che un’eccezione e finiscono con il coinvolgere anche l’amministratore. La mancanza di rispetto fa perdere di vista i problemi comuni, che si devono affrontare e possibilmente risolvere, ed è causa delle deliranti assemblee condominiali. I condomini, nonostante condividano gli spazi e abbiano reali interessi comuni, spesso, a causa della mancanza di rispetto reciproco, oltre che di ascolto, si trovano coinvolti in spirali perverse e in conflitti che consumano energie e compromettono la qualità della vita e la soluzione dei problemi. 
La psicologia di comunità ha da sempre posto l’attenzione sui rapporti dei microcosmi abitativi, considerandoli espressione delle variegate relazioni umane. L’idea utopica su cui si basa la teoria è che una volta promossa la condivisione consapevole di interessi comuni, si sviluppi il senso di comunità. Questo ovviamente è il presupposto per iniziare un lavoro di coinvolgimento in prima persona degli attori presenti nel microcosmo abitativo. Non solo è fondamentale diminuire le difficoltà relazionali aumentando la coesione e il senso di comunità tra i vicini di casa, ma è importante il coinvolgimento degli attori esterni a queste relazioni, come gli amministratori, per imparare un linguaggio condiviso che porti all’ascolto reciproco.
Tutte le parti coinvolte sono responsabili della vivibilità degli spazi e protagonisti del miglioramento della qualità della vita.
La comprensione e la consapevolezza che le scale del condominio sono un bene comune, porta ad avere rispetto dell’altro, migliorando le proprie abitudini per favorire una convivenza pacifica.
La conoscenza dell’altro può aiutare a diminuire la paura del diverso e aumentare il senso di sicurezza che spesso ricerchiamo e abbiamo solo chiudendo dietro di noi la porta di casa. 
Ricostruire la parte buona delle relazioni che avevano i nostri nonni nelle corti di campagna, può aumentare la solidarietà tra le persone, portandole a responsabilizzarsi rispetto alle problematiche comuni agli altri e a diminuire i conflitti.
Capire che l’odore del cavolo lessato per le scale può essere insopportabile, perché qualcuno te lo dice con rispetto, può insegnare a cucinarlo in momenti o in modalità diverse, per non infastidire il vicino! 
Questo può essere esteso a tutti i comportamenti che coinvolgono l’amministratore in questioni che non hanno soluzioni nel codice civile o nei regolamenti condominiali imposti ma sono solo espressione della mancanza di rispetto verso gli altri e degli spazi comuni. 
Il processo di sensibilizzazione e di consapevolezza può migliorare la relazione tra vicini, ma anche con gli amministratori e i locatari, diminuendo i conflitti inutili e migliorando la modalità per affrontare quelli inevitabili.

di Elvio Raffaello Martini
Psicologo 
Continua a leggere...

mercoledì 19 ottobre 2016

Quotazioni immobiliari: i dati relativi al primo semestre 2016


COMUNICATO STAMPA
Quotazioni immobiliari, online i dati relativi al primo semestre 2016

Sono consultabili sul sito dell’Agenzia delle Entrate e tramite l’applicazione per smartphone Omi Mobile i dati relativi alle quotazioni immobiliari del primo semestre 2016, che forniscono un’indicazione dei prezzi al metro quadro per diverse tipologie di immobili. Inoltre, da oggi le quotazioni possono essere anche scaricate, accedendo alla banca dati tramite i servizi online dell’Agenzia, Entratel e Fisconline.

GEOPOI® , quotazioni immobiliari a portata di zoom - Le quotazioni immobiliari dell’Osservatorio consentono di avere un’indicazione di massima del valore di mercato degli immobili nel settore residenziale, commerciale, terziario e produttivo. Cittadini, istituzioni e operatori del settore possono consultare i valori tramite ricerca testuale oppure tramite il servizio di navigazione territoriale GEOPOI® , il framework cartografico realizzato da Sogei, che permette una navigazione interattiva su mappa. L’interfaccia è disponibile anche tramite l’applicazione Omi mobile, accessibile da smartphone o tablet: digitando sul proprio browser l’indirizzo http://m.geopoi.it/php/mobileOMI/index.php è, infatti, possibile conoscere le informazioni relative agli immobili in base a semestre, Provincia, Comune, zona Omi e destinazione d’uso.

La banca dati apre al download - Da oggi è attivo, inoltre, il servizio di download gratuito delle quotazioni immobiliari per gli utenti registrati a Fisconline e ad Entratel, che potranno scaricare i dati a partire dal primo semestre di quest’anno. Per avviare il download è richiesta, quindi, la registrazione ai servizi online dell’Agenzia, necessaria per garantire una maggiore sicurezza degli accessi.

Come consultare i dati - Collegandosi al sito internet www.agenziaentrate.it, nella sezione Documentazione > Osservatorio del Mercato Immobiliare > Banche dati > Quotazioni immobiliari è possibile consultare anche le quotazioni dei semestri precedenti, a partire dal secondo semestre 2013.

Roma, 14 ottobre 2016
Continua a leggere...

martedì 18 ottobre 2016

D.Lgs. 18 Luglio 2016 n. 141 recante integrazioni al D.Lgs. 4 Luglio 2014 n. 102 e disamina dell’art. 9 Comma 5 in materia di termoregolazione e contabilizzazione

In data 27 luglio 2016, alle ore 10,00, presso la sede ANACI in Roma, alla via Cola di Rienzo 212, sono presenti:
  1. ANACI (Associazione Nazionale Amministratori Condominiali e Immobiliari), nelle persone di Ing. Francesco Burrelli (Presidente), Avv. Gian Vincenzo Tortorici (Direttore del Centro Studi Nazionale), Dott. Andrea Finizio (Segretario Nazionale), Avv. Edoardo Riccio (coordinatore giuridico del Centro Studi Nazionale), Ing. Davide Vitali (coordinatore tecnico del Centro Studi Nazionale), Geom. Andrea Garbo (Segretario Centro Studi Nazionale);
  2. CNI (Consiglio Nazionale degli Ingegneri), nelle persone di Ing. Franco Barosso (Gruppo di Lavoro Energia)
  3. CNPI (Consiglio Nazionale dei Periti Industriali e dei Periti Industriali Laureati), nelle persone di Per. Ind. Renato D’Agostin (Vice Presidente) e Per. Ind. Franco Soma (Esperto del Consiglio Nazionale);
  4. AiCARR (Associazione Italiana Condizionamento dell’Aria Riscaldamento e Refrigerazione), nelle persone di Ing. Luca Alberto Piterà (Segretario Tecnico), Ing. Prof. Marco Dell’Isola (Membro del Consiglio Direttivo)
  5. ANTA (Associazione Nazionale Termotecnici ed Aerotecnici), nella persona di Ing. Laurent Socal (Presidente)
Le sopra citate Associazioni, Ordini e Consigli, vista la procedura di infrazione n. 2014/2284 concernente l’incompleto recepimento della direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica avviata dalla Commissione Europea nei confronti dell’Italia con Comunicazione di costituzione in mora ai sensi dell’articolo 258 del TFUE, C (2015) 1075 final del 27 febbraio 2015.
Vista la pubblicazione delle integrazioni al Decreto Legislativo 4 luglio 2014, n. 102 con il D. Lgs. 141 del 18 luglio 2016 entrato in vigore il 26 luglio 2016, di attuazione della Direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica, che modifica le Direttive 2009/125/CE e 2010/30/UE e abroga le Direttive 2004/8/CE e 2006/32/CE.
Si sono riuniti con lo scopo di studiare le integrazioni recentemente apportate al D. Lgs. 102/2014 in materia di contabilizzazione e termoregolazione e la loro applicazione negli edifici in condominio, segnatamente gli articoli 9 (Misurazione e fatturazione dei consumi energetici) comma 5 e 16 (Sanzioni) commi 5, 6, 7 e 8.
Dall’approfondimento che ne è conseguito è emerso quanto segue.
  • TERMINI PER GLI ADEMPIMENTI 
Viene confermata la scadenza del 31 dicembre 2016 ai sensi del’articolo 9 comma 5 D.Lgs. 102/2014 per l’adozione dei sistemi di contabilizzazione e termoregolazione. Non si registrano sostanziali modifiche per quanto attiene le attività aventi ad oggetto gli impianti, fatte salve le precisazioni che seguono. Lo stesso termine viene previsto anche per l’approvazione del nuovo criterio di riparto, fatta salva la possibile deroga per la prima stagione termica successiva all’installazione, come meglio precisato più avanti.
Non vi sono state proroghe per l’entrata in vigore delle sanzioni che, pertanto, potranno essere irrogate a decorrere dal 1 gennaio 2017.
  • ARTICOLO 9 COMMA 5 LETTERA A) INSTALLAZIONE CONTATORE DI FORNITURA
PRECEDENTE TESTO
(omissis) a) qualora il riscaldamento, il raffreddamento o la fornitura di acqua calda per un edificio siano effettuati da una rete di teleriscaldamento o da un sistema di fornitura centralizzato che alimenta una pluralità di edifici, è obbligatoria entro il 31 dicembre 2016 l’installazione da parte delle imprese di fornitura del servizio di un contatore di fornitura di calore in corrispondenza dello scambiatore di calore collegato alla rete o del punto di fornitura. (omissis)

NUOVO TESTO
(omissis) a) qualora il riscaldamento, il raffreddamento o la fornitura di acqua calda ad un edificio o a un condominio siano effettuati tramite allacciamento ad una rete di teleriscaldamento o di teleraffrescamento, o tramite una fonte di riscaldamento o raffreddamento centralizzata, è obbligatoria, entro il 31 dicembre 2016, l’installazione, a cura degli esercenti l’attività di misura, di un contatore di fornitura in corrispondenza dello scambiatore di calore di collegamento alla rete o del punto di fornitura dell’edificio o del condominio. (omissis)

La precedente formulazione della norma presentava molteplici dubbi interpretativi che, con la modifica del testo, il Legislatore ha risolto.
Il soggetto tenuto all’installazione del contatore di fornitura è il distributore nella sua qualità di “esercente dell’attività di misura”. Il contatore, difatti, è il confine tra la competenza del distributore e quella del condominio.
La coincidenza di tale soggetto con il distributore è confermata dall’articolo 9 comma 1 del D. Lgs. 102/2014.
Pertanto, i distributori del gas o del teleriscaldamento, a loro cura, entro il 31 dicembre 2016, dovranno provvedere ad installare un “contatore di fornitura in corrispondenza dello scambiatore di calore di collegamento alla rete o del punto di fornitura dell’edificio o del condominio”. In caso di supercondominio, pertanto, non dovranno essere installati, a cura del distributore, ulteriori contatori in riferimento a ciascun edificio.
Ai sensi dell’articolo 2 comma 2, lettera i), il “contatore di fornitura” è l’”apparecchiatura di misura dell’energia consegnata. Il contatore di fornitura può essere individuale, nel caso in cui misuri il consumo di energia della singola unità immobiliare, oppure, fatta salva l’energia elettrica, può essere condominiale, nel caso in cui misuri l’energia consumata da una pluralità di unità immobiliari, come nel caso di un condominio o di un edificio polifunzionale”.
I contatori di fornitura dovranno riflettere con precisione il consumo effettivo e fornire informazioni sul tempo effettivo di utilizzo dell’energia e sulle relative fasce temporali.
E’ compito dell’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico, provvedere affinché i distributori assicurino che, sin dal momento dell’installazione dei contatori di fornitura, i clienti finali ottengano informazioni adeguate con riferimento alla lettura dei dati ed al monitoraggio del consumo energetico.
Nessuna attività, pertanto, dovrà essere effettuata dal Condominio. Ulteriore conferma di ciò è rinvenibile nell’articolo 16 comma 5 D. Lgs. 102/2014 il quale prevede che il destinatario della sanzione amministrativa da 500 a 2500 euro sia il distributore nella sua qualità di esercente dell’attività di misura.
Si ritiene che, benché possa essere utile, non sia obbligatorio porre un “sotto-contatore” in corrispondenza di ciascun edificio in caso di supercondominio.
  • SOGGETTO TENUTO AGLI OBBLIGHI AI SENSI DELLE LETTERE B) E C) 
Le lettere b) e c) riguardano, invece, interventi impiantistici che devono essere effettuati dai condominii o dagli edifici polifunzionali.
Il legislatore, tuttavia, prevede che l’installazione debba essere fatta a cura del “proprietario”.
Tale definizione non deve però essere letta in contrasto con l’articolo 26 comma 5 della Legge 10/1991, il quale attribuisce la competenza alla deliberazione degli interventi di cui all’articolo 9 comma 5 lettere b) e c) D. Lgs. 102/2014 e s.m.i., oltre che della scelta del professionista, all’assemblea dei condòmini.
Si ricordi che l’articolo 2 comma 1 lettera c) del D. Lgs. 102/2014, ad integrazione delle definizioni contenute nello stesso articolo, rinvia a quelle previste dal D. Lgs. 19 agosto 2005 n. 192 recante disposizioni in materia di rendimento energetico nell’edilizia.
Quest’ultimo, all’articolo 2 comma 1 lettera l-tricies, prevede quanto segue: “«impianto termico» è l’impianto tecnologico destinato ai servizi di climatizzazione invernale o estiva degli ambienti, con o senza produzione di acqua calda sanitaria, indipendentemente dal vettore energetico utilizzato, comprendente eventuali sistemi di produzione, distribuzione e utilizzazione del calore nonché gli organi di regolarizzazione e controllo. Sono compresi negli impianti termici gli impianti individuali di riscaldamento.
Non sono considerati impianti termici apparecchi quali: stufe, caminetti, apparecchi di riscaldamento localizzato ad energia radiante; tali apparecchi, se fissi, sono tuttavia assimilati agli impianti termici quando la somma delle potenze nominali del focolare degli apparecchi al servizio della singola unità immobiliare è maggiore o uguale a 5 kW. Non sono considerati impianti termici i sistemi dedicati esclusivamente alla produzione di acqua calda sanitaria al servizio di singole unità immobiliari ad uso residenziale ed assimilate”.

L’impianto è dunque composto da 4 sottosistemi: 
  1. produzione,
  2. distribuzione,
  3. regolazione all’interno dell’unità immobiliare e 
  4.  emissione.
Il primo e buona parte del secondo sono beni comuni ai sensi dell’articolo 1117 comma 1 n. 3 Codice Civile. La parte terminale della distribuzione, ovvero dal punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condòmini, la regolazione del calore e l’emissione dello stesso sono, invece, di proprietà individuale.
L’impianto in esame è forse l’unico in condominio che non termina nell’unità immobiliare. Il fluido termovettore, dal tratto terminale della distribuzione comune (colonna montante), si immette nella singola unità immobiliare (parte privata) per alimentare il corpo scaldante (di proprietà individuale), rilascia il calore, e utilizzando la distribuzione comune sopra citata, ritorna verso la fonte della produzione per essere nuovamente riscaldato. 
Va ricordato che il Legislatore con la Riforma del Condominio negli edifici (Legge 220/2012) ha modificato, tra gli altri, l’articolo 1117 comma 1 n. 3 codice civile. Quest’ultimo, oltre a prevedere che gli impianti sono comuni fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini (già contenuto nella precedente formulazione), ha aggiunto che questi, in caso di impianti unitari, sono comuni fino al punto di utenza.
L’impianto di riscaldamento potrebbe essere un ”impianto unitario”, categoria indicata dal Legislatore forse proprio per far comprendere che alcuni impianti devono essere visti nel loro insieme. Deve pertanto escludersi che la locuzione “a cura del proprietario” debba essere intesa nel senso che l’attività debba essere avulsa da un contesto condominiale. 
L’assemblea, pertanto, sceglierà il professionista per la redazione del progetto e l’impresa che dovrà effettuare le opere. Queste, tuttavia, devono essere effettuate dopo il punto di distacco (o di utenza) e, pertanto, il consenso all’accesso (che non può essere negato stante l’obbligatorietà della deliberazione assunta ai sensi di legge) e le spese devono essere a carico del singolo condomino. In questo contesto deve essere letta la locuzione “a cura del proprietario”. Prova ne è che sarà il singolo proprietario ad essere il destinatario della sanzione amministrativa ai sensi dell’articolo 16 comma 6 del medesimo D. Lgs. 102/2014, posto che, di fatto, l’intervento viene effettuato sulla sua proprietà.
  • ARTICOLO 9 COMMA 5 LETTERA B) INSTALLAZIONE DI SOTTO CONTATORI  
PRECEDENTE TESTO
(omissis) b) nei condomini e negli edifici polifunzionali riforniti da una fonte di riscaldamento o raffreddamento centralizzata o da una rete di teleriscaldamento o da un sistema di fornitura centralizzato che alimenta una pluralità di edifici, è obbligatoria l’installazione entro il 31 dicembre 2016 da parte delle imprese di fornitura del servizio di contatori individuali per misurare l’effettivo consumo di calore o di raffreddamento o di acqua calda per ciascuna unità immobiliare, nella misura in cui sia tecnicamente possibile, efficiente in termini di costi e proporzionato rispetto ai risparmi energetici potenziali. L’efficienza in termini di costi può essere valutata con riferimento alla metodologia indicata nella norma UNI EN 15459. Eventuali casi di impossibilità tecnica alla installazione dei suddetti sistemi di contabilizzazione devono essere riportati in apposita relazione tecnica del progettista o del tecnico abilitato; (omissis)

NUOVO TESTO
(omissis) b) nei condomini e negli edifici polifunzionali riforniti da una fonte di riscaldamento o raffreddamento centralizzata o da una rete di teleriscaldamento o da un sistema di fornitura centralizzato che alimenta una pluralità di edifici, è obbligatoria l’installazione entro il 31 dicembre 2016, a cura del proprietario, di sotto-contatori per misurare l’effettivo consumo di calore o di raffreddamento o di acqua calda per ciascuna unità immobiliare, nella misura in cui sia tecnicamente possibile, efficiente in termini di costi e proporzionato rispetto ai risparmi energetici potenziali. L’efficienza in termini di costi può essere valutata con riferimento alla metodologia indicata nella norma UNI EN 15459. Eventuali casi di impossibilità tecnica alla installazione dei suddetti sistemi di contabilizzazione o di inefficienza in termini di costi e sproporzione rispetto ai risparmi energetici potenziali, devono essere riportati in apposita relazione tecnica del progettista o del tecnico abilitato; (omissis)

Sostanziali modifiche rispetto al testo precedente, in punto interventi impiantistici, non ne vengono registrati.
Il Legislatore, ai fini del perseguimento degli obbiettivi di cui al capoverso del comma 5, privilegia l’intervento di cui alla presente lettera che trova principalmente applicazione in caso di sistemi di distribuzione così detti a zona. Viene previsto l’obbligo di installare un “sotto-contatore” per misurare l’effettivo consumo di calore o di raffreddamento o di acqua calda per ciascuna unità immobiliare.
L’articolo 2 comma 2 lettera qq-bis) ne dà la definizione: “sotto-contatore: contatore dell’energia che, con l’esclusione di quella elettrica, è posto a valle del contatore di fornitura di una pluralità di unità immobiliari per la misura dei consumi individuali o di edifici a loro volta formati da una pluralità di unità immobiliari ed è atto a misurare l’energia consumata dalla singola unità immobiliare o dal singolo edificio”.
La norma ha ad oggetto sia i condominii (“nei condomini e negli edifici polifunzionali riforniti da una fonte di riscaldamento o raffreddamento centralizzata o da una rete di teleriscaldamento” ...) sia i supercondomini (… “o da un sistema di fornitura centralizzato che alimenta una pluralità di edifici”). In questo secondo caso, la norma prevede che il “sotto-contatore” debba misurare l’effettivo consumo di calore o di raffreddamento o di acqua calda per ciascuna unità immobiliare. Non è pertanto obbligatorio porre un “sotto-contatore” in corrispondenza di ciascun edificio in caso di supercondominio.
Casi di non applicazione della lettera b):
a) impossibilità tecnica,
b) inefficienza dell’intervento in termini di costi e proporzionato rispetto ai risparmi energetici potenziali. L’efficienza in termini di costi può essere valutata con riferimento alla metodologia indicata nella norma UNI EN 15459. Tale norma è solo uno degli strumenti per individuare l’efficienza in termini di costi.

In entrambi i casi occorre che vi sia una apposita relazione tecnica del progettista o del tecnico abilitato (a differenza di quanto previsto nella lettera d), non è prevista l’asseverazione). In caso di mancata sussistenza di uno dei due casi sopra indicati, la sanzione amministrativa verrà contestata a tutti i condomini i quali, poi, potranno rivalersi nei confronti del professionista. Si ricorda che la sanzione, ai sensi dell’articolo 16 comma 6, è compresa tra 500 e 2500 euro per ciascuna unità immobiliare.
  • ARTICOLO 9 COMMA 5 LETTERA C) INSTALLAZIONE RIPARTITORI E TERMOSTATICHE
PRECEDENTE TESTO
(omissis) c) nei casi in cui l’uso di contatori individuali non sia tecnicamente possibile o non sia efficiente in termini di costi, per la misura del riscaldamento si ricorre all’installazione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore individuali per misurare il consumo di calore in corrispondenza a ciascun radiatore posto all’interno delle unità immobiliari dei condomini o degli edifici polifunzionali, secondo quanto previsto dalle norme tecniche vigenti, con esclusione di quelli situati negli spazi comuni degli edifici, salvo che l’installazione di tali sistemi risulti essere non efficiente in termini di costi con riferimento alla metodologia indicata nella norma UNI EN 15459. In tali casi sono presi in considerazione metodi alternativi efficienti in termini di costi per la misurazione del consumo di calore. Il cliente finale può affidare la gestione del servizio di termoregolazione e contabilizzazione del calore ad altro operatore diverso dall’impresa di fornitura, secondo modalità stabilite dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico, ferma restando la necessità di garantire la continuità nella misurazione del dato. (omissis)

NUOVO TESTO
(omissis) c) nei casi in cui l’uso di sotto-contatori non sia tecnicamente possibile o non sia efficiente in termini di costi e proporzionato rispetto ai risparmi energetici potenziali, per la misura del riscaldamento si ricorre, a cura dei medesimi soggetti di cui alla lettera b), all’installazione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore individuali per quantificare il consumo di calore in corrispondenza a ciascun corpo scaldante posto all’interno delle unità immobiliari dei condomini o degli edifici polifunzionali, secondo quanto previsto norme tecniche vigenti, salvo che l’installazione di tali sistemi risulti essere non efficiente in termini di costi con riferimento alla metodologia indicata nella norma UNI EN 15459. (omissis)

Solo nel caso di impossibilità di procedere all’installazione dei sistemi di cui alla lettera b), occorre effettuare gli interventi previsti nella lettera c). Vi è quindi una gradualità che deve essere accertata e dichiarata, da un professionista abilitato, in una relazione tecnica (non asseverata).
Si ritiene che tale lettera si riferisca principalmente ai casi di distribuzione verticale.
La lettera in esame non trova applicazione, secondo il legislatore, solo qualora l’installazione di tali sistemi risulti essere non efficiente in termini di costi.
Mentre con riferimento alla lettera b) la parola “può” lasciava intendere che fosse possibile individuare la inefficienza anche attraverso ulteriori e diversi calcoli, in tal caso sembra che il legislatore voglia ancorare l’impossibilità solo con riferimento alla metodologia indicata nella norma UNI EN 15459.
In caso di inefficienza in termini di costi, è stato eliminato l’obbligo di prendere in considerazione metodi alternativi efficienti in termini di costi per la misurazione del consumo di calore.
Inoltre si registra che il legislatore non ha previsto, in riferimento alla lettera c), l’impossibilità tecnica, così come nella precedente formulazione.
  • ARTICOLO 9 COMMA 5 LETTERA D) RIPARTIZIONE DELLE SPESE
PRECEDENTE TESTO
d) quando i condomini sono alimentati dal teleriscaldamento o teleraffreddamento o da sistemi comuni di riscaldamento o raffreddamento, per la corretta suddivisione delle spese connesse al consumo di calore per il riscaldamento degli appartamenti e delle aree comuni, qualora le scale e i corridoi siano dotati di radiatori, e all’uso di acqua calda per il fabbisogno domestico, se prodotta in modo centralizzato, l’importo complessivo deve essere suddiviso in relazione agli effettivi prelievi volontari di energia termica utile e ai costi generali per la manutenzione dell’impianto, secondo quanto previsto dalla norma tecnica UNI 10200 e successivi aggiornamenti. E’ fatta salva la possibilità, per la prima stagione termica successiva all’installazione dei dispositivi di cui al presente comma, che la suddivisione si determini in base ai soli millesimi di proprietà.

NUOVO TESTO
d) quando i condomini o gli edifici polifunzionali sono alimentati da teleriscaldamento o teleraffreddamento o da sistemi comuni di riscaldamento o raffreddamento, per la corretta suddivisione delle spese connesse al consumo di calore per il riscaldamento, il raffreddamento delle unità immobiliari e delle aree comuni, nonché per l’uso di acqua calda per il fabbisogno domestico, se prodotta in modo centralizzato, l’importo complessivo è suddiviso tra gli utenti finali, in base alla norma tecnica UNI 10200 e successive modifiche e aggiornamenti. Ove tale norma non sia applicabile o laddove siano comprovate, tramite apposita relazione tecnica asseverata, differenze di fabbisogno termico per metro quadro tra le unità immobiliari costituenti il condominio o l’edificio polifunzionale superiori al 50 per cento, è possibile suddividere l’importo complessivo tra gli utenti finali attribuendo una quota di almeno il 70 per cento agli effettivi prelievi volontari di energia termica. In tal caso gli importi rimanenti possono essere ripartiti, a titolo esemplificativo e non esaustivo, secondo i millesimi, i metri quadri o i metri cubi utili, oppure secondo le potenze installate. È fatta salva la possibilità, per la prima stagione termica successiva all’installazione dei dispositivi di cui al presente comma, che la suddivisione si determini in base ai soli millesimi di proprietà. Le disposizioni di cui alla presente lettera sono facoltative nei condomini o gli edifici polifunzionali ove alla data di entrata in vigore del presente decreto si sia già provveduto all’installazione dei dispositivi di cui al presente comma e si sia già provveduto alla relativa suddivisione delle spese.

Applicazione norma UNI 10200:2015
La norma generale prevede che per ripartire le spese del riscaldamento in base ai consumi effettivi, sia obbligatorio il ricorso alla norma UNI 10200:2015 (al momento in cui viene redatta la presente relazione è in vigore la norma del 2015).
Pertanto, detta norma deve essere utilizzata successivamente all’esecuzione delle opere di cui alle lettere b) o c) dell’articolo 9 comma 5, D. Lgs. 102/2014. Anche a seguito della modifica al D. Lgs. 102/2014, non è assolutamente consentito, ad oggi, il ricorso ai così detti “coefficienti correttivi” per compensare le maggiori dispersioni dalle unità immobiliari. Il riferimento agli appartamenti più sfavoriti è contenuto nella stessa lettera d) ed oggetto di precisa disciplina in quanto eccezione alla norma generale (si veda più avanti nella presente relazione).
Ai fini della ripartizione della spesa, nessuna rilevanza ha la modifica effettuata dal legislatore nella parte in cui, in riferimento al richiamo alla norma UNI 10200:2015 ove applicabile, non è più contenuta la locuzione “effettivi prelievi volontari di energia termica utile”.
Si osservi, nell’insieme, la disciplina di cui all’articolo 9 comma 5.
Innanzitutto la rubrica dell’articolo recita: “Misurazione e fatturazione dei consumi energetici”. Già in essa, pertanto, si rinviene l’importanza della misurazione del calore consumato e la conseguente fatturazione (ripartizione) posto che è assente ogni riferimento agli interventi impiantistici.
Il capoverso del comma 5 individua l’obbiettivo del legislatore nell’emanazione della norma: “favorire il contenimento dei consumi energetici”. Lo strumento individuato per il raggiungimento è “la contabilizzazione dei consumi di ciascuna unità immobiliare e la suddivisione delle spese in base ai consumi effettivi delle medesime”. 
Si noti che il legislatore fa riferimento ai consumi e alla conseguente ripartizione. Non fa mai riferimento diretto ai motivi che determinano i prelievi di calore (cioè le dispersioni). 
I consumi, pertanto, corrispondono al calore prelevato. Le dispersioni afferiscono all’involucro (ciò che genera il ricorso ai coefficienti correttivi), sono causa dei consumi e generano i costi per il raggiungimento della situazione di comfort che il legislatore ha individuato in 20 gradi (con tolleranza di +2).
Il concetto di consumo (e quindi non di causa che lo determina) è rinvenibile già dal 1991 nella Legge 10 all’articolo 26 comma 5. Tale norma (non abrogata) prevede che la spesa del riscaldamento debba essere effettuata in riferimento ai “consumi effettivi” senza citare i motivi per i quali i consumi vengono generati.
Lo stesso principio viene rinvenuto nel capoverso del comma 5 che, addirittura, viene indicato quale strumento per il contenimento dei consumi energetici.
Il principio dell’effettivo consumo di calore è rinvenibile nuovamente nella lettera b) del comma 5. 

I sotto-contatori devono misurare tre consumi:
  1. calore,
  2.  raffreddamento
  3.  acqua calda (sanitaria)
Anche in questo caso nessun riferimento al motivo per il quale il consumo deve essere effettuato (dispersioni di calore).
Analogamente viene previsto l’obbligo alla successiva lettera c), la quale impone l’adozione dei sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore individuali per quantificare il consumo di calore in corrispondenza a ciascun corpo scaldante. Anche in questo caso, il consumo effettivo è riferito al calore rilasciato da ciascun corpo scaldante e non vi è alcun riferimento alle dispersioni dall’involucro.
Si consideri inoltre il momento storico in cui è stato pubblicato il Decreto Legislativo che ha integrato il D. Lgs. 102/2014 (a decorrere dal 26 luglio 2016), quando, cioè, è ancora in vigore la norma UNI 10200 del 2015, nella quale non sono previsti i coefficienti correttivi.
Inoltre, come meglio si potrà vedere nel prosieguo, il riferimento agli effettivi prelievi volontari di energia termica è contenuto nella parte di norma che disciplina la mancata applicazione della 10200:2015. In tal caso, dovendo normare un caso in cui non trova applicazione la norma tecnica, il legislatore ha dovuto richiamare il principio base che, comunque, è rispettoso del principio del consumo effettivo.
Non è pertanto possibile immaginare che vi possano essere differenze di ripartizione a seconda dell’applicazione o meno della 10200:2015.
Da quanto sopra ne consegue che, anche successivamente alla modifica del D. Lgs. 102/2014 articolo 9 comma 5 lettera d), non è possibile fare ricorso ai coefficienti che tengano in considerazione le dispersioni di calore dall’involucro per modificare il criterio di ripartizione della spesa del riscaldamento.
E’ invece assolutamente obbligatorio il ricorso alla norma UNI 10200:2015 che deve continuare ad essere fedele a tale principio.

Caso di mancata applicazione della 10200:2015
Il Legislatore, innovando la norma sino ad oggi in vigore, introduce l’eccezione alla norma generale.

Nei caso in cui
a) la norma UNI 10200:2015 non sia applicabile
b) benché applicabile, siano comprovate, tramite apposita relazione tecnica asseverata, differenze di fabbisogno termico per metro quadro tra le unità immobiliari costituenti il condominio o l’edificio polifunzionale superiori al 50 per cento.

In tali casi è possibile suddividere l’importo complessivo tra gli utenti finali attribuendo una quota di almeno il 70 per cento agli effettivi prelievi volontari di energia termica. Gli importi rimanenti possono essere ripartiti, a titolo esemplificativo e non esaustivo, secondo i millesimi, i metri quadri o i metri cubi utili, oppure secondo le potenze installate.
L’eccezione deve essere sempre letta come tale, senza possibilità di interpretazioni analogiche e, nel dubbio, facendo sempre riferimento, per quanto applicabili, ai principi generali.
Il caso eccezionale di cui alla lettera b) lascia all’assemblea (con la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà dei millesimi di coloro che sin dall’origine erano allacciati all’impianto di riscaldamento, raffrescamento e acqua calda sanitaria, comprendendo anche i distaccati), la scelta se ricorrere alla norma UNI 10200:2015 oppure se ripartire la spesa del riscaldamento secondo i diversi criteri indicati nella lettera d) del comma 5 articolo 9.
Il fabbisogno è determinato anche dalle dispersioni dell’involucro e dai carichi termici. Le dispersioni, però, avvengono verso l’esterno, verso le parti comuni (cassa delle scale, soffitta, cantine, box interrati) e verso le unità confinanti non climatizzate benchè allacciate all’impianto.
Quest’ultimo caso riguarda, però, una circostanza transitoria suscettibile di variazione continua. Si ritiene che debbano considerarsi solo le condizioni standard. Si consideri anche che, a parità di coibentazione, vi saranno maggiori dispersioni (e quindi un diverso fabbisogno) in riferimento agli appartamenti esposti verso nord. Le norme tecniche di riferimento per il calcolo del fabbisogno termico per i servizi di riscaldamento, raffrescamento e acqua calda sanitaria, sono le specifiche tecniche UNI TS 11300 parti 1 e 2.
Ricorrendo tale circostanza e sussistendo la volontà dell’assemblea di non ricorrere alla norma UNI 10200:2015, occorre utilizzare esclusivamente il nuovo criterio individuato dal Legislatore. Quest’ultimo deve essere effettuato prevedendo una quota per il consumo effettivo ed una per le restanti spese.
La prima quota deve essere almeno (quindi da intendersi come minimo) del 70%. In tale caso la spesa deve essere ripartita sulla base degli effettivi prelievi volontari. Non può quindi, nemmeno in assenza di applicazione della 10200:2015, farsi ricorso ai coefficienti correttivi.
La restante parte deve essere ripartita sulla base di criteri individuati dal legislatore quali esemplificativi e non esaustivi. L’esemplificazione, tuttavia, deve essere utilizzata per individuare ulteriori e possibili altri criteri. Questi, però, devono fare ricorso ad elementi quali la superficie scaldata o la superficie scaldante. Anche in questo caso non viene fatto dal legislatore ricorso alle dispersioni dalle pareti (verticali o orizzontali) o dalla copertura.
Queste possono essere calcolate solo per individuare la sussistenza del caso di non applicazione. Una volta accertato questo, la ripartizione non deve più tenere conto delle dispersioni.
Va precisato che, in ogni caso, occorre una relazione redatta da un tecnico. Non è pertanto lasciata la possibilità all’assemblea di decidere autonomamente e senza motivazione, se disapplicare la norma UNI 10200:2015.
Pertanto, inizialmente il tecnico abilitato effettuerà il calcolo per determinare se vi siano comprovate differenze di fabbisogno termico per metro quadro tra le unità immobiliari costituenti il condominio o l’edificio polifunzionale superiori al 50 per cento. In caso positivo successivamente l’assemblea deciderà se applicare ugualmente la 10200:2015 nella sua interezza, oppure se disapplicare la norma e ricorrere al diverso criterio individuato dal legislatore. In questo secondo caso, spetterà all’assemblea individuare i criteri per la ripartizione delle spese.
Ulteriore eccezione per la prima stagione termica E’ stata confermata la possibilità, per la prima stagione termica successiva all’installazione dei dispositivi di cui al comma 5 dell’articolo 9, che la suddivisione si determini in base ai soli millesimi di proprietà. Non è pertanto possibile utilizzare altri criteri quali, ad esempio, la precedente tabella del riscaldamento.

Condomini che si sono già adeguati 
Le disposizioni di cui alla lettera d) contenenti i criteri per la ripartizione delle spese del riscaldamento, sono facoltative nei condomini o negli edifici polifunzionali ove alla data di entrata in vigore delle modifiche al decreto 102/2014, si sia già provveduto all’installazione dei dispositivi di cui al presente comma e si sia già provveduto alla relativa suddivisione delle spese.
Ai fini interpretativi è opportuno richiamare la relazione illustrativa al punto punto 4.4: “È previsto inoltre che, al fine di non prevedere nuovi oneri per i soggetti che hanno già provveduto in anticipo ad adeguarsi alla normativa, le disposizioni di cui alla presente lettera siano facoltative nei condomini o negli edifici polifunzionali ove alla data di entrata in vigore del presente decreto si sia già provveduto all’installazione dei dispositivi di cui al presente comma e si sia già provveduto alla relativa suddivisione delle spese”.
La disposizione citata, pertanto, non vuole significare che qualsiasi criterio prima adottato possa essere legittimamente conservato.
Coloro che, prima dell’entrata in vigore delle modifiche al 102/2014, facevano ricorso ai coefficienti correttivi o ad altri criteri di ripartizione, non potranno continuare ad utilizzarli in quanto già prima non conformi a legge.
Sino all’entrata in vigore delle modifiche al D. Lgs. 102/2014, trova applicazione l’attuale formulazione della lettera d), secondo la quale le spese vanno ripartite sulla base della norma UNI 10200 (ad oggi la versione del 2015).
Al momento dell’entrata in vigore delle modifiche, cessa di avere efficacia la precedente formulazione ed inizia ad avere efficacia la nuova.
La nuova disposizione non ha efficacia retroattiva, nel senso che non può riconoscere validi criteri che, nel momento in cui sono stati adottati, erano contrari a legge stante la vigenza della precedente formulazione del testo.
Il Legislatore vuole semplicemente evitare che coloro che già hanno fatto effettuare i calcoli ai sensi della norma UNI 10200 del 2013 o del 2015, siano costretti a dare incarico ad un professionista per far fare nuovi calcoli.

I condomini, pertanto, dopo l’entrata in vigore della nuova norma, potranno decidere tra le seguenti ipotesi:
  • conservare il criterio di riparto conforme alla norma UNI 10200 del 2013 o del 2015;
  • fare effettuare nuovi calcoli sulla base della norma UNI 10200:2015 di prossima pubblicazione;
  • nel caso in cui vi siano differenze di fabbisogni superiori al 50% tra le unità immobiliari, disattendere la norma UNI 10200:2015 e ripartire sulla base delle indicazioni del legislatore.

Sullo stesso argomento:
Continua a leggere...

Contabilizzazione: Le due alternative (NOVITA' norma uni 10200)

Vi sono due diverse modalità per la ripartizione della spesa del riscaldamento a seguito dell’adozione dei sistemi di contabilizzazione e termoregolazione.
La prima è il rinvio fatto dall’articolo 9 comma 5 lettera d) del D. Lgs. 102/2014, alla norma UNI 10200. Alla data odierna è in vigore la norma approvata nel 2015. E’ però all’esame dell’UNI la nuova versione che, presumibilmente vedrà la luce entro la fine del corrente anno 2016 o nei primi mesi del 2017. Tale ultima norma, tra le altre cose, dovrebbe anche contenere i criteri di calcolo per la ripartizione nelle così dette “seconde case”, caratterizzate da una occupazione discontinua.
Ricorrendo alla norma UNI occorre anche procedere al calcolo della nuova tabella millesimale per la ripartizione delle dispersioni di rete, della manutenzione ordinaria, del terzo responsabile e della forza motrice.
Negli edifici serviti da un impianto di distribuzione verticale sarà anche necessario calcolare le dispersioni della rete, solitamente espresse in una percentuale.
In caso, invece, di distribuzione a zona (o così detta orizzontale) tale determinazione non è necessaria. Infatti la quantità delle dispersioni viene calcolata a seguito di differenza tra la somma dei consumi rilevati nelle singole unità immobiliari ed il totale complessivo dei consumi dell’edificio. Non sembrerebbe infatti possibile continuare ad utilizzare la precedente tabella millesimale del riscaldamento solitamente calcolata in base alla superficie scaldante o ai metri quadri. Tale criterio di formazione dei millesimi non è più rispettoso del criterio proporzionale in quanto ciò che rileva è la quantità di energia potenzialmente necessaria per raggiungere il grado di comfort (il fabbisogno energetico).
Si ritiene che la delibera contraria all’adozione della nuova tabella a favore di quella precedente sia viziata da nullità. Riflessioni sul punto portano a ritenere il D. Lgs. 102/2014, il quale richiama la UNI 10200, norma imperativa e, in quanto tale, non derogabile.
E’ la stessa norma UNI 10200 a prevedere che per il calcolo dei nuovi millesimi sia necessario il ricorso al fabbisogno energetico delle singole unità immobiliari.
Ai fini del calcolo del fabbisogno energetico, il tecnico dovrà utilizzare le norme UNI TS 11300 ma non dovrà ignorare quanto previsto dall’articolo 68 comma 2 delle disposizioni di attuazione del codice civile.
Non dovranno quindi essere considerate quelle migliorie apportate all’interno delle singole unità immobiliari anche se le stesse hanno effettivamente diminuito il fabbisogno energetico. Non dovranno quindi essere considerati i doppi vetri o le eventuali coibentazioni interne dei singoli alloggi.
Tali interventi vedranno una minore necessità di prelievo di calore e, quindi, una riduzione della quota a consumo. 
Diverso è il caso del nuovo criterio di ripartizione della spesa introdotto dal D. Lgs. 141/2016 che ha apportato integrazioni al D. Lgs. 102/2014. Qualora siano comprovate, tramite apposita relazione tecnica asseverata, differenze di fabbisogno termico per metro quadro tra le unità immobiliari costituenti il condominio o l’edificio polifunzionale superiori al 50 per cento, l’assemblea potrà decidere se applicare o meno la UNI 10200.
In tale seconda ipotesi, non sarà nemmeno più necessario calcolare la nuova tabella millesimale. E’ la legge stessa, in questo caso, a dettare il criterio per la ripartizione delle dispersioni di rete e degli altri costi. 
Il calcolo del fabbisogno, però, deve essere effettuato ugualmente. In questo caso, tuttavia, non essendo lo stesso necessario per calcolare una proporzione, ma dovendo invece effettuare una “fotografia” dell’edificio in termini di fabbisogni, il tecnico dovrà considerare lo stato attuale dell’involucro edilizio, comprendendo, così, anche le migliorie quali, ad esempio, i doppi vetri.
Non appare di immediata interpretazione il riferimento alla differenza. 
Verrebbe da ritenere che il riferimento al metro quadro indichi la necessità di individuare il fabbisogno di ciascuna unità immobiliare. Questi, sommati tra loro, consentiranno di individuare la media del fabbisogno per l’intero edificio. Tale dato dovrebbe essere il riferimento per verificare la differenza.
In ogni caso il riferimento al fabbisogno è tale da far sì che non debbano essere considerati solo gli appartamenti posti all’ultimo piano o al piano pilotis, ma anche, ad esempio, i fabbisogni di quelli esposti a nord.
Nel caso in cui le differenze dovessero essere superiori al 50%, l’assemblea potrà decidere di non applicare la norma UNI 10200. 
Sussistendo tale differenza, non sembrerebbe di intendere che sia obbligatorio non applicare la norma UNI, ma venga lasciata all’assemblea la facoltà di scegliere.
Non avendo previsto una maggioranza, si ritiene che la stessa potrebbe essere quella necessaria per l’approvazione del nuovo criterio ai sensi dell’articolo 26 comma 5 legge 10/1991: la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà dei millesimi.
Non avendo previsto una maggioranza, si ritiene che la stessa potrebbe essere quella necessaria per l’approvazione del nuovo criterio ai sensi dell’articolo 26 comma 5 legge 10/1991: la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà dei millesimi.
Questi, infatti, servono a compensare le dispersioni dall’involucro. La norma, invece, richiama espressamente i soli prelievi, indipendentemente dalla necessità che li ha creati (le dispersioni).
La restante parte potrà essere ripartita con criteri diversi rispetto alla tabella millesimale prevista dalla UNI 10200 quali, ad esempio, i metri quadri o i metri cubi utili, oppure secondo le potenze installate. Probabilmente la vecchia tabella millesimale del riscaldamento soddisfa tali requisiti e potrebbe essere nuovamente utilizzata.
Non applicando la UNI 10200, sarà l’assemblea a decidere che al massimo il 30% potrà essere ripartito sulla base dei criteri indicati dal legislatore. Non sembrerebbe più necessario procedere a far calcolare le dispersioni di rete.
In ogni caso, sembra che nemmeno nella parte percentuale residuale sia possibile utilizzare criteri di ripartizione che facciano riferimento alle dispersioni dall’involucro. Quindi nemmeno in questa sede possono essere introdotti i coefficienti correttivi.
Si avrebbe pertanto una norma che consente di non ricorrere alla UNI 10200 qualora vi siano forti differenze di fabbisogno determinate dalle dispersioni. Tuttavia, nella determinazione del criterio di ripartizione, le dispersioni dalle parti comuni non possono essere utilizzate per la determinazione dei criteri di ripartizione.
Per la quota a consumo, che deve essere almeno il 70% della spesa ripartita sulla base degli effettivi prelievi volontari di energia termica utile (cioè il calore rilasciato dai termosifoni), non sembrerebbe vi siano rilevanti differenze in caso di applicazione o meno della UNI 10200.
La differenza tra le due ipotesi sembra limitata alla ripartizione dei restanti costi nella parte in cui, non dovendo utilizzare il fabbisogno energetico al fine del calcolo della tabella millesimale, gli appartamenti sfavoriti non vengono penalizzati due volte.
Non vi dovrebbero essere risparmi in riferimento al professionista.
Infatti, senza il calcolo del fabbisogno, l’assemblea non ha gli strumenti per effettuare la scelta consentita dal legislatore. 
In ogni caso, quindi, occorre il calcolo del fabbisogno.

di Edoardo Riccio
Coordinatore Giuridico CSN

Sullo stesso argomento:
Continua a leggere...
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...